Chi scrive, nato nel 1940, ha ormai passato da qualche mese i 76 anni: almeno 55 dei quali trascorsi senza mai recedere da una profonda fede europeistica. L’Europa unita è stata, fin dalla mia prima giovinezza, il mio grande sogno e la mia massima aspirazione sul piano politico e culturale.
Credo nell’Europa. Credo nella persistente vitalità delle sue profonde radici, che sono il cristianesimo, la civiltà ellenistico-romana, il successivo apporto dai popoli che nei secoli sono entrati in rapporto col suolo europeo. Sono profondamente convinto che questi differenti apporti si siano fusi in una realtà unitaria da cui è emersa la nostra comune cultura: quella delle cattedrali e delle università del Medioevo, della fede umanistica nel genio e nella libertà dell’uomo, dai quali sono scaturiti inimitabili frutti nelle arti e nel pensiero, nei valori comuni di fratellanza e di solidarietà che si sono espressi anche e nonostante le lunghe guerre e le dure lotte affrontate.
E sono altresì convinto che tale realtà unitaria sia connaturata alle molteplici espressioni di un’infinita diversità che si esprime nella pluralità degli idiomi, dei paesaggi, delle tradizioni, dei modi di sentire che la fanno somigliare, com’è stato felicemente detto, a un “arcipelago”: cioè a una grande catena montana sommersa le cime della quale emergono, come isole, ciascuna con la sua specificità diversa dalle altre ma con tutte le altre collegata alla base.
Ma, come molti della mia generazione, e forse anche di quelle che l’hanno immediatamente preceduta e seguita, sono stato vittima di un’illusione e, forse, di una frode: troppo tardi ho compreso che quella realtà, nata all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso e faticosamente sviluppatasi come Unione europea, con tutte le sue complesse, costose istituzioni, non si sarebbe mai trasformata in unità politica. Il suo scopo era un’unità economico-finanziaria, una “Eurolandia”.
Ci lasciammo a lungo ingannare. Sperammo a lungo che da quell’unità istituzionale se non più propriamente burocratica sarebbe sì nata una moneta unica, ma anche uno spirito comune, un progetto identitario. Capimmo presto però che non saremmo mai riusciti a essere un “popolo europeo”; nessuna delle nostre patrie si sarebbe mai trasformata in parte di una comune Patria Europea; non saremmo mai stati Popolo Europeo. Sintomo evidente di tutto ciò, il fatto che non si sia mai cercato di dotare le scuole dei Paesi aderenti all’Ue di manuali scolastici che, narrando una comune storia continentale, facessero germogliare e crescere quell’affetto per l’Europa sul quale avrebbe poi dovuto impiantarsi un solido senso civico.
Se ciò fosse avvenuto a partire almeno dagli anni Cinquanta-Sessanta, oggi avremmo alcune centinaia di milioni di europei tra i venti e i sessant’anni seriamente educati a sentirsi figli di una stessa patria, membri di uno stesso popolo nonostante la molteplicità delle lingue e dei dialetti parlati e nonostante il peso di un passato fatto anche di lotte a sua volta parte di un patrimonio indelebile.
Ma l’Europa esiste in sé o può esistere solo in una volontà che, finora, non si è mai fortemente e maturamente espressa? È una realtà a tutt’oggi incompiuta o un sogno che non ha ancora trovato i suoi pensatori, i suoi poeti, i suoi martiri?
Una parte del mondo, un’espressione geo-culturale, un sinonimo di Occidente?
E allora ricominciamo dal principio. E chiediamoci: che cos’è l’Europa?
Secondo una lettura dell’orbe terraqueo propria dei Greci e da essi trasmessa ai Romani, essa è una delle tre parti del mondo dette “continenti”. Nei mappamondi medievali anteriori al XII secolo, l’immagine della terra tradotta in termini di geometria piana consisteva in un disco circondato da un anello d’acqua: l’Oceano. Tale disco era schematicamente l’ecumène, l’insieme delle terre emerse, e lo si doveva immaginare “orientato”, vale a dire con la parte alta rivolta a Est (e quindi la parte bassa a Ovest, la sinistra il Nord e la destra il Sud). Il disco appariva tagliato a metà da una linea orizzontale; mentre la metà superiore, che era l’Asia, restava integra, quella inferiore veniva a sua volta tagliata nel mezzo da un tratto verticale.
I geografi hanno chiamato questi mappamondi “carte T-O”, in quanto effettivamente sagomate come una O maiuscola tagliata da un tratto orizzontale lungo il doppio del tratto verticale sottostante che divide la metà inferiore. Il tratto orizzontale rappresentava schematicamente i grandi fiumi russi a sinistra (la metà rivolta verso Nord) e il Nilo a destra (la metà rivolta verso Sud): i primi erano la frontiera tra Asia a Est e Europa a Nord-Ovest; il secondo la frontiera tra Asia a Est e Africa a Sud-Ovest. L’Asia era immaginata grande esattamente quanto Europa e Africa messe insieme, quindi il doppio di ciascuna di esse. Il tratto verticale, che dal centro del cerchio andava in basso, quindi verso Ovest, rappresentava il Mediterraneo. Al centro, appena sopra la confluenza dei tre tratti, si raffigurava Gerusalemme, centro del mondo, umbilicus mundi.
