A che servono Greci e Romani?

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Questa domanda mi è stata posta decine, forse centinaia di volte da persone di varia età, formazione culturale, posizione sociale: d’altra parte a chi se non a un classicista, professore di Lettere, tale quesito va posto? Ho risposto in vari modi, talora più persuasivi e originali, talora – temo – più opachi e conformistici.
Maurizio Bettini.

Certamente, però, ho spesso usato alcune delle argomentazioni che Maurizio Bettini propone nel suo recente libro intitolato appunto A che servono i Greci e i Romani?, Einaudi, Torino 2017. D’altronde che io mi trovi in consonanza di idee con questo studioso è cosa che capita spesso, anche perché Bettini – insieme con altri membri del Centro AMA (Antropologia e Mondo Antico, Università di Siena) – in questi anni si è davvero calato nella realtà “operativa” dell’insegnamento delle lingue classiche nei licei, e ciò ha offerto a noi docenti importanti occasioni di confronto, collaborazione, formazione.

Modelli linguistici e memoria culturale

Ma servono allora o no i classici greci e latini? Ovviamente sì, ma – osserva Bettini – senza enfatizzare il loro ruolo di matrice “identitaria” della nostra civiltà: Greci e Romani non sono infatti le nostre “radici” tout-court, ma le nostre “radici” linguistiche e culturali. E ciò basta e avanza.
E se l’italiano (come già disse più o meno del francese il grande Marcel Proust) è in fondo un “latino parlato male” (p. 39), non dobbiamo vergognarci (come qualcuno invece afferma) di fare studiare il latino (lingua “chiusa”, al pari del greco, e non “morta”!) nelle nostre scuole: in fondo gli indiani studiano il sanscrito, cinesi e giapponesi gli ideogrammi antichi… consapevoli che è da lì che derivano le loro modalità espressive.

E. Delacroix, La barca di Dante (1822).

Ma è ancor più nella “memoria culturale” che l’utilità di Greci e Romani si fa indispensabile, perché “se non leggeremo più l’Eneide perderemo contatto non solo con il mondo romano, ma anche con ciò che è venuto dopo. Perdere Virgilio significa perdere anche Dante e così via” (p. 50). E se non conosceremo più la storia e la civiltà greco-romana, come faremo – massime noi italiani – a fruire appieno del nostro patrimonio di Beni Culturali? Se è vero che “La Repubblica […] tutela il paesaggio e il patrimonio storico-artistico della Nazione” (art. 9 della nostra Costituzione), e dunque la fruizione di quei beni è un diritto, lo Stato avrà allora il dovere di educare i cittadini a comprendere il significato profondo di tali monumenti o luoghi. Diversamente, la Colonna Traiana o gli scavi di Pompei ed Ercolano diventerebbero solo luoghi da fotografare, non da fruire; ed è bello l’esempio che Bettini fa della visita al castello danese di Kronborg da parte del celebre fisico Niels Bohr, il quale ammette che se immaginiamo il principe Amleto (quello di Shakespeare!) tra quelle mura e ce lo figuriamo recitare Essere o non essere, ecco che “Kronborg diventa tutto un altro castello per noi” (p. 34). Potenza della cultura, anzi della “memoria culturale condivisa” dei classici di ogni tempo.

Il castello di Amleto, Kronborg.

Il classici a scuola: qualche riflessione

Certamente lo studio delle lingue classiche non vive in Italia un momento troppo felice. Bettini individua le cause di questa situazione non solo in un generale disinteresse della politica per la cultura, ma anche nella persistenza di pratiche scolastiche inadeguate a sollecitare curiosità ed entusiasmo negli studenti, i quali pertanto snobbano sempre più il liceo classico (e preferiscono – soprattutto al Nord – il liceo scientifico “delle Scienze Applicate”, senza latino): sulla – vera o presunta – “crisi” del classico (forse in leggera ripresa…) ho però già scritto più volte in questa sede, e non ci ritorno ora.

