Coerente, testardo, fedele alla sua idea di un cinema capace di raccontare le storie degli ultimi, le ingiustizie della società contemporanea e le drammatiche contraddizioni di un capitalismo finanziario sempre più spietato. Combattente indomito e autore impegnato, è uno dei pochissimi registi che volge sempre lo sguardo alla realtà, mettendo al centro del suo cinema non solo l’uomo, ma le conseguenze sulla vita delle classi meno abbienti delle decisioni della politica. Di una politica che nel corso degli ultimi decenni sembra essersi sempre più allontanata dai problemi reali, per chiudersi in schemi e ragionamenti astratti. Una volta crollate le idee forti e le visioni del mondo del Novecento, è rimasta una sola ideologia dominante: il capitalismo e la legge del massimo profitto.
Ken Loach è stato fin dall’inizio della sua carriera in prima linea a denunciare la deriva regressiva della società occidentale dopo il periodo delle conquiste sociali degli anni ’60 e ’70. Gli inizi degli anni ’80 sono stati, infatti, caratterizzati dalle personalità conservatrici di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, che hanno segnato un decennio di disimpegno sociale e di riflusso verso l’egoismo individuale, contrapposto alla precedente stagione della libertà, della partecipazione, della mobilitazione e dei diritti sociali.
Erano i primi anni ’90 quando con Riff Raff (1991) e Piovono Pietre (1993), Ken Loach denunciava le conseguenze drammatiche delle politiche neoliberiste di dieci anni di governo Thatcher, riassunte nella spietata frase della leader conservatrice: «La società non esiste, esistono gli individui». Il regista inglese già allora cercava di aprire gli occhi agli spettatori su quale sarebbe stato il destino dei lavoratori delle classi sociali più basse. Licenziamenti, disoccupazione, abbassamento dei salari, lavori saltuari e precari, perdita dei diritti. Purtroppo è stato un buon profeta. Se negli anni ’90 il suo cinema conservava ancora uno spirito dissacrante e sarcastico, capace di un tocco più lieve, oggi le sue storie si sono incupite, l’orizzonte sembra occluso e senza speranza. Non si tratta più di denunciare ciò che potrebbe accadere, ma di raccontare con amarezza e rabbia dove siamo finiti.
Come racconta lo stesso regista nella nota stampa diffusa da Lucky Red, l’idea del film è nata durante le riprese di Io, Daniel Blake:
quando eravamo andati ai banchi alimentari per svolgere le ricerche per il film, ci eravamo resi conto che molte delle persone che li frequentavano avevano un impiego part time o con contratti a zero ore. È un nuovo tipo di sfruttamento. […] La tecnologia è nuova, ma lo sfruttamento e vecchio come il mondo.
Il protagonista del suo nuovo film è una delle vittime del capitalismo degli anni 2000, della finanza spregiudicata, dei derivati dei mutui subprime, che hanno portato al fallimento di Lehman Brothers e alla peggiore crisi economica del dopoguerra. Ricky è un ex muratore che ha perso il lavoro dopo il 2008 e vive di occupazioni saltuarie. La moglie lavora come badante e cerca di trovare il tempo per occuparsi dei due figli. Quando a Ricky viene offerta la possibilità di lavorare come corriere per una ditta che consegna pacchi decide di rischiare. È un lavoro moderno, figlio dell’e-commerce e della deregulation. Un’occupazione con tutti gli svantaggi del lavoro autonomo e nessun vantaggio del lavoro dipendente. Nessun diritto, nessuna assicurazione, obbligo di disponibilità, flessibilità assoluta, guadagno incerto e orari massacranti. Tuttavia a Ricky sembra l’unico modo per cercare di far fronte ai debiti. Ma a quale prezzo? Oltre alle inaccettabili condizioni di lavoro, quali conseguenze ha questo tipo di sfruttamento sulla vita delle persone, sulle loro relazioni umane e familiari?
Incertezza, preoccupazione, ansia, stress, la vita sembra ridursi alla rincorsa di una meta che si allontana e diventa sempre più irraggiungibile. L’empatia del film trasmette senza filtri queste sensazioni grazie a un montaggio secco e realistico, a una sceneggiatura essenziale, ad attori che incarnano con estrema credibilità i personaggi. Un film di denuncia che ci trasmette l’angoscia del peso di vivere, di una fatica quotidiana senza speranza e senza vie d’uscita.
Secondo Ken Loach è il momento di chiederci se un sistema economico di questo tipo sia non solo etico, ma anche sostenibile. Se gli interessi delle grandi multinazionali, che tra delocalizzazioni ed e-commerce operano solo per ridurre drasticamente i costi e aumentare a dismisura i profitti, debbano finalmente essere messi in discussione per salvaguardare il diritto dei lavoratori a un salario dignitoso, alla sicurezza e stabilità contrattuale, a diritti sul luogo di lavoro. A una vita. Sembra di tornare agli anni ’60 e allo Statuto dei Lavoratori. Peccato che l’ultima legge sul lavoro sia stata il Jobs Act. E allora ha ragione Ken Loach a esprimere tutto il suo cupo pessimismo.
Sorry We Missed You
Regia: Ken Loach
Con: Kris Hitchen, Debbie Honeywood, Rhys Stone, Katie Proctor, Ross Brewster
Produzione: UK, Francia, Belgio – 2019
Durata: 100 min.