Quando leggo che è una generazione aperta, che ha amici in tutto il mondo, non mi sento poi così diversa. Perché, noi stavamo chiusi in casa a guardare la tv (in bianco e nero, peraltro)?
Non c’erano i social network, ma avevamo anche noi i nostri amici lontani. Qualcuno si ricorda i pen friends? Gli amici di penna, che non conoscevamo, ma a cui scrivevamo lettere e cartoline, e che speravamo, un giorno, di incontrare di persona. Non ne ho mai conosciuto nessuno, ma a un certo momento sono arrivata ad avere 36 corrispondenti, da tutti i continenti. La mia cassetta della posta straripava meravigliosamente, ogni giorno, di lettere e pacchettini. Una ragazza giapponese mi ha spedito regalini di tutti i tipi. E ci scambiavamo musica con le cassette (quelle che poi dovevamo ripristinare con l’aiuto di una bic), con canzoni in lingue che non conoscevamo.
La fotografia, spesso, faceva la differenza. I ragazzi, molte volte, ce ne chiedevano una. Dopo aver visto la mia foto un corrispondente americano ha smesso di scrivermi; in compenso uno turco e uno coreano mi hanno chiesto di sposarli. E non ci siamo mai chiesti di che religione fossero i nostri amici lontani, né ci ponevamo il problema se qualcosa potesse offenderli: volevamo soltanto conoscerci.
Non c’era l’Erasmus, ma avevamo l’Interrail, un biglietto ferroviario che consentiva di viaggiare illimitatamente in seconda classe, per un certo periodo, in molti paesi d’Europa. Quando l’ho utilizzato io, bastava avere meno di 26 anni. Così a 19 anni, un’estate, ho preso il treno con un’amica senza nemmeno sapere dove avremmo dormito il giorno dopo. C’erano i controlli alle frontiere e non era immaginabile tutta la mobilità di oggi: l’Europa unita l’abbiamo fatta anche noi.
Sono figlia del baby boom degli anni Sessanta, ma abbiamo attraversato il periodo dell’austerity, a scuola ci assegnavano il tema “Una domenica senza macchina”, parlavamo di ecologia e studiavamo i pannelli solari. Erano gli anni della guerra fredda e del terrorismo politico. Eppure prendevamo i treni e frequentavamo le stazioni e i luoghi di ritrovo dei giovani.
Non tutti i miei amici sono stati incoraggiati dai genitori a seguire la loro strada. Alcuni hanno dovuto prendere il diploma imposto dalla famiglia prima di poter realizzare i propri sogni: si sono trovati un lavoro qualsiasi, si sono messi via i soldi e sono andati, finalmente, a lavorare e a studiare all’estero.
Non c’erano, ovviamente, i cellulari, ma non mi sono mai chiesta se i miei genitori fossero preoccupati: andavo, e via. Eppure la generazione dei miei genitori era stata bambina durante la guerra, aveva vissuto la fame e la paura dei bombardamenti. La loro educazione era stata diversa dalla mia, così come era stata diversa quella dei miei nonni. La generazione dei miei nonni di guerre mondiali ne aveva dovuto passare due, e dopo ogni conflitto si era dovuta reinventare un luogo, un lavoro e una vita. Ogni generazione ha avuto i suoi problemi, e si sarà scagliata contro quella precedente che glieli aveva procurati.
Ma c’è sì, una cosa che ci differenzia profondamente dalle nuove generazioni. Avevamo una incredibile fiducia nel futuro. Questa fiducia in loro non c’è più, e ora ne abbiamo poca anche noi. Forse sarà il caso che, tutti insieme, proviamo a recuperarla.