Era un’immagine profondamente cristica (il cerchio simboleggiava la perfezione; la T era il Tau greco, la croce). Era anche pensata come “obiettiva”, “naturale”: non era forse ovvio pensare l’ecumène distinta in continenti? In realtà, tale visione era profondamente soggettiva: un mondo diviso in continenti può apparire tale solo se lo si considera stando al centro del Mediterraneo (i cinesi, la geografia dei quali influenzò i mondi indiano, persiano e arabo, concepivano l’ecumène come distinta in fasce climatiche in quanto tale essa appariva alla loro esperienza di viaggiatori e di navigatori).
L’impero romano non era stato “europeo”, bensì circummediterraneo: Roma a parte, le sue altre grandi metropoli erano tutte asiatiche o nordafricane. Ma nel Medioevo occidentale prevalse più tardi l’idea che solo l’Europa fosse un continente totalmente cristiano. E un continente guerriero. Tre piccoli candelieri in bronzo dorato conservati nella cattedrale di Hildesheim e risalenti al XII-XIII secolo rappresentano le allegorie femminili dei tre continenti: l’Africa, il luogo magico delle scienze e dei misteri – l’Egitto – è circondata dagli strumenti della scienza e del sapere, come sfere armillari e astrolabi; l’Asia, la terra delle gemme e degli aromi, è raffigurata come una prospera mercantessa; l’Europa è un’armata vergine guerriera.
I tre candelieri sembrano profeticamente alludere al futuro di un mondo che, di lì a poco, l’Europa avrebbe conquistato.
Europa cristiana e bellicosa, quindi. E, fino dai tempi di Teodosio e poi degli imperatori romano-germanici di stirpe sassone, abituata a sentirsi anche Occidente. Ma la parola “Europa”, tuttavia, non era usata nel mondo medievale per qualificare alcuna unità civica o concettuale. Le genti uscite dalla sistemazione teodosiana dell’impero e arricchite dall’incremento dei popoli “barbarici” delle Völkerwanderungen avevano risposto al vanificarsi delle istituzioni imperiali della pars Occidentis – mentre la porzione d’Africa già affidata a Onorio si era andata distaccando decisamente da loro, insieme con gran parte della Spagna, fin dall’VIII secolo quando era stata interessata dall’espansione dell’islam – prima organizzando delle “monarchie romano-barbariche” (tale il nome con il quale ordinariamente esse sono indicate), quindi riuscendo anche grazie all’incontro fra Chiesa romana e regno franco a costituire una sorta di nuova res publica Romanorum e a espandersi intanto al di là degli antichi confini romani costituiti dal Reno e dal Danubio.
In tal modo una compagine latino-celto-germanica – aggregata attorno all’uso del latino come lingua ufficiale, lingua colta e lingua giuridica e all’adozione della disciplina gerarchica e liturgica ispirata alle consuetudini della sede episcopale romana – andò gradualmente espandendosi, talora anche con i metodi di una colonizzazione agricola e guerriera, sulle terre abitate dagli slavi e dai baltici: i confini con l’impero romano d’Oriente (che i moderni hanno convenuto di definire “bizantino”) erano, in un’area incerta sita tra la Vistola e il Don, quelli d’un’evangelizzazione dei locali gestita ora dai latinofoni fedeli alla Chiesa e alla liturgia romane, i quali guardavano al regno di Germania, ora dagli ellenofoni fedeli alla Chiesa e alla liturgia greche, i quali guardavano a Bisanzio.
Di qua la res publica Romanorum, che guardava alle due auctoritates concettualmente universali dell’imperatore romano-germanico e del papa, peraltro interessate fra XI e XVI secolo da una serie di reciproci conflitti mentre, protette e sostenute ora dall’una ora dall’altra di esse, si andavano dislocando potestates regie, signoriali e col tempo addirittura cittadine consapevoli di una condivisa unità di fondo ma al tempo stesso fiere delle loro rispettive specificità e diversità e tutte comunque solidamente ed esclusivamente insediate entro i confini del continente europeo; di là la Basiléia ton Romáion, il cui territorio, almeno fino all’XI secolo circa, interessò politicamente (e ancor più demograficamente e culturalmente) parte della penisola italica – l’area adriatica, il Meridione peninsulare, le due grandi isole – mentre occupava stabilmente Balcani e Anatolia ed estendeva la sua influenza fino ai principati variago-slavi della Rus’ a Nord-Est, a quelli armeno e georgiano della regione caucasico-caspiana a Est.
Si andavano, in altri termini, configurando l’Europa cattolica e l’Eurasia ortodossa, che a partire dal Tre-Quattrocento sarebbe stata in parte fagocitata dal sultanato ottomano o si sarebbe progressivamente accorpata all’egemonia dei granprincipi di Moscovia.
A questo punto, se dovessimo pensare all’Europa nei termini nei quali romanticamente e neomedievalmente la pensava ai primi dell’Ottocento Novalis, ovvero di Europa cristiana – Die Christenheit oder Europa –, non potremmo se non definirla quale sintesi, col e nel cristianesimo, dell’Occidente greco-romano e dell’Oriente ebraico-ellenistico. Ma quello stesso “Occidente” greco-romano era ormai, almeno a partire dal II secolo a.C., strettamente connesso con un “Oriente” che la grande avventura di Alessandro Magno aveva profondamente ridefinito.
La storia politica, sociale e culturale dell’impero romano è scandita, si può dire fino alla riforma teodosiana – e Teodosio, ricordiamolo, è lo stesso che ha diviso amministrativamente l’impero e che ha imposto la cristiana quale “religione di stato” –, dalla rivalità tra i conservatori aristocratici legati ai prischi costumi romani e i plebei (e plebeo era il nerbo dell’esercito legionario) che, a loro volta egemonizzati da famiglie della grande nobiltà quali gli Scipioni e la gens Iulia, aspiravano invece a un equilibrio nuovo, a un mondo rinnovato nel quale Urbs e Orbs coincidessero e nel quale il messaggio di Alessandro Magno, che aveva fuso l’Occidente ellenico e l’Oriente egizio e persiano, si traducesse in una nuova sintesi.
