L’Eneide di Virgilio veniva letta a scuola da quasi tutti i giovani romani, e doveva essere una sorta di “sussidiario” permanente per chiunque si avvicinasse alla lingua e alla cultura di Roma.
Non stupisce dunque che nel campo militare di Vindolanda (in Scozia) sia stata trovata una sottile “tavoletta” di legno con qualche verso del poema scritto a penna, forse da un soldato che stava imparando a scrivere. Neppure ci meraviglia che l’eco degli esametri virgiliani compaia in alcune scritte graffite sui muri, talora anche in forma parodistica; e – dulcis in fundo – che l’Eneide abbia offerto spunti all’epigrafia funeraria, ricchissima di “formule” virgiliane: prima fra tutte, per frequenza ed efficacia, compare con numerose varianti l’espressione funere mersit acerbo (Eneide 11, 25) che accomuna destini altrimenti anonimi a quello tragico ed eroico del giovane Pallante.
Virgilio poeta pop
Insomma, possiamo senza dubbio dire che Virgilio fosse in antico (anche) un poeta pop; egli – complice anche la mediazione dantesca – ha poi accompagnato nei secoli generazioni di lettori, insieme al “suo” pius Aeneas, eroe che – pur senza la forza di un Achille o l’astuzia di un Odisseo – ha avuto anch’egli i suoi ammiratori, non foss’altro perché dal suo seme si è generata la potenza di Roma.
Eppure, abbiamo rischiato che nulla di tutto ciò ci restasse, poiché – come è noto – Virgilio, morente, aveva dato disposizione di dare alle fiamme il poema a lungo rimaneggiato ma non ancora redatto ad unguem; disposizione non accolta per volontà di Augusto, che ne affidò invece revisione ed edizione ai poeti Vario e Tucca.
Tra le opere che, in assenza dell’Eneide, non sarebbero mai state scritte ci sono due romanzi contemporanei dei quali intendo parlare in questa sede. Il primo, della filologa e scrittrice spagnola Irene Vallejo, è stato appena pubblicato in Italia nella traduzione di Monica R. Bedana, e si intitola Il mio arco riposa muto, Bompiani, Milano 2023. Il secondo, scritto da Sebastiano Vassalli nel 1999, da poco riedito a cura di Cristina Nesi – che ne ha scritto un’acuta introduzione – è l’ormai celebre (quasi un classico esso stesso) Un infinito numero, BUR, Milano 2023.
Infatti, pur nella loro diversità, ci parlano entrambe di Enea e – soprattutto – del travaglio del poeta che ne ha narrato le vicende.
L’Enea di Irene Vallejo: un inquieto pacifista
Cominciamo dal libro di Irene Vallejo, e lo facciamo con un’affermazione tanto semplice quanto chiara: è un libro bello, molto bello. Il “cuore” del racconto è lo sbarco di Enea a Cartagine, dal quale conseguono il fatale incontro con la regina Didone (qui chiamata Elissa, con il termine punico) e l’altrettanto fatale necessità di muovere verso l’Italia per dare inizio alla stirpe romana. L’Autrice dà voce in prima persona ai personaggi, alle loro sensibilità, alla loro soggettiva visione del mondo; e indubbiamente, tra gli altri, spicca la complessità caratteriale della regina Cartaginese, politicamente autorevole ma emotivamente fragile, e l’inquietudine di Enea, eroe tormentato dagli orrendi fantasmi della guerra troiana, e pertanto alla ricerca della pace, per sé e il figlio Iulo (sogna così un «riposo» del suo arco da guerra, come si evince dal titolo). A proposito di Iulo, Vallejo inserisce nella trama una bellissima storia di amicizia tra bambini: quella tra il figlio di Enea e la sorellastra di Elissa, Anna, che non è qui la saggia confidente della regina creata da Virgilio, ma una bimba assai sensibile, fornita di doti quasi profetiche.
E Virgilio? Virgilio appare come una figura esterna agli eventi, al pari del dio Eros che instilla l’amore tra Enea ed Elissa. Ma se Eros è una sorta di divinità epicurea, atarassica e pertanto invidiosa delle emozioni e debolezze umane, Virgilio quelle emozioni e debolezze le manifesta tutte, soprattutto davanti alle insistenze di Augusto che di certo voleva un epos nel quale la celebrazione della sua figura fosse più evidente. E invece il nostro poeta mantovano gli regalò sì un capolavoro, ma nel quale le lacrimae rerum non erano celate; un poema solcato – come ha scritto il grande latinista Antonio La Penna – dall’ombra della «impossibile giustificazione della storia», troppo, troppo, costellata di dolore (A. La Penna, Un’impossibile giustificazione della storia. Un’interpretazione di Virgilio, Laterza, Roma-Bari, 2005). D’altronde Vallejo affida al Virgilio-personaggio la persistente meditazione del verso omerico pronunciato da Elena di Troia nel sesto libro dell’Iliade: «I poeti canteranno le nostre sofferenze».
Le pagine del romanzo si susseguono nitide, con una prosa solo in apparenza semplice che in realtà è costellata di allusioni (talora vere e proprie palesi citazioni) lucreziane, ovidiane, oraziane e – ovviamente – virgiliane, che possiamo leggere nella sobria ed elegante traduzione di Monica R. Bedana, un vero valore aggiunto alla qualità dell’opera.
