L’ignoranza è una “brutta bestia”: parola di Luciano

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Prova di greco: a beneficio soprattutto degli studenti (ai quali i colleghi durante la prova orale potrebbero chiedere qualcosa sul testo che hanno tradotto), ecco qualche semplice nota per una migliore comprensione del clima culturale e della mentalità che stanno dietro alle riflessioni lucianee.

Un commento alla Prova di Greco dell’Esame di Stato 2014

 

Su queste colonne è già apparsa la traduzione del passo di greco proposto come Seconda Prova della “Maturità” classica 2014, e cioè il testo di Luciano di Samosata intitolato L’ignoranza acceca gli uomini, tratto dall’operetta retorica dai toni filosofeggianti Non si deve credere facilmente alla calunnia (Περὶ τοῡ μὴ ῥᾳδίως πιστεύειν διαβολῇ).
Inoltre già altri si sono cimentati – anche su web – sul commento linguistico e retorico del brano.
Pertanto io, a beneficio soprattutto degli studenti (ai quali i colleghi durante la prova orale potrebbero chiedere qualcosa sul testo che hanno tradotto), mi limiterò in queste sede a qualche semplice nota che aiuti a una migliore comprensione del clima culturale e della mentalità che stanno dietro alle riflessioni lucianee.
Anzitutto è bene ricordare come Luciano sia uno dei più illustri rappresentanti di quel melting pot culturale che caratterizzò la cosiddetta “età greco-romana”. Infatti nacque intorno al 120 d.C. nella “barbarica” Commagene di Siria, ma apprese poi alla perfezione il greco: maestro di retorica e conferenziere, ma anche avvocato e diplomatico, passò la vita tra l’Asia Minore, Atene e Roma; sì quella Roma imperiale che da Adriano in poi aveva esaltato l’apporto culturale delle province e che nel 212 d.C. avrebbe concesso a tutti i peregrini la cittadinanza romana. Il nostro non vide però quella data, poiché morì nell’amata Atene tra il 180 e il 190 d.C. ca.
Ma il melting pot di cui Luciano fu protagonista non è solo espresso del suo cosmopolitismo, bensì dalla sua capacità di essere sintesi di una secolare tradizione letteraria, filosofica, retorica, greca e romana. Sintesi che gli studiosi hanno considerato aspetto caratterizzante della cosiddetta “Seconda sofistica”, corrente filosofico-letteraria della quale il nostro fu – probabilmente – la personalità più originale ed eclettica: il corpus dei suoi scritti è infatti molto vasto, e comprende, tra le altre, opere celeberrime, come la Storia Vera (parodia romanzesca della storiografia), i numerosi e diversissimi Dialoghi (tanto amati da Giacomo Leopardi), e il controverso Lucio o l’Asino (forse) modello delle Metamorfosi di Apuleio. In queste, come nelle opere minori (tra le quali vi è l’operetta da cui siamo partiti), Luciano, con una prosa brillante, dà sfoggio di una vasta cultura filosofica (il cui eclettismo è evidente: vi sono echi epicurei e neoplatonici, ma soprattutto una sostanziale vicinanza alla cosiddetta “diatriba cinico-stoica”) e di un’impareggiabile capacità di trattare i temi più svariati. Luciano piaceva al pubblico del tempo e “si piaceva”, tanto che la critica ha parlato per lui di forme di “auto-imitazione”, in quanto oltre ai “grandi” del passato il retore di Samosata amava citare – perché no? – anche se stesso, riproponendo nel tempo più volte gli stessi argomenti con un raffinato gioco di variazioni.
Poteva un intellettuale così tollerare l’ignoranza (ἄγνοια)? No di certo, e questo ci dice nella versione d’esame. Attenzione, però, perché quella di cui Luciano parla non è (solo) l’ignoranza “scolastica”, ma è soprattutto la “non consapevolezza”, la “mancanza di coscienza” e/o “conoscenza” delle cose; infatti il temine greco ἄγνοια è costituito dall’unione del cosiddetto “alfa privativo” con la radice γνω (quella di γιγνώσκω, cioè “conosco”).