La linea che oppone Silla e Pompeo da una parte agli Scipioni, ai Gracchi, a Mario e a Cesare dall’altra è l’asse portante di due differenti modi di concepire la missione di Roma e l’assetto del mondo: Cesare, che ad Alessandria venera il sepolcro di Alessandro e ne accetta l’eredità spirituale rivendicandone il disegno universalistico (e la regalità sacra degli imperatori romani sarà quella mutuata dall’Egitto e dalla Persia attraverso il modello di Alessandro, poi evoluto nel corso del II-III secolo addirittura in una sorta di monoteismo regale-solare, anch’esso ereditato dal cristianesimo) è, insieme con il Cristo che nasce – provvidenzialmente, come da Agostino in poi hanno sostenuto gli storici cristiani – pochi anni dopo sub Augusto, ma nell’impero da Cesare fondato (e adempiendo, sempre secondo gli storici cristiani, la profezia virgiliana), l’asse della storia attorno alla quale danzano i secoli; la Constitutio Antoniniana, con la quale all’alba del III secolo d.C. Caracalla concede la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero – un impero circummediterraneo che dall’Atlantico giunge all’Eufrate e dal Reno e dal Danubio si estende fino all’Alto Nilo e all’Atlante – segna il superamento della dicotomia tra Oriente e Occidente in un immenso abbraccio, anche se le due categorie opposte e/o complementari risorgeranno subito dopo, ma con differente accezione, nelle scelte amministrative teodosiane.
D’altro canto, non c’è dubbio che la cultura radicata negli ambienti aristocratici e repubblicani del conservatorismo proprio della classe senatoria romana elaborò dal canto suo la contrapposizione tra Roma (collegata, dopo un’iniziale resistenza, alla Grecia) e la “barbarie”, quindi fra Occidente e Oriente: e lo si vide a proposito della propaganda successiva alla battaglia di Azio del 31 a.C., presentata come una vittoria di quello su questo.
Augusto riprendeva, contro Antonio deciso sostenitore di Cesare, quella ch’era stata la linea di Silla e di Pompeo. La divisione amministrativa teodosiana ricalcava questa dicotomia, sia pur senza introdurvi elementi d’opposizione: che si sarebbero comunque più tardi affermati. Lo scisma d’Oriente del 1054 avrebbe fatto il resto: e nonostante vari tentativi di riunione gli universi cattolico e ortodosso-orientale sarebbero restati, fino a oggi, divisi.
Cristianità e islam, Europa e Asia
All’indomani della prima crociata, quindi ai primi del XII secolo, il cronista Fulcherio di Chartres – testimone radicatosi in seguito ad essa nella nuova compagine del regno di Gerusalemme –, osservava: “…Ormai noialtri, che un tempo eravamo occidentali, siamo divenuti orientali… perché dovremmo tornar in Occidente, dal momento che abbiamo trovato qui un tale Oriente?”. È evidente che Fulcherio usava le vecchie categorie amministrative teodosiane e che il suo “Oriente” era ancora, essenzialmente, la pars Orientis già assegnata all’imperatore Arcadio, quella ancora al suo tempo governata dal basileus ton Romàion ch’era, in quel momento, Alessio I Comneno. Ma è non meno chiaro, al tempo stesso, che i termini “Oriente” e “Occidente”, “orientale” e “occidentale” acquistavano, nelle sue stesse parole, un senso e quasi un sapore nuovo, al quale non era estranea la consapevolezza del confronto con il mondo musulmano.
Nell’affermarsi di molti luoghi comuni e atteggiamenti mentali antibizantini nel mondo “franco” tra XI e XII secolo, come testimoniano alcuni cronisti delle crociate, crebbe il sentimento di opposizione Occidente-Oriente, che si sarebbe presentato con virulenza all’atto della quarta crociata.
Verso la metà del Duecento le conquiste eurasiatiche dei Tartari parvero aprire agli europei il mondo dell’Asia, ben presto però richiuso su se stesso con il frammentarsi dell’impero mongolo. Sbarrata la via di terra, restava quella oceanica: molti decenni di tentativi portoghesi da un lato, dall’altro una casuale scoperta compiuta grazie a un marinaio che al servizio dei re cattolici di Castiglia e di Aragona cercava un passaggio a Ovest per l’Asia, squadernarono d’un tratto dinanzi agli europei una realtà nuova che né Aristotele, né Tolomeo avevano supposto.
La terra era molto più grande di quanto non si fosse mai creduto: eppure, ciò nonostante, quella medesima terra che per millenni era stata creduta più piccola e che pur nessuno aveva osato correre in lungo e in largo, ora che si era rivelata più grande fu percorsa e frugata quasi da cima a fondo nel giro di pochi decenni.
Era la fine della cultura fondata sulle auctoritates, poiché nessun auctor aveva mai supposto quella realtà che solo l’esperienza poneva adesso alla portata degli europei. Una sola eccezione si era disposti a fare: la Bibbia, che non poteva aver mentito ma che doveva essere stata mal interpretata.
Ecco perché il Cinquecento è pieno di studiosi che identificano in angoli del Nuovo Mondo i favolosi Paesi biblici di Punt e di Ofir e che si sforzano di scorgere negli indios la “tribù perduta” d’Israele. Dopo le scoperte geografiche, l’esperienza – fino ad allora considerata testimone infido e consigliere poco attendibile – diveniva la via regia alla conoscenza. Senza Colombo non si capisce Galileo.
