Reimpiego di “antiche pietre” in area cicladica: dopo Naxos, divagazioni archeologiche tra Folegandros e Sikinos
Reimpiego di “antiche pietre” in area cicladica: divagazioni archeologiche tra Folegandros e Sikinos
La storia di molte isole dell’arcipelago delle Cicladi è legata a quella di Naxos, di cui già ho scritto su queste colonne. E questo non solo per quanto riguarda l’epoca antica, ma anche per quelle successive, in virtù del primato che Naxos ebbe su larga parte dell’Egeo quando divenne, all’inizio del XIII secolo, la capitale di un potente Ducato retto dal veneziano Marco Sanudo.
Oggi vorrei parlare delle splendide isole “gemelle”di Folegandros e Sikinos, poste della natura quasi specularmente l’una davanti all’altra. Ma non lo farò in relazione alla loro comune “dominazione veneziana”, e neppure al fatto che in un più o meno recente passato siano state entrambe luogo di deportazione – lo furono infatti, probabilmente, già in epoca romana, e tornarono ad esserlo sia sotto il regime dittatoriale di Ioannis Metaxas, dal 1936 al 1940, sia sotto quello dei cosiddetti “Colonnelli”, dal 1967 al 1974. Lo farò invece proponendo una straordinaria documentazione di continuità con il passato classico, che gli isolani operarono attraverso il reimpiego edilizio di manufatti antichi in edifici religiosi (e non) successivi, quando non attraverso vere e proprie forme di “metamorfosi” di luoghi di culto pagani in chiese cristiane.
Partirò da Folegandros, e da un celebre monastero ubicato in località Chora, arroccato sulla cima di un’altura e raggiungibile con un ripido sentiero a zig-zag: in questo sito, forse, sorgeva anticamente un tempio dedicato ad Artemide, dea nata nella non lontana Delo insieme con il fratello Apollo. Qui si conserva una veneratissima icona – dalle vicissitudini quasi leggendarie – della Madonna (Panaghía), cui l’edificio sacro è dedicato; anzi, per la precisione qui si ricorda la Kímisis (“Dormizione”) della Vergine, e cioè il sonno che ne consentì l’assunzione al cielo, evento oggetto anche per gli ortodossi di solenni celebrazioni il 15 agosto. In quel giorno in ogni località della Grecia – foss’anche l’isola più sperduta, quasi uno scoglio in mezzo al mare – non mancano cerimonie religiose, ma anche musica, danze, grigliate… Greci e turisti spesso si trovano insieme a ballare fino al mattino, tra un bicchiere di retsína (il “vino resinato”: o lo ami o lo odi e io lo amo se è ben ghiacciato!) e una fetta di rinfrescante anguria, che da queste parti chiamano karpoúzi, termine derivato dal greco classico karpós (“frutto”): anche questa, in fondo, è una forma di continuità col passato, quasi a ricordarci che l’anguria è qui il “frutto per eccellenza”.
Ma torniamo al monastero di Folegandros, per non dare un taglio troppo “vacanziero” a quest’articolo. Non sappiamo quando la chiesa sia stata eretta ma di certo fu più volte rinnovata, e il suo aspetto attuale è dei primi dell’Ottocento; però vediamo con certezza come qua e là compaiano “annegati” nelle sue mura o appaiano nei suoi pressi marmi lavorati d’epoca greco-romana, quali un busto di uomo togato che è collocato in una nicchia del campanile, o una base di statua con iscrizione greca a destra della porta di ingresso dell’edificio principale.
Inoltre poco sotto la chiesa si trova un cimitero, ancora oggi usato dagli abitanti dell’isola. La sua struttura è composita, terrazzata, e presenta porzioni murarie del IV sec. d.C.; accanto al cimitero è oltretutto visibile un muro dove, sopra un piccola volta, compaiono affiancati una croce cristiana e un busto d’epoca greco-romana: connubio sorprendente e suggestivo, atto a segnalare una “cappella funeraria” di primo Novecento. Insomma, è come se il DNA degli abitanti locali avesse cercato, pur nell’avanzare dei secoli, nel mutare delle religioni e delle culture, di mantenere vivi e visibili i “cromosomi” del proprio passato classico. E di certo chi, nel 1852, trovò proprio a Folegandros una stele funeraria greca, non ci pensò due volte a farne ornamento della sua bella casa di Chora. Se fossi politically correct griderei allo scandalo e al sopruso, ma me ne guardo bene, perché la bella stele marmorea è all’aperto, visibile da tutti, ed è ormai parte integrante del cosiddetto “arredo urbano” al pari dei frammenti di colonne e capitelli classici che i Veneziani usarono per edificare il loro Kastro. Mi piace invece pensare che i due personaggi effigiati sulla lapide soffrirebbero l’angustia di un Museo, dato che già le loro “ombre” (come direbbe Omero) debbono sopportare in aeternum l’oscurità del mondo dei morti…
Il caso più clamoroso è però quello che ho trovato sull’isola di Sikinos, nella remota località di Episkopi. Si tratta di una chiesa cristiana che, nelle forme attuali, è l’esito della ricostruzione dopo un violento terremoto del XVII secolo, ma che, come appare dalla struttura della pianta e dal reimpiego di numerosi pezzi architettonici (specialmente colonne doriche, ma anche una splendida cornice modanata visibile soprattutto su un lato), ebbe una sua funzione già in epoca antica. Infatti fu forse all’origine un piccolo tempio di Apollo Pizio (III sec. a.C.), che i Romani nel III sec. d.C. riutilizzarono come mausoleo e che all’inizio del VI sec. d.C. fu “cristianizzato” dai Bizantini, i quali lo dedicarono – come a Folegandros – alla “Dormizione” della Panaghía.
In realtà non mancano ipotesi diverse e c’è chi pensa (con qualche buona ragione) che il monumento originario più che un tempio di Apollo possa essere stato un heróon o un mausoleo, eretto nell’epoca della dominazione romana. Quel che è certo, però, è che il toponimo Episkopi presuppone un epískopos (un “vescovo”), e fa dunque ipotizzare una certa importanza religiosa in età medievale di questa chiesa, che è davvero un unicum – nella sua eclettica originalità – in tutte le Cicladi.
Dalla solitudine di Episkopi si ammira inoltre l’aspro paesaggio circostante, che digrada tra valloni e strapiombi verso il mare Egeo, che è blu intenso quando è giorno, ma che all’imbrunire diventa – e cito ancora Omero – “color del vino”. E, a proposito di vino, niente male è il “rosato” che – con orgoglio – gli isolani strappano alle aride pendici di Sikinos, proprio nelle vicinanze di Episkopi, tanto che qualche vigna si scorge anche dall’area della chiesa. Ma soprattutto da qui, in lontananza, si scorgono le sagome delle altre isole più o meno vicine, dove 3000 anni prima di Cristo si sviluppò la cosiddetta “civiltà cicladica”. Sì, forse il DNA di cui parlavo prima, e che ci accomuna tutti (o almeno, così mi piace credere), si trova già in quegli stilizzati idoletti marmorei, che tanto piacquero a Picasso, Matisse, Giacometti o Henri Moore, i quali – non meno dei laboriosi costruttori delle nostre chiese – li “riutilizzarono” come frammenti di memoria artistica passata. Ma qui è bene fermarsi, perché volevo parlare di antiche pietre, e non di arte contemporanea.