Non è pertanto un caso che gli esempi proposti per dimostrare la cecità nella quale vivono gli uomini “inconsapevoli”, ma soprattutto le paurose conseguenze di questa condizione siano quelli dei Labdacidi e dei Pelopidi. I Labdacidi sono i discendenti di Labdaco, padre di Laio, ucciso dal figlio Edipo “inconsapevole” del fatto che costui fosse il proprio genitore; i Pelopidi sono i discendenti di Pelope, padre di Atreo e Tieste: quest’ultimo “inconsapevole” mangiò addirittura la carne dei propri figli. Inutile raccontare le terribili (talora indicibili) conseguenze di quei gesti anche sulle generazioni successive, che sono state oggetto di numerose opere tragiche.
Ed ecco che il passo lucianeo comincia così a mostrare – sotto un’apparente semplicità – un caleidoscopico gioco di rimandi dottissimi. Infatti, dopo la menzione del mito di Edipo, il riferimento iniziale all’ignoranza come forma di “cecità” (ἐν σκότῳ γοῦν πλανωμένοις πάντες ἐοίκαμεν, μᾶλλον δὲ τυφλοῖς ὅμοια πεπόνθαμεν, τῷ μὲν προσπταίοντες ἀλόγως, τὸ δὲ ὑπερβαίνοντες, οὐδὲν δέον, καὶ τὸ μὲν πλησίον καὶ παρὰ πόδας οὐχ ὁρῶντες, τὸ δὲ πόρρω καὶ πάμπολυ διεστηκὸς ὡς ἐνοχλοῦν δεδιότες) assume tutt’altra suggestione. E oltre a vari altri riferimenti tragici (che – lo ammetto – ho appreso solo leggendo commenti altrui…), il primo che mi è venuto in mente mentre leggevo “con la coda dell’occhio” la versione da distribuire agli studenti è scaturito dalla presenza del participio πλανωμένοις, voce di quel verbo (πλανάω, cioè “vago, erro”) dal quale deriva la forma πλανήτης (“profugo, errante”) con la quale Edipo chiama se stesso al v. 3 dell’Edipo a Colono sofocleo (opera della quale già ho scritto su queste colonne). Insomma, il lettore colto avrà potuto – al di là dell’espressione proverbiale “brancolare nel buio” (ἐν σκότῳ γοῦν πλανωμένοις) – trovare una sorta di anticipazione del successivo riferimento mitologico: se tutti siamo “accecati” metaforicamente dall’ignoranza, Edipo, l’exemplum mitico di questa condizione, si era infatti “accecato” davvero, e come tale girava la Grecia in cerca di ospizio!
D’altronde, se la maggior parte delle sventure messe in scena a teatro (ἐν τῇ σκηνῇ) sono guidate da un demone che ha le forme dell’ignoranza (ὑπὸ τραγικοῦ τινος δαίμονος), la parte finale della versione, nella quale si fanno riferimenti più generici alla rovina di famiglie, amicizie, legami politici per lo stesso motivo, è come se desse al lettore la possibilità di partecipare attivamente al “dialogo” con chi scrive: si tratta di una tecnica nota, propria della “predicazione diatribica”. Qui ognuno potrà pensare al mito (e dunque, soprattutto, ancora al teatro), alla storia oppure alla vita vera, perché in tutti i campi gli exempla non mancano; e poi, suvvia, quelle “maschere teatrali” guidate dall’ignoranza di cui si è appena parlato non hanno forse un sapore quasi “pirandelliano” ante litteram, suggerendo una sovrapposizione tra fiction e realtà? Sì, forse è questo il senso più profondo del passo d’esame: Luciano, mentre ci spiega perché Non si deve credere facilmente alla calunnia, vuole però convincerci – 3da buon “illusionista” – a credere al suo sapiente mix di letteratura (molta) e vita vera (poca). Ed è da molti secoli che tutti noi ci lasciamo volentieri ingannare, anche se spero che la prosa limpida del nostro – in sede d’esame – non abbia (sintatticamente parlando) “ingannato” troppi studenti!

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