Quando Cesare giunse in Gallia, Roma già da un cinquantennio aveva ridotto a provincia la Gallia Narbonese, corrispondente all’odierna Francia del Sud, e i primi interventi del futuro dictator, nel 58 a.C., furono proprio a protezione dei domini romani: solo in un secondo tempo egli si diede alla conquista della restante parte del territorio gallico. E tanto fu alto, nei secoli, il livello di romanizzazione e lealismo di quell’area che anche oggi il suo nome lo documenta: la Provence, infatti, è come se fosse ancora (pure dall’etimologia!) il modello perfetto di provincia romana.
Sono molte le località che, in quell’area, ci mostrano i loro tesori archeologici d’epoca romana: da Frejus, ad Arles, a Nimes, per non parlare del celeberrimo Pont du Gard… e l’elenco sarebbe lunghissimo. In questo articolo, però, voglio parlare di due centri in particolare, dove sono tornato di recente dopo alcuni anni: Orange, l’antica Arausio, e Vaison la Romaine, l’antica Vasio Julia Vocontiorum, mete che suggerisco senz’altro ai colleghi insegnanti che intendano organizzare un interessante viaggio di istruzione.
Pur non volendo indugiare troppo in dettagli storici, ricorderò anzitutto come la prima – Orange – sia stata fondata ex novo come colonia romana per accogliere i veterani della legio II nel 35 a.C. su un sito d’insediamento gallico complessivamente modesto; invece la seconda – Vaison – all’arrivo dei Romani era già l’importante capitale del popolo gallico dei Vocontii (filo-romano e supporter di Cesare) e assunse poi lo status di città alleata di Roma. Questo spiega una certa differenza d’impianto urbano tra i due centri, pure geograficamente piuttosto vicini: impianto più regolare, tipicamente ortogonale nel primo caso, più irregolare e “disordinato” nel secondo caso, nonostante gli interventi urbanistici di età flavia.
Ma cominciamo da Orange e da quello che nientemeno che Luigi XIV definì il muro più bello di tutto il regno. Sì, un muro, ma non uno qualunque: è l’unico muro di scena di un teatro romano che sia giunto pressoché integro fino a noi! Infatti una delle meraviglie che oggi questa città può mostrare ai suoi visitatori è il suo teatro romano, monumento di età augustea che poteva contenere fino a 8-9000 spettatori. Dai gradini della cavea, ancora ai giorni nostri, si può godere dell’acustica superba del teatro, e – guardando il muro di scena – si può immaginarlo ricoperto di marmi, stucchi, mosaici e interamente adornato di colonne marmoree: in una nicchia vi è ancora una statua imperiale di circa tre metri e mezzo. E se la fantasia è fervida, si può anche provare a “materializzare” la presenza chiassosa degli attori, intenti a rappresentare una commedia o un mimo davanti ad un pubblico eterogeneo, fatto di gente umile, di artigiani, di veterani, ma anche di sussiegosi membri dell’aristocrazia romana o gallo-romana. Insomma, di quella vasta compagine che Augusto provava con la forza del suo carisma a tenere unita, lui che aveva sì “reso di marmo” – secondo Svetonio – la Roma di mattoni, ma che così aveva fatto anche con molte parti del nascente impero.
Fu infatti sempre Augusto nel 20 a.C. a fare erigere ad Arausio un superbo arco trionfale a tre fornici, per commemorare lo scomparso Germanico: del monumento si “appropriò” in seguito Tiberio, facendoselo dedicare. Ubicato sulla strada tra Lione e Arles, quest’arco – al pari di tutti gli archi – “non serve a nulla”, come giustamente osservano gli amici archeologi o storici di Roma. Chiaramente questa è solo un’acuta provocazione, perché anche se è vero che la sua funzione strutturale era nulla, l’arco – le cui decorazioni esaltano le imprese della legio II – serviva come elemento di coesione ideologica e di propaganda politica: era uno dei tanti signacula della presenza di Roma extra pomerium, della sua forza militare, della sua civiltà avanzata. Galli o romani che fossero, o meglio ancora gallo-romani, gli abitanti di queste plaghe dovevano infatti sentire, passandoci sotto, il “brivido” di appartenere a quella Storia con la S maiuscola che il loro princeps stava costruendo, e che stava puntellando – da buon esperto di marketing e comunicazione – con ogni strumento propagandistico possibile.
