L’atteggiamento di assimilazione è ben rappresentato, ad esempio, dal caso dell’esploratore Vasco da Gama che, entrando per la prima volta in un tempio indiano, identificò una scultura di Brahma, Vishnu e Shiva con un’immagine della Santissima Trinità.
D’altra parte, le immagini fanno parte di una determinata cultura e senza la conoscenza di quella cultura non possono essere facilmente decifrate. Nel Cinquecento, gli europei che visitavano l’India percepivano come demoni le immagini delle divinità indiane: i serpenti, il dio Ganesh con la testa di elefante, il dio Shiva danzante.
Allo stesso modo, le immagini della Madonna venivano interpretate dai cinesi come la divinità buddista Kuan Yin o dai messicani come la dea madre Tonantzin, mentre San Giorgio, in Africa occidentale, diventava il dio della guerra Ogum. In questo modo le differenze venivano “addomesticate” e rese comprensibili.
Nel secondo caso, invece, le diversità vengono accentuate e caricate di significati negativi. Ne è un tipico esempio la creazione delle “razze mostruose” dell’antichità, per cui si immaginava che le terre lontane fossero popolate da creature spaventose: uomini con testa di cane, uomini senza testa o con una sola gamba e un grande piede che poteva essere utilizzato anche per proteggersi dal sole (sciapodi).
La blemmia, uomo senza testa e con gli occhi e la bocca posti sul busto, viene descritta da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, ripresa nei bestiari medievali e citata, fra l’altro, anche nell’Otello di Shakespeare. Ma queste figure mostruose non sono presenti solo nella cultura occidentale: le ritroviamo infatti anche in antichi manoscritti e xilografie cinesi. Oggi le possiamo riconoscere, stilizzate, in uno dei personaggi dei Pokemon con cui giocano i ragazzi: Hitmonlee.
Gli appartenenti a paesi diversi dal proprio sono stati frequentemente rappresentati in forma negativa, spesso animalesca. Gli irlandesi erano visti come scimmie nelle vignette inglesi e americane dell’Ottocento e il nemico è raffigurato con fattezze bestiali nelle immagini di propaganda di tutti gli schieramenti della Seconda guerra mondiale.
All’interno della stessa società, gli appartenenti a religioni diverse dalla propria sono stati frequentemente connotati da segni distintivi imposti dall’esterno. Nel mondo islamico altomedievale, tutti i non musulmani – cristiani o ebrei – erano obbligati a utilizzare segni particolari che li identificassero come tali. A quell’epoca, invece, nei paesi cristiani, gli ebrei non erano ancora caratterizzati da particolari elementi di distinzione e nell’arte dell’epoca non erano rappresentati in modo diverso dai cristiani.
Fu la Prima crociata, nel 1096, a segnare una svolta. Per la prima volta, la popolazione ebrea dei paesi occidentali coinvolti venne esclusa dalla partecipazione a un’operazione militare. L’abitudine degli ebrei di vivere insieme, raggruppandosi all’interno della stessa città, si trasformò con il tempo nell’obbligo di abitare entro lo stesso quartiere e di indossare elementi distintivi nelle altre zone della città: il cappello ebraico a punta (pileus cornutus) o la rotella di stoffa cucita sull’abito. A questi obblighi imposti, gli ebrei ne aggiunsero spontaneamente altri: la barba e i peot, quei lunghi boccoli lasciati crescere ai lati del viso.
Da questo momento gli ebrei vennero frequentemente differenziati anche nelle rappresentazioni artistiche: per mezzo del cappello a punta, della rotella, di una folta barba, del naso ricurvo o dell’abito giallo, colore della falsità e del tradimento, che spesso contraddistingue la veste di Giuda. Talvolta, non disponendo di modelli particolari a cui attingere, gli eretici venivano raffigurati riproponendo lo stereotipo dell’ebreo.
Se però oggi pensiamo al cappello a punta probabilmente lo identifichiamo con quello delle streghe, donne accusate delle peggiori nefandezze, spesso associate ad animali o al diavolo ed emarginate dalla società. Fra Settecento e Ottocento si definisce l’immagine della strega che abbiamo ancora oggi: con cappello a punta a naso bitorzoluto. D’altra parte, una legge del 1421, a Buda, obbligava le persone accusate di stregoneria ad apparire in pubblico con un “cappello da ebreo”. Il cappello a punta migra dagli ebrei alle streghe, per poi connotare negativamente, nella Spagna dell’Inquisizione, anche chi veniva arrestato per eresia.
Lo stereotipo, quindi, può caratterizzare sia l’immagine di una cultura diversa dalla propria, sia membri appartenenti a particolari gruppi della stessa comunità. Non è necessariamente negativo, ma seleziona e ingigantisce alcuni aspetti della realtà; non ha sfumature e ingloba la diversità in un tutto uniforme. Così gli europei rappresentavano i nativi americani fondendo i caratteri di indiani provenienti da diverse regioni dell’America in un’unica immagine semplificata.
Più spesso, però, lo stereotipo ha connotazioni negative e ostili, che riconosciamo sia nella realtà che nelle rappresentazioni grafiche. D’altra parte, la parola “stereotipo”, così come il francese cliché, è legata al procedimento della stampa e della riproduzione di copie da una matrice, a sottolineare il forte legame fra le immagini visive e quelle mentali.
Per approfondire:
Peter Burke, Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, Carocci, Roma2002
Bernhard Blumenkranz, Il cappello a punta. L’ebreo medievale nello specchio dell’arte cristiana, a cura di Chiara Frugoni, Laterza, Roma-Bari 2003.
Paolo Vignolo, Cannibali, giganti e selvaggi. Creature mostruose del Nuovo Mondo, Bruno Mondadori, Milano 2009.