Frattanto l’Europa aveva già ricevuto una definizione in contrapposizione all’Asia, come sinonimo di cristianità avversa all’islam. Ciò era accaduto al tempo della caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi: e ben lo si vede in Enea Silvio Piccolomini. Divenuto papa col nome di Pio II, egli elaborò una tesi delle cui conseguenze, forse, sulle prime, né egli né i suoi contemporanei erano consapevoli.
L’Europa era propriamente la sede – patria e domus – della cristianità, identificabile con la christiana religio: si poteva pertanto stimare cristiano chiunque fosse ritenuto europeo, come Enea Silvio aveva già dichiarato nella Prefazione alla sua Historia de Europa. La recita dell’Angelus, ch’era già imposta da papa Callisto III a tutti i cristiani per implorare soccorso contro il pericolo turco, appare già in questo quadro come un ulteriore segno d’identità fra Christenheit ed Europa.
Un’identità nella quale tuttavia l’Europa stava, per così dire, assorbendo la cristianità, preparandosi ad assumere un nuovo, diverso ruolo all’interno dell’incipiente processo di secolarizzazione della cultura occidentale. Rispetto a essa, l’islam andava assumendo il ruolo dell’“Altro”, dell’avversario necessario come elemento di distinzione-opposizione in un processo di definizione identitaria.
Dalla cristianità europea all’Occidente/Modernità
Con le grandi scoperte geografiche e l’espandersi dell’Europa latinogermanica (ormai del resto lacerata dalla Riforma e priva di quell’unità che l’aveva caratterizzata durante il Medioevo, quindi non più definibile in quanto “cristianità latina”), questa si proponeva definitivamente come quell’Occidente che i Greci (la cui cultura è considerata ormai la radice profonda dell’Europa moderna) avevano fondato e preconizzato, ma che non si era davvero mai tradotto in una realtà definibile: nasceva allora – l’ha definito bene Carl Schmitt – quell’Occidente sentito come complesso di terra e di mare, come impero policentrico e dislocato tenuto insieme tuttavia da una comune Weltanschauung economico-politica di un’“economia-mondo” – l’egemonia all’interno della quale è tuttavia contesa.
Il permanere di una fede cristiana in vario modo sostenuta dalle Chiese storiche – nessuna delle quali rinunzia al suo ecumenismo, ma ciascuna delle quali ha un suo ruolo di fronte allo Stato o agli Stati, al popolo o ai popoli che ad essa più o meno ampiamente si riferiscono– gli offriva il movente nobile (non vogliamo dir l’alibi: anche perché siamo convinti che alibi non fosse) di quell’evangelizzazione che non a caso, nel corso del Duecento, si era concretizzata nella prassi missionaria originariamente ispirata a Francesco d’Assisi.
Nell’accezione moderna, la parola “Occidente” rinvia quindi a nuovi contenuti: essi nacquero allorché con le grandi scoperte geografiche dei secoli XV-XVI l’asse politico, economico e culturale europeo, già mediterraneo, si spostò sulle rive dell’Oceano Atlantico, e mentre l’affermazione dello stato assoluto apriva la strada alla secolarizzazione, l’economia-mondo inaugurava il capitalismo moderno (e, con esso, il cosiddetto “scambio asimmetrico”) e già si andava preparando la grande rivoluzione tecnico-scientifica del XVII secolo.
Intanto, l’Europa assisteva a una frattura interna, quella della Riforma protestante, che approfondiva e accelerava il suo processo di differenziazione interna mentre apriva la strada a un altro processo, essenziale alla costruzione della Modernità: quello “di secolarizzazione”, che insieme con l’affermarsi degli Stati assoluti riduceva fino a vanificarlo il senso di universalità che aveva pervaso di sé l’Europa medievale ancora legata ai luminaria del papato e dell’impero.
La Christianitas europea – che si era in parte allontanata dalla Chiesa romana mentre nei Paesi che pur le erano restati fedeli avanzava il processo di secolarizzazione e quindi di progressiva, irreversibile distinzione (accompagnata da un ampio contenzioso giurisdizionale e da una crescente reciproca ostilità politico-culturale) tra compagine ecclesiale e strati egemonici della società civile – si andò dissanguando tra Cinque e Seicento in feroci guerre di religione, finché, con i trattati di Westfalia e dei Pirenei del 1648-59, si pervenne alla mutua inter christianorum tolerantia che, fondandone alfine la convivenza, sanciva tuttavia definitivamente l’avvenuto divorzio dai Paesi protestanti.
La laicizzazione, imposta ai riformati sin dall’inizio del movimento protestante, si affermò dai Paesi cattolici attraverso la progressiva limitazione ed emarginazione della Chiesa nel campo dei poteri e delle prerogative di tipo giurisdizionale e politico. Successivamente, con il cosiddetto “dispotismo illuminato” e poi con la Rivoluzione francese, sarebbe stato chiaro che ormai non si poteva più parlare dell’Europa come cristianità.