L’Enea di Sebastiano Vassalli: un violento predone
Come anticipavo, il romanzo di Sebastiano Vassalli è molto diverso da quello appena menzionato; non sbaglio – credo – nel definirlo un testo più complesso, che la recente introduzione di Cristina Nesi sottrae alla tradizionale definizione di «romanzo storico».
La narrazione avviene per bocca di Timodemo, ex schiavo di Virgilio, che accompagnò il suo padrone e Mecenate nella terra degli Etruschi dove, per mezzo di un rito esoterico, i due cittadini romani vengono iniziati alla conoscenza di quelle vicende che avrebbero dovuto corroborare il poema virgiliano, altrimenti ignote a causa della repulsione etrusca per l’uso della scrittura. La storia mitica di Roma, però, è tutt’altro che lusinghiera: infatti i profughi troiani sbarcati nel Lazio erano «una banda di predoni, come non ce n’erano mai state in passato», che si resero responsabili di violenze, stupri, atrocità di ogni genere, sotto la guida di Eneas «uomo grasso e schifoso, più viscido di una lumaca e più puzzolente di un porco». Ovviamente la ragion di Stato forzò l’interpretazione filo-augustea di un poema che – come già abbiamo detto – Virgilio (che ne aveva previsto la mistificazione) voleva distruggere, e che Timodemo aveva davvero provato a far sparire, ma invano.
Ma perché non sarebbe un «romanzo storico»? Perché passato, presente e futuro si confondono volutamente, in una magistrale finzione romanzesca che rende vana qualunque cronologia. Infatti Timodemo – una sorta di epifania che proviene dal passato – racconta, nel presente, la vicenda (essa stessa frutto di una profezia) direttamente all’Autore, seduto con lui sulla panchina del suo bel giardino nel Novarese (del quale ho scritto su queste colonne); e preconizza per il futuro un ciclico ritorno del passato di sapore nietzschiano. E proprio dallo Zarathustra di Nietzsche – ricorda Cristina Nesi – è tratta l’epigrafe iniziale dell’opera «Tutti gli stati che questo mondo può raggiungere, li ha già raggiunti, e non una sola volta, ma un infinito numero di volte». Pure realtà e fantasia non hanno una loro chiara identificazione se è proprio Timodemo a dire a Vassalli «tu sei un personaggio del mio sogno»; affermazione nella quale certo c’è tutto il genio di Sebastiano Vassalli, ma che mi piace pensare possa contenere anche un’eco di quel soggettivismo virgiliano di cui molto ha scritto la critica moderna.
Soggettivismo virgiliano e finzione romanzesca
In fondo, si tratta di un elemento – il soggettivismo – che accomuna i due romanzi di cui abbiamo parlato, perché se il primo – come già si è detto – filtra la vicenda attraverso la composita sensibilità dei suoi protagonisti, il secondo propone la vicenda stessa come l’esito di una sorta di “telefono senza fili” (mi si perdoni la banalizzazione…) che principia dalle profezie udite da Virgilio nel tempio del dio–dea etrusco dell’oltretomba, Mantus e arriva al moderno Autore-rapsodo per bocca di Timodemo. Così assumono piena legittimità sia l’Enea dubbioso, talora dolente, di Vallejo, sia il suo crudele alter ego immaginato da Vassalli. Il mite Virgilio, credo, avrebbe preferito che il suo eroe non si macchiasse di orrendi delitti, ma quand’anche così fosse avvenuto non se ne sarebbe di certo stupito: ciò perché la «violenza della storia» esiste, anche (e soprattutto?) nel mondo virgiliano, se è vero che Antonio La Penna vi dedica un intero capitolo del fondamentale saggio che ho supra citato.
Maurizio Bettini – qualche anno fa – ha scritto che «se non leggeremo più l’Eneide perderemo il contatto non solo con il mondo romano, ma anche con ciò che è venuto dopo. Perdere Virgilio significa perdere anche Dante e così via» (M. Bettini, A che servono i Greci e i Romani?, Einaudi, Torino 2017), frase che è un eccellente monito contro quella cancellazione o censura dei classici che qualcuno stoltamente invoca, ogni tanto, soprattutto nelle università di là dall’Oceano. Classici come l’Eneide, la cui perenne vivacità e moderna alterità (scusate l’ossimoro) sono a mio avviso ben documentate non solo dai “grandi” seguaci o interpreti (come Dante, appunto, oppure Tasso e Metastasio) ma anche dai molti altri ai quali Bettini alludeva nella frase appena menzionata con l’espressione «così via»; e tra le opere che tengono ben viva la memoria virgiliana annovererei senz’altro anche i due eccellenti volumi dei quali ho voluto qui chiacchierare con i lettori della Ricerca, dopo avere già ragionato nelle scorse settimane sulla rilettura dell’Iliade di Giuseppe Zanetto ad uso dei più giovani, ma non solo. Dopo Omero, infatti, potevo forse non parlare anche di Virgilio?
Concludo con una brevissima appendice didattica. Per anni ho invitato (è ovviamente un eufemismo: ho obbligato…) i miei studenti di liceo classico alla lettura del romanzo vassalliano, e continuerò a farlo, tanto più ora che – riedito – sarà di più facile reperimento; non mancherò però di suggerire (continua l’eufemismo) anche il recente libro di Irene Vallejo, magari – perché no? – proponendo un confronto tra i due e, ovviamente, facendo dialogare entrambi con l’originale virgiliano.