Saturnino con vocazione mercuriale è soprattutto Calo, il giovane protagonista, che lascia la provincia marchigiana per un viaggio lungo la costa adriatica, fino a Bologna, quindi nella campagna inglese: un itinerario da pioniere, che somiglia a una missione tutta da scoprire e prevede buone gambe, grande capacità di adattamento e un bagaglio leggero (nella sua sacca, come in quella di un moderno e laico pellegrino, «qualche appunto, i versi di un’improbabile canzone e una breve lista degli esseri umani incontrati nel viaggio, e un libro del più grande scrittore vivente», p. 45).
Calo è un personaggio senza tempo, benché il giubbotto mimetico e un cellulare (per l’occasione spento) nella tasca lo rendano parente di molti ragazzi del nuovo millennio. Sembra senza tempo perché, come molti giovani protagonisti di romanzi di formazione, non si accontenta di un piatto orizzonte fatto di piccole sfide, risibili trasgressioni e bevute: sceglie invece di partire privilegiando il mezzo di trasporto più antico del mondo, le sue stesse gambe. Camminando cerca un ritmo commisurato alla sua coscienza esplorativa, aperto all’incontro, disponibile alla perdita di sé, dunque alla trasformazione.
L’itinerario è davvero semplice (non scomoderemo l’esotico Terzani di Un indovino mi disse), ma siamo, per così dire, dalle parti di quella canzone dei Mercanti di liquore che identifica il viaggiatore come colui che «viaggia solo e non lo fa per tornare contento, lui viaggia perché di mestiere ha scelto il mestiere di vento». E infatti, quando deve rappresentarsi con un’immagine, Calo sceglie proprio quella dei rotolacampo, i tumbleweeds, cespugli simili a una balla che il vento spazza lungo le strade degli States. Come a dire: niente mappe, nessun satellitare, la casualità abbracciata con la fedeltà di un destino.
Il desiderio, ovvero chi va e chi resta.
Si potrebbero distinguere i personaggi della storia secondo le due categorie di nomadi e sedentari. E il viaggio di Calo ha un’articolazione quasi mitica. Calo ricorda Telemaco, orfano di un padre che non ha mai conosciuto e figlio di una madre stanziale, che ha scelto i ricordi come sua personale terra di esplorazione e ha lasciato al figlio un’eredità potenzialmente paralizzante: l’idea che ogni partenza implichi la ferita di chi resta e la convinzione che «ciò di cui abbiamo più nostalgia, ciò che ricordiamo con più dolcezza, è ciò che non si è verificato, ciò che poteva essere e non è stato» (p. 213).
Le ragioni per non partire (la solitudine della madre, l’attrattiva degli amici, per quanto insabbiati in una provincia sempre uguale, l’assenza di una meta…) sarebbero forse più di quelle che spingono al viaggio, se il desiderio non fosse il motore che rende Calo un personaggio vitale, testimone di una giovinezza che non si lascia definire a priori e non cede alla paura, anzi proprio nel cammino e negli incontri che lo accompagnano dissolve le sue remore: «Si dice sempre che a spaventare è ciò che non si conosce, ciò che non si vede, ciò da cui non ci si può difendere e ciò a cui non ci si può preparare. Questo spiegherebbe la paura del diverso, del buio, del pericolo nascosto, della morte. Ma allora perché non sforzarsi di conoscere, non accendere luci nelle tenebre, non condurre il nemico allo scoperto, non smascherare l’orrore, non prepararsi per tempo?» (p. 95)
È la prima fase dell’iniziazione di Calo: non avere paura.
Tutte le storie e tutti i lettori
Lungo la strada Calo incontra una serie di personaggi che gli regalano ogni volta tre cose: ospitalità, una storia (la loro) e un passaggio per la tappa successiva di un percorso che, si badi, nessuno ha disegnato a priori.
Sono figure convincenti, ora vivaci ed esilaranti come la camionista Gianna, ora struggenti come il tunisino Ahmed o il vecchio pescatore del Dover, Ernst, a volte quasi fiabesche come la vecchia Maggie nella sua casa che richiama quella di pan di zucchero.
Da queste storie Calo impara a non difendersi, a non temere che dall’ascolto derivi una responsabilità o un legame, quanto di meno utile alla sua missione di viaggiatore libero. Compila un piccolo taccuino su cui annota tutti i suoi incontri distinguendoli secondo le tre tipologie: persone che fanno sperare in un’umanità migliore, persone che fanno temere un’umanità perduta e persone neutre. Dal momento che Calo è un ragazzo mite e gentile, un ospite educato che «non ha motivo di temere il mondo» (p. 26), la lista del primo gruppo è di gran lunga la più folta.