Senza dubbio, intanto, il continente europeo, che sempre più amava definirsi come Occidente, elaborava con Locke e con Voltaire l’idea di tolleranza; e di lì a poco avrebbe scoperto, con i fondamenti del pensiero antropologico, anche la “ragione dell’Altro”, e accettato – unico forse tra le civiltà umane – di non pensare più a se stesso come al centro del mondo. È non meno vero però che, con la parallela elaborazione della cultura orientalistica ed esotistica, gli occidentali – pur riprendendo un atteggiamento d’interesse e di fascinazione per il Diverso (e il Meraviglioso) ch’era registrabile nella cultura antica fino dal grande romanzo egizio prima, ellenistico poi – avrebbero scoperto di non poter più fare a meno, nel loro immaginario, del fascino dell’Oriente: anzi, degli “Orienti” (l’arabo, il turco, il persiano, l’indiano, il centrorasiatico, in un senso molto particolare – o in più sensi molto particolari – l’ebraico il cinese, il giapponese, il sudorientale asiatico…). Ma vero è altresì che, nel contempo, esso avrebbe elaborato con il colonialismo – anche in ciò unico tra le civiltà umane – un colossale sistema di sfruttamento delle risorse di tutto il mondo a suo esclusivo vantaggio.
V’è di più. L’idea contemporanea di “Occidente” – nella quale secondo alcuni l’Europa sarebbe inclusa, con un ruolo coprotagonistico, in un tutto omogeneo e interatlantico insieme con Stati Uniti e Canada – è nata in realtà al contrario, nella sua accezione ormai ordinaria, dal pensiero politico statunitense su una linea tesa da Jefferson a Monroe proprio per differenziarsi dall’Europa; anzi, addirittura contro l’Europa, avvertita come la patria del vecchio, della stratificazione sociale, della cristallizzazione oppressiva delle forme culturali, mentre l’America sarebbe la terra del nuovo e della libertà3; l’America, che fin dalla costituzione degli Stati Uniti ha annunziato che fine e diritto dell’uomo è la ricerca della felicità su questa terra.
Lo “scontro” fra Oriente e Occidente
Eppure non si è ancora esaurito, anzi subisce periodici per quanto confusi momenti di ringiovanimento, il vecchio atteggiamento culturale e mentale – caro ai teorici primonovecenteschi della Mitteleuropa – secondo il quale la dinamica morfologica della storia si addensa attorno a un nucleo macrostorico-metastorico costituito dal “necessario”, “insopprimibile” scontro geostorico tra Occidente e Oriente. Espressioni successive di esso sarebbero state le guerre greco-persiane, quindi le contese tra Romani e Parti, poi quelle tra Sasanidi e Bizantini, e ancora l’offensiva musulmana dei secoli VII-X fino al Maghreb e alla Spagna, e poi la Reconquista e le crociate, e successivamente la tensione tra l’Europa moderna e l’impero ottomano, e in seguito l’affermazione colonialistica delle potenze europee in Asia.
La “guerra fredda” si potrebbe considerare secondo alcuni la terza guerra mondiale; infine oggi quella che l’amministrazione statunitense dopo l’11 settembre 2001 definì la War Against Terror e che oggi continuerebbe con al-Qaeda e il Daesh sarebbe da considerare la quarta guerra mondiale. Il ritorno dell’espansione islamica e l’esordio delle neoideologie legate al cosiddetto “fondamentalismo islamico”, e quindi al terrorismo che di alcuni ambienti di esso sarebbe il braccio armato, verrebbe in tale ottica a proporsi come l’ultima forma di una plurisecolare secolare contesa iniziata con le guerre tra Greci e Persiani.
È logico che, da questo punto di vista, le offensive orientali di varia origine siano state intese come assalti barbarici alla roccaforte della civiltà e le controffensive occidentali come risposte della civiltà stessa.
E allora il punto di non-ritorno, il tournant che rende al tempo stesso irreversibile la vittoria dell’Occidente e inauspicabile un suo indietreggiare (poiché la diffusione del progresso e della civiltà resta, kiplinghianamente, «il fardello dell’uomo bianco»), è quello del progressivo affermarsi dell’Occidente con le scoperte geografiche, con il colonialismo e infine con la sfida lanciata al resto del mondo attraverso l’imposizione del way of lífe e delle sue categorie morali, politiche, esistenziali nonché del suo sistema di produzione e di gestione delle ricchezze.
Ma quest’Occidente corrisponde ormai a un concetto che in apparenza è antico, mentre in realtà è nuovo e funzionale agli eventi della prima metà del Novecento: quello di “civiltà occidentale”.
Sappiamo bene che è impossibile enucleare le scelte dell’epoca eroica dell’espansione occidentale, il XVI-XVIII secolo – con le sue realizzazioni e i suoi misfatti – dalla religione stessa dell’Occidente, dal cristianesimo cattolico o riformato che fosse: del resto l’espansione missionaria accompagnò il movimento coloniale, ne fu testimone e in un certo senso funzionale, per quanto molti dei suoi protagonisti si trovassero spesso in rotta di collisione con i metodi e i caratteri dello sfruttamento coloniale (bastino a ricordarlo episodi come quello, glorioso, delle reducciones della Compagnia di Gesù nel Guaranì o come la lotta senza quartiere dei missionari cattolici e protestanti contro lo schiavismo). D’altronde, nella giustificazione di uno sfruttamento coloniale che pur si cercava da più parti e in molti modi di rendere più umano4, la religione ebbe un ruolo pretestuosamente celebrato forse, ma certo importante.