Bettini ha ragione da vendere quando condanna l’esasperato grammaticalismo, l’enfasi eccessiva sulla traduzione, lo studio spesso enciclopedico e/o “biginesco” (il temine è mio: me ne scuso con Bettini e i lettori…) delle letterature classiche diffusi nelle nostre scuole. Servono allora un po’ di coraggio e fantasia (sì, come nella canzone La leva calcistica del ’68 di Francesco De Gregori: se poi ci mettessimo anche un poco di altruismo…), senza pensare comunque a un totale stravolgimento della tradizionale didattica liceale. Vanno bene i laboratori teatrali, le letture di molti testi in traduzioni d’autore, la ricerca curiosa di suggestioni antropologiche o percorsi multidisciplinari che analizzino i fenomeni di continuità (reception studies) ma anche di alterità rispetto alla tradizione classica.
Va bene, ad esempio, visitare Colosseo e Arena di Verona, studiare bene la storia romana, per poi guardare in classe il film Il gladiatore: potrebbe essere infatti – questo – un ottimo modo “per spiegare quanto sarebbe assurdo per un romano ‘vero’, assistere alla scena di un imperatore che lotta nell’arena con uno dei suoi generali, specie se costui sembra il fratello di Rambo” (p. 78).

Il Colosseo.

E va bene, soprattutto, un approccio ai testi in lingua originale che non li consideri solo palestre di traduzione più o meno “maccheronica” (c’è poi sempre il telefonino che ne fa scaricare dal web una migliore…), ma occasioni vere per avvicinarsi alle civiltà antiche. Certo, ne conseguirebbe una quasi ovvia “riforma” della versione d’Esame, che dovrebbe affiancare alla traduzione (che ne resterebbe il fulcro!) domande di lingua, cultura e civiltà: Bettini lo ribadisce, e io ancora una volta concordo con lui, come ho già scritto su queste colonne, provocando qualche malumore tra i colleghi che la pensano diversamente. Temo non si accorgano, questi docenti, che stiamo ballando tutti sul ponte del Titanic, e che solo una certa coesione tra antichisti potrà salvare il liceo classico (e non solo) da quel progressivo dissolvimento che tanto piacerebbe a molti.
Altro che prova più facile, meno rigorosa, etc.: quanti degli studenti che hanno copiato (anche all’Esame di Stato, sì, lo sappiamo tutti!) la versione dal cellulare nascosto o, nel migliore dei casi, dal foglio del vicino sarebbero in grado di riflettere autonomamente su un testo antico complesso e significativo? Cascherebbero così molti asini, mentre molti altri giovani troverebbero invece il modo di dimostrare davvero “a cosa sono serviti loro” i Greci e i Romani.

Un fotogramma de “Il gladiatore” di Ridley Scott, del 2000.

Concordo anche con l’idea “bettiniana” – da anni oggetto di riflessione nelle sale insegnanti di mezza Italia – di introdurre una quarta ora di greco (p. 137) nel triennio superiore del classico, proprio per potere arricchire e innovare l’offerta didattica, senza però ridurre il necessario tempo da dedicare anche alla grammatica: ma questa ora in più – ahimè – costa, e dunque temo che resteremo a lungo con le attuali tre.

Un pamphlet ricco di aphormái

Credo che tutti i docenti (e non solo) trarrebbero giovamento dalla lettura di questo agile libretto, un vero pamphlet di illuministica incisività. Ci troveranno – come dice l’autore – non soluzioni preconfezionate, ma tante aphormái, cioè “punti di partenza” per lavorare meglio, e meglio interpretare il loro ruolo di custodi di quella immane “memoria culturale” di cui si è detto. Chi scrive ha da qualche anno cercato nell’archeologia, e in alcune esperienze direttamente “sul campo” (i progetti “ArcheoBanfi” e “Castelseprio e Torba” ), una aphormé adeguata a rivitalizzare l’appeal del mondo antico nel proprio liceo, il “Banfi” di Vimercate : ciò non tanto per formare futuri archeologi, ma per stimolare la consapevolezza di quel diritto-dovere civico alla conservazione dei Beni Culturali di cui si diceva.

Parlandone in un recente Convegno AMA al Liceo “Zucchi” di Monza ho voluto condividerne la soddisfazione con colleghi di varie parti d’Italia; colleghi dai quali ho appreso altre aphormái non meno interessanti e fruttuose delle mie, che mi riprometto di “imitare” negli anni prossimi. In fondo, se potessimo dire che i Greci e i Romani “servono” anche a rendere la scuola meno noiosa, faremmo loro un gran complimento: diventerebbero allora parte di quel “superfluo indispensabile” di cui parlava – quando si riferiva alla cultura – il grande Gaetano Salvemini. E li toglieremmo da quei polverosi piedistalli sui quali Omero, Cicerone, Lucrezio ecc. si sono stufati di stare: oggi essi vogliono camminare al nostro fianco, facendoci percepire da vicino quanto fossero diversi da noi, ma quanto – senza di loro – noi saremmo diversi da quello che siamo.

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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