Con ciascun personaggio Calo stringe una relazione al contempo partecipe e svincolata da attese e promesse. Gli incontri lasciano in lui un segno, ne orientano il cammino, allargano il suo angolo di visuale, lo aiutano a trovare nuovi orizzonti di significato; tuttavia sono come un soffio di vento nell’esistenza dei suoi nuovi amici, che non sembrano trasformati o sviati dai propri intenti: un rapporto asimmetrico che ricorda tanto quello del lettore con i personaggi dei libri.
E infatti gli incontri meno importanti, quelli nei quali non si arriva a menzionare nemmeno un nome, sembrano trame di libri: Un giorno questo dolore ti sarà utile di Peter Cameron, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon, e tanti altri piccoli rimandi a una letteratura angloamericana e contemporanea che, siamo onesti, potrebbe catturare molti studenti un po’ disamorati da prose percepite come troppo lontane.
Gli incontri di Calo hanno il pregio d’essere insieme credibili e fantasmatici come in una nuova Antologia di Spoon River: ci si appassiona, li si comprende, ci si commuove anche e poi, insieme al protagonista, con leggerezza li si lascia andare, ricavandone l’impressione che il mondo possa essere nonostante tutto un buon posto.
Calo è un po’ la metafora del lettore e il suo viaggio può dirsi una raccolta di storie e di libri: in cima a tutti «il più grande autore vivente», il Cormac McCarthy della Trilogia della frontiera (e in particolare di Cavalli selvaggi). Da lui il ragazzo riceve l’unico vero mandato: l’idea che «la storia non esiste fuori dal racconto e che non potremo mai finire di raccontare, e che tutte le storie sono un’unica storia» (p. 77), ossia la storia di ogni essere umano e delle infinite possibilità dell’umano.
La verità sull’amore?
Nelle prime pagine Calo dice «Chiedetevi di chi sono le vostre parole. E giungerete come me alla convinzione che ci vengono sempre consegnate. Le sentiamo per la prima volta attraverso una voce e noi le accogliamo insieme alla voce che si portano addosso e ci attacchiamo sopra la nostra. Le parole sono un deposito di intenzioni, aspettative, di atti di fede e spergiuri altrui» (p. 51).
La parola amore, nell’accezione materna, non è un lascito di cui Calo possa accontentarsi. Il cammino, gli incontri, lo aiuteranno a comprendere meglio il messaggio con cui gli è stata trasmessa, ma a quei significati egli dovrà sostituire la propria esperienza. È questa la sua via verso la Leggerezza, quella che gli consente di lasciarsi alle spalle la perplessità saturnina e di abbracciare la mobilità di Mercurio: «Compresi che la vita è già nel desiderare. […] Sentii che l’unica cosa di cui dovremmo aver paura è rimanere immobili nel punto in cui siamo» (p. 221).
L’esperienza del viaggio (letterario o reale che sia) trasforma il protagonista, lo rende diverso da ciò che era e lo identifica nella sua unicità, libero di accettare le eredità talvolta amare della sua esistenza senza esserne condizionato. E dunque non aspettatevi nessuna verità definitiva sull’amore, piuttosto tutte le verità, così come accade con tutte le storie che compongono un’unica storia.
Maura Maioli, oltre che scrittrice e traduttrice, è insegnante e animatrice del Premio “Letteraria” di Fano, una manifestazione che coinvolge ogni anno centinaia di giovani lettori delle scuole e li trasforma in giudici. Della fede nei libri e nelle storie ha fatto dunque più che un mestiere. Con quest’ultima sua opera offre la mappa di un viaggio incoraggiante per i ragazzi e utile a rinfrancare anche negli adulti l’idea di letteratura come desiderio.
Per chi insegna, proporre questo racconto significa già costruire un possibile itinerario di letture che «alimentano la fiducia in un mondo migliore», il che mi pare piuttosto importante di questi tempi. Per citare il vecchio Ernst (sì, nomen omen): «Staremo un sacco da soli con il mare e questo ti riempie di sgomento. Ma non è questo che l’uomo insegue? La sfida tra la grandezza indomita della natura e la grandezza indomita dell’animo umano. Qualcosa in cui intuire ancora il sacro, proprio come nell’amore. Il resto sono bubbole».