Quest’Occidente missionario e colonialista, umanitario e imperiale, sentimentale e sfruttatore, filantropico e tirannico, fiero di sé ma al tempo stesso innamorato esotisticamente delle terre che andava depredando e dei popoli che andava sottomettendo, l’Occidente del kiplinghiano “fardello dell’uomo bianco” ha radici senza dubbio antiche e medievali ma è al tempo stesso primariamente e indissolubilmente legato agli Stati assoluti – i quali avevano battuto un ben differente modello di sviluppo della Modernità, quello rappresentato dalla “monarchia di Spagna” che avrebbe potuto essere loro alternativo (poiché la storia, come dice David S. Landes, non solo si può, ma si deve scrivere al condizionale) – e alla loro figlia in parte ribelle ma anche primogenita, la democrazia parlamentare; esso è impensabile senza il lievito utopico che lo anima (si pensi a Thomas Moore e a Francis Bacon) e senza il mito della perfettibilità umana immanentisticamente intesa, del progresso e al tempo stesso del recupero dell’intatta ingenuità perduta (buoni selvaggi e isole vergini, Rousseau e Bernardin de SaintPierre).
L’Occidente è l’Europa occidentale ancora cristiana protesa sull’Atlantico e sul Pacifico, l’Europa à tête anglaise che avrebbe di lì a poco generato la sua figlia ed erede, l’America degli Stati Uniti; l’Occidente è – direbbe Carl Schmitt – il dominio del mare. L’Occidente è il mostro marino Leviathan, contrapposto all’Oriente massa continentale, mostro terrestre Behemoth.
Ma l’Europa è ancora Occidente?
Per questo l’Occidente – come espressione politico-culturale –, a onta delle sue lontane radici, non si può intendere in quanto concetto se lo si scinde da quello di Modernità; per contro, l’identità imperfetta ancor oggi da qualcuno sostenuta o per lo meno accettata fra Occidente ed Europa va mutandosi – con il divaricarsi dinamico e concettuale dei due termini – in una inidentità imperfetta.
In effetti, se l’Europa-Occidente era la grande sera dell’avventura della civiltà umana, come la vedeva Hegel, e se d’altro canto gli intellettuali statunitensi dell’Ottocento vedevano piuttosto nel loro Paese l’Occidente della Libertà contrapposto a un’Europa delle monarchie e dei sistemi autoritari, va detto che dopo il 1945 il bipolarismo del “sistema di Yalta”, proponendo una divisione dell’ecumène in un “mondo libero” a Ovest e in un “mondo socialista” a Est secondo una linea di frontiera che, corrispondendo con la cosiddetta “cortina di ferro”, tagliava in due proprio l’Europa, praticamente ne cancellava non solo la pur policentrica unità (l’Europa-Arcipelago, così definita da Cacciari) ma addirittura la stessa prospettiva d’esistenza politica –, e che la battaglia per l’unità dell’Europa, per quanto non abbia ancora condotto a risultati soddisfacenti, evidenzia oggi una posta in palio l’oggetto della quale è ancora da decidere. Occidente atlantico-centrico costituito da un’area transatlantica statunitense-canadese (con la problematica appendice latino-americana) e una cisatlantica europea, soluzione prossima alla magna Europa prospettata da alcuni intellettuali conservatori statunitensi5 e coerente con il processo di americanizzazione culturale e pratico-materiale-esistenziale dell’Europa occidentale6, oppure nuovo Occidente americo-australiano-giapponese distinto – anche se non contrapposto – da un’Europa cerniera tra esso e i mondi asiatico e mediterraneo?
Ancor oggi, non è raro imbattersi in sostanziosi residui dell’antica convinzione che la civiltà occidentale si sia imposta a tutto il mondo grazie alla superiorità del Vangelo sugli altri culti e le altre fedi, o all’eccellenza della filosofia nata nella Grecia di Platone su qualunque altra forma di pensiero, o alla forza intellettuale e spirituale frutto dell’Umanesimo e dell’Illuminismo7, o alla democrazia parlamentare quale “migliore dei sistemi politici possibili”, anziché grazie alla sua tecnologia e quindi, in ultima analisi, alla sua forza (e alla volontà di potenza che la dispiegava, la sosteneva, la legittimava)8: a quelle “vele” e a quei “cannoni” dei quali Carlo Maria Cipolla, in un libro bellissimo, ha dimostrato consistere la vera, forse la sola – ma fondamentale – superiorità dell’Occidente sul resto del mondo.
Ma se queste considerazioni hanno un minimo di plausibilità, ne consegue che ormai tra Europa e Occidente c’è un divorzio irreversibile, che dovrebbe condurre all’impossibilità obiettiva, per noialtri europei, di continuar ad autodefinirci attraverso l’epiteto – del resto per sua natura ambiguo – di “occidentali”.
Ed eccoci, dinanzi all’incalzare dell’Occidente/Modernità, alla Finis Europae. L’aveva già preconizzata, circa un secolo e mezzo fa, il principe di Metternich: «L’Europa muore: sono in buona compagnia». Ma ancor prima, dall’orizzonte pallido e acqueo di Sant’Elena, l’aveva scrutata Napoleone. Fine del «vecchio ordine», quello della novalisiana Chistenheit oder Europa: le cattedrali, le università, il Sacro Romano Impero. Già Goethe si chiedeva se (e come) stesse ancora in piedi, il buon vecchio Santo Impero, e più tardi, nei Nürnberger Meistersinger, Wagner esclamava che l’impero tedesco poteva anche finir a gambe all’aria purché ben salda restasse la sublime arte tedesca.