Ma la presenza di Roma ad Orange non fu solo spettacolo e propaganda, ci mancherebbe altro! Infatti nel locale Museo municipale si conservano i quadrati marmorei del famoso “Catasto di Orange”, di epoca flavia: una vera mappa dell’antico territorio, comprendente la sua descrizione fisica (strade, alture, corsi d’acqua…), ma anche la struttura ortogonale della città, nonché informazioni sullo status giuridico e fiscale dei vari appezzamenti di terreno. I Romani sapevano bene che senza le tasse il loro impero sarebbe crollato (per l’evasione fiscale crollerà la nostra Repubblica? Siamo sulla buona strada, purtroppo…) e – pur senza potersi costruire archivi informatici – avevano pertanto sviluppato una gestione abbastanza avanzata del sistema fiscale prediale.
Niente di così vistoso appare oggi a Vaison la Romaine, eppure l’area dei due siti archeologici che mostrano la città antica (quello della Villasse e quello del Puymin) si estende per molti ettari, tanto che – orgogliosamente – i dépliant turistici scrivono Bienevenue dans le plus grand site archéologique de France. A Vaison possiamo renderci conto della compresenza di lussuose domus, con pavimenti a mosaici ed eleganti elementi d’arredo (come quella “dell’Apollo laureato” e “del pavone”, nel quartiere del Puymin, o “del busto d’argento” e “del delfino”, nel quartiere della Villasse) con aree di edilizia popolare, negozi, terme e opere pubbliche. Non mancano giardini pubblici, un ninfeo, e pure un teatro, più piccolo di quello di Orange e pesantemente restaurato, ma pur sempre suggestivo. Così come suggestivo è il ponte d’epoca romana sul fiume Ouvèze, il più grande e meglio conservato della provincia Narbonensis.
Un cenno merita anche la qualità artistica di alcune statue di imperatori conservate oggi nel locale Museo archeologico, tra i quali Claudio, Domiziano, e un “eroico” Adriano con la moglie Sabina; né vanno dimenticati la splendida testa di Apollo laureato e il piccolo busto virile d’argento, che danno il nome alle rispettive domus, come pure due straordinarie maschere teatrali che fungevano da antefisse di monumenti funerari di lusso, e in generale alcuni oggetti di uso quotidiano legati alla cultura materiale di manifattura assai fine. Non ci stupiamo dunque che questa città – che vantava forse 10.000 abitanti – abbia in epoca imperiale dato i natali a una figura di rilievo come Afranio Burro, primo prefetto del pretorio di Nerone e sua “guida” insieme con Seneca, e forse anche allo storico Publio Cornelio Tacito. Quest’ultima è poco più di un’ipotesi, e nasce dalle intuizioni del grande storico Ronal Syme che, analizzando la documentazione epigrafica locale, avrebbe qui localizzato un ramo importante della sua famiglia. Francamente, io su ciò sospendo il giudizio: eppure l’idea che il più grande storico latino abbia origine gallica non mi dispiace. In Tacito convissero infatti l’adesione politica all’impero (fu senatore, console e governatore di provincia) con la coscienza etica della sua crisi imminente e l’attenzione vigile a quanto avveniva nel Barbaricum; e tale visione critica della realtà – a mio avviso – è più vicina alla sensibilità di un provinciale romanizzato che di un italico “purosangue”. Inoltre Tacito parla bene, negli Annales, del suo potenziale concittadino Burro!
E poi Tacito ha nel suo stile l’irregolare varietà che in questa terra di Provenza ciascuno potrà trovare. In pochi chilometri si passa, infatti, dall’azzurro del mare al verde dei boschi, oppure dai placidi campi di lavanda e girasoli all’impervio Mont Ventoux, che già incantò (e sfiancò nella salita…) il Petrarca. Oppure – con riguardo all’architettura – la coesistenza di “romano” e “romanico” in queste zone è cosa consueta (nella vicina Carpentras un arco romano è stato pressoché incluso nelle successiva cattedrale…), così come – con riferimento all’arte – fu consueta la frequentazione provenzale degli Impressionisti, per tacere dell’arlesiano d’adozione Van Gogh. Certo, Tacito queste cose non le sapeva e non le vedeva, ma noi sì, per nostra fortuna. Quello che, forse, egli conosceva, era il vino locale, allora però di scarsa qualità e poco apprezzato: ci vorranno i Papi ad Avignone perché in loco si cominciasse a bere come si deve, e il borgo di Châteauneuf de Pape, uno dei sancta sanctorum del vino francese, è proprio qui a due passi. Dove non è arrivato l’impero romano ci ha pensato il papato, e allora forse Clemente V non si merita del tutto – almeno da parte dei vignerons locali… – i pesanti strali danteschi! Anche nelle preziose bottiglie di questo territorio scorrono infatti i flussi di quella Storia di cui Augusto, morto giusto duemila anni fa, aveva scritto il secondo capitolo: il primo l’aveva steso ovviamente Giulio Cesare, suo prozio e padre adottivo.