Ma fine anche dell’Europa napoleonica e napoleonide, fondata sull’esportazione lacunosa e apparente degli ideali rivoluzionari, sulla federazione imperfetta dei regni e di repubbliche tenuta insieme dai molti parenti e affini che l’imperatore doveva sistemare, dall’ingegneria costituzionale dei suoi giuristi, dal gioco in borsa e dalla ben odiata macchina fatta di coscrizioni militari, guerre continue, sviluppo industriale, commesse militari e tirannide burocratica che costituivano l’ossatura del regime gestito da quell’ufficiale còrso d’artiglieria che pur aveva dato – e non bisogna mai dimenticarlo – un senso storico reale e concreto alla Rivoluzione francese: così come, un secolo e qualcosa più tardi, Stalin avrebbe dato alla Rivoluzione bolscevica l’unico plausibile senso storico ch’essa abbia mai avuto.
E fine altresì di tutte le società europee e eurocentriche “delle nazioni”, dal “concerto” nato nel Congresso di Vienna fino alla “Lega” scaturita dalla necessità di mantener ben fermi i risultati di quei trattati di Versailles del 1918 che la loro stessa ingiustizia profonda rendeva fragile e forieri, più che di una stabile pace futura, di nuove guerre.
Aggiungiamo in sordina che l’hanno sognata in tanti, l’Europa, anche dopo il palese fallimento della pace ingiusta di Versailles: Coudenhove-Kalergi, Altiero Spinelli, ma anche – ebbene sì – Pierre Drieu La Rochelle. Solo che si trattava sempre di concetti di Europa l’uno molto diverso dall’altro, inconciliabile con l’altro.
Europa unita, sì: ma quale Europa? In quali rapporti con gli Stati nazionali che la componevano (e quali erano questi Stati)? Sulla base di quale assetto socioeconomico?
L’Europa è morta, viva l’Europa!
L’Europa muore, sta morendo, è già morta: Napoleone, Metternich, Drieu La Rochelle e Cioran sono tragicamente d’accordo. E chi ha creduto di farla rivivere – o vivere tout court – nell’escamotage della CECA poi divenuta CEE, mai approdata alla CED (una “Comunità Europea di Difesa” bocciata nel ’53 dalla convergenza tra destre nazionaliste e sinistre socialcomuniste e malamente sostituita dalla NATO, forza anti-europeista per eccellenza) e infine approdata all’Ue si sbagliava.
Ma allora che cos’hanno mai fatto Schumann, Adenauer, De Gasperi? Hanno pronunziato un nome vuoto? Hanno evocato un pallido fantasma? Si sono illusi di poter proporre una rifondazione spiritual-continentale? Di Europa si parla fino dai tempi di Erodoto: è il nome di una mitica fanciulla fenicia rapita e amata da Zeus e di un continente, di una parte del mondo antico: dall’età carolingia fino al XVIII secolo è stata in un modo o nell’altro sinonimo della cristianità latino-germanica.
Nel suo libro L’armonia nel mondo. Miti d’oggi, edito da Rizzoli, Pietro Citati ripubblicò nel 1999 un articolo del 1986 dedicato a una sua visita alla minuscola chambre de bonne nella quale a Parigi viveva Cioran. «Lui parla e sorride, ride a bocca aperta, gioiosamente. È candido e demoniaco. Niente è più piacevole che ascoltare ridere questo disperato. Non può fare a meno di parlare di un argomento che gli sta a cuore da quaranta anni: la decadenza dell’Europa. Scuote la testa, desolato e felice: – L’Europa è finita -».
Commentava trent’anni or sono Citati: «Chi potrebbe dar torto a Cioran? La storia dell’Europa non è che una lunga decadenza». Anche questo era già stato detto: in un certo senso, l’aveva sostenuto Hegel chiamando quell’Europa-Occidente «sera del grande giorno iniziato ad Oriente». La fine (e il fine) di un’Europa-Occidente di cui, con un Kulturpessimismus goethiano-nietzschiano opposto al senso della storia hegeliano, Spengler aveva potuto parlare di un “tramonto dell’Occidente” ch’era, appunto, tramonto dell’Europa.
Ma le cose, da allora, sono cambiate. Dai primi del Novecento nella sostanza, dalla seconda metà del secolo nella realtà evidente e condivisa, la leadership mondiale – sia pur assoluta e per più versi “imperfetta” – è spettata indubbiamente agli Stati Uniti d’America: dal canto loro, e nei loro ambienti politici e culturali di élite, ben consapevoli di essere quel che fin dall’Ottocento i “bramini” di Boston e costituzionalisti “neosassoni” (i John Adams, i Cabot-Lodge, i Fiske) si proclamavano: eredi e discendenti del “miglior sangue d’Europa”.
Non si è ancora riflettuto abbastanza sul dato obiettivamente anti-europeo costituito dall’invenzione rooseveltiano-staliniana della “Cortina di Ferro”, che favoriva certo gli interessi egemonici dell’Unione Sovietica, ma al tempo stesso vanificava l’Europa – che divideva in due parti – e legittimava un equilibrio favorevole agli Stati Uniti, che avevano già in parte fagocitato il continente americano favorendone e determinandone la de-ispanizzazione, quindi la de-europeizzazione (con scelte in molti casi di autentica aggressione colonialistica: com’era accaduto al tempo delle guerre messicane contro il Messico del Santa Ana prima, di Massimiliano d’Asburgo poi, di Porfirio Diaz infine; o della guerra di Cuba; o delle molte successive ingerenze nella situazione panamense; o delle sistematiche forme di sostegno ai regimi dei gorilas accompagnate dall’offensiva contro un Vargas in Brasile o un Perón in Argentina).
Oggi però, nel mondo, l’assenza europea – alla quale gli Stati Uniti d’America hanno assiduamente lavorato dal 1945 a oggi, sfruttando cinicamente e sistematicamente l’alibi anticomunista – si fa sentire. Certo, è finita l’era dei blocchi egemonici intraeuropei. All’Europa finita di Metternich e di Cioran, all’”Europa-Nazione” mai nata di Drieu La Rochelle, dovrebb’essere giunta l’ora di sostituire un’Europa comunitaria che dalle preoccupazioni prevalentemente economico-finanziarie passi alla volontà di pensare e di agire in termini anche politici, diplomatici, se occorre militari.
Finché non cominceremo a entrare in quest’ordine d’idee, l’Europa unita non uscirà dall’infanzia. Morrà come una vecchia bambina: e tutto il mondo subirà le conseguenze negative della sua mancanza.
Un nuovo Anno Zero?
A questo punto rieccoci al vecchio interrogativo leniniano: “Che fare?”. In un pamphlet che avrebbe forse dovuto essere un dialogo, ma che si risolveva in due monologhi contrapposti, Giuliano Amato ed Ernesto Galli della Loggia – pur convenendo “non solo che il progetto europeo vada proseguito (Euro incluso, per ciò che riguarda l’Italia), ma che ciò vada fatto mettendosi su una strada diversa da quella del passato” – percorrevano rispettivamente una via molto diversa se non opposta: il primo sosteneva che esso debba esser portato avanti superando la frattura tra Nord e Sud, tra Paesi creditori e Paesi debitori, sconfiggendo la crescente ostilità dei populismi anti-europei, il secondo riteneva necessario eliminare l’equivoco dell’“ideologia europeista” facendo ripartire un’Europa fondata su identità, condivisione e storia comune9.
Tuttavia, quel pur denso e interessante dibattito, svoltosi due-tre anni fa, appare ormai desueto. Oggi molte cose sono cambiate, ma non siamo in grado di dire quanto definitivamente e in che misura. Siamo letteralmente “in mezzo al guado”. La dimensione dell’incombente crisi epocale si è ormai palesata in tutta la sua potenza col “vertice di Davos”, con la parata della sessantina circa di soggetti familistici e lobbistici nelle mani dei quali si concentra la maggior parte della ricchezza – fisicamente conservata off shore, quando non sia puramente virtuale – in un mondo caratterizzato dalla più spaventosa sperequazione e dal gigantesco dilatarsi dell’impoverimento. D’altro canto le recenti esternazioni del neopresidente Trump a proposito della NATO (uno smantellamento o un ridimensionamento della quale potrebbe tuttavia presentarsi, paradossalmente, come una buona occasione per l’Europa, se non altro consentendole di recuperare un po’ di sovranità) e il suo sia pur problematico avvicinamento sia alla Russia di Putin, sia all’Inghilterra del Brexit, potrebbero condurre, come si dice, a un enorme “allargamento dell’Atlantico”: e ciò potrebbe costituire un’inedita possibilità obiettiva di ridefinizione del progetto unitario europeo.
NOTE
1. Cfr. V. Pinto, Sein und Raum. L’Oriente esistenzialistico di Martin Buber e di Vladimir Jabotinsky, «L’Acropoli», 2, marzo 2004, pp.203-24.
2. Su orientalismo ed esotismo, e sulle diverse funzioni che l’idea di “Oriente” ha rivestito nella cultura, nella politica e nella società europee, a parte gli ormai classici lavori di E. Said e di altri, si ricorra per esempio a T. Hentsch, L’Orient imaginaire, Les Editions de Minuit, Paris 1988. Un tentativo di definire le relazioni filosofiche tra “Oriente” e “Occidente” in termini di “campi filosofici” (evidentemente elaborati all’interno della cultura europea) è in C. Fleury, Dialoguer avec l’Orient, CNRS Eds, Paris 2003.
3. Ampia documentazione in R. Gobbi, America contro Europa, M&B Publishing, Milano 2002.
4. Ma non si dimentichi quanto testimoniato in due libri dall’impianto concettuale discutibile forse, tuttavia documentati e terribili: AA.VV., Il libro nero del capitalismo, tr.it. Marco Tropea, Milano 1999, e AA.VV., Le livre noir du colonialisme, dir. M. Ferro, Fayard, Paris 2003.
5. La bibliografia al riguardo è anche in italiano ormai ampia, per quanto un po’ ripetitiva. Importante comunque il rinvio a L. Edwards, Le radici dell’ordine americano: la tradizione europea nei valori del nuovo mondo, tr.it., Mondadori, Milano 1996, e a L. Donno, In nome della libertà. Conservatorismo americano e guerra fredda, Le lettere, Firenze 2004. Queste tematiche stanno facendo una certa fortuna e hanno trovando adepti anche in Italia all’interno di una certa destra “tradizionalista” che appare in cerca di nuove giustificazioni e di nuovi padri intellettuali: cfr. AA.VV., Europa-USA, oltre il conflitto, «Percorsi», 4, gennaio 2004, pp.13-54.
6. Cfr. AA.VV., L’américanisation de l’Europe occidentale au XXe siècle, dir. P. D. Barjot et C. Réveillard, Presse de l’Université Paris-Sorbonne, Paris 2002.
7. Sulla genealogia – forzosa – d’una cultura occidentale tesa monodirezionalmente sul filo diretto Grecia-Roma-Modernità (con un cristianesimo che pare quasi un incidente di percorso e un Medioevo abbuiato), è significativo il pur bel libro, straordinariamente erudito, di B. Quilliet, La tradition humaniste, Fayard, Paris 2002.
8. Sull’Oriente come volontà di potenza, S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2002.
9. G. Amato, E. Galli della Loggia, Europa perduta?, Il Mulino, Bologna 2014, p. 8 e passim.