Romani e Cimbri si contendono le “Terre selvagge”

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Era maggio. Il mese più bello dell’anno. Era il settimo giorno del mese: le nonae. C’era sole. C’erano i fiori sugli alberi e nei prati, c’erano, a chiudere l’orizzonte, le grandi montagne: le Alpi, ancora bianche di neve…. La gente scappava. Da tre, quattro giorni: per la strada che attraversava il villaggio di Proh venendo da Novara e dagli altri borghi della pianura si snodava una processione ininterrotta di uomini e di donne curvi sotto i peso delle cose che dovevano assolutamente essere portate in salvo e che i più ricchi avevano potuto caricare se un asino, su un cavallo o addirittura su un carro…

Il bellissimo nuovo romanzo di Sebastiano Vassalli (Terre selvagge, Rizzoli, Milano, 2014, pp. 394) incomincia così, con una processione di Galli che, sul finire del II secolo a.C., lasciano la pianura tra Vercelli e Novara per andarsi a nascondere sulle montagne. Il motivo della loro fuga è l’arrivo della popolazione germanica dei Cimbri, uomini feroci e bellicosi che miravano a strappare l’Italia del Nord ai Romani i quali – pur non avendola ancora “inglobata” nel loro Stato – la controllavano già da un centinaio d’anni: quei Galli profughi erano dunque (volenti o nolenti) alleati della potenza egemone del Mediterraneo.
Vassalli racconta gli eventi che precedettero e seguirono la celebre (quanto poco conosciuta nei dettagli) battaglia dei Campi Raudii del 101 a.C., nella quale il console Gaio Mario sconfisse i Cimbri dopo avere già annientato l’anno precedente ad Aquae Sextiae (Aix en Provence) i loro alleati Teutoni.

Tiepolo_La_battaglia_di_Vercelli

E rilegge questo evento, che condizionò non poco la successiva storia europea, prendendo spunto dalle fonti antiche (le Periochae di Livio e le Vite di Plutarco, da lui vagliate con lodevole spirito critico) e dalle suggestioni derivanti della toponomastica locale, ma “nobilitando” il tutto con la creatività che è propria della letteratura. Insomma, costruisce un vero “romanzo storico” fatto di storia e invenzione nell’accezione manzoniana del termine, nel quale l’autore si rivolge al lettore con un tono da racconto orale, quasi confidenziale; e dove, pur con la cautela e discrezione che si addicono a un narratore contemporaneo (che sa di scrivere per un pubblico smaliziato), Vassalli non si astiene dal commentare le vicende storiche e umane. Onnisciente sì, sed cum iudicio, avrebbe detto qualcuno…
Ma torniamo a Cimbri, Romani e Galli, protagonisti di questa vicenda, premettendo che non dirò nulla né sull’ipotizzata ubicazione della battaglia dei Campi Raudii, né sulla etimologia di questo toponimo: certo è che l’idea di tradurlo con Terre selvagge, e di identificare quelle Terre nel Piemonte meridionale (la pianura che si estende ai piedi del monte Ros, l’odierno Rosa) è suggestiva. Il Piemonte antico, infatti, ancora in età imperiale romana veniva sentito come zona “selvaggia” e periferica dell’Italia romana.
Ciò che mi piace – e molto – del libro è la straordinaria capacità di Vassalli di mescolare la “macrostoria”, impersonata dal console Gaio Mario e dal suo ufficiale (e futuro rivale) Lucio Cornelio Silla e costituita dalle vicende politico-militari da loro gestite, con le “microstorie” di coloro che queste vicende le hanno (da vincitori o vinti) in qualche modo subite.

Legionari_romani

Su tutte spiccano le storie, parallele e tangenti nel contempo, di Tasgezio, modesto fabbro di origine gallica residente a Proh (località del Novarese che esiste ancora oggi esiste, ed è compresa nel comune di Briona), e della principessa cimbra Sigrun, tra i pochi sopravvissuti al genocidio di questo popolo operato dai Romani. Ma nondimeno quelle dei guerrieri cimbri che morirono felici in battaglia sicuri di rinascere nel Vahalla, e degli scrupolosi legionari romani, della cui vita nei castra (in certi frangenti tutt’altro che eroica) l’autore ci dà un’immagine molto vivace e credibile. Le guerre, infatti, si vincono combattendo pure contro le zanzare, la siccità, e soprattutto la fame, che i soldati romani saziarono anche con i gamberetti di fiume di cui le rogge tra il Ticino e il Sesia un tempo erano ricche.
Consentitemi però di allontanarmi ora (almeno un po’) dalla mera attività recensoria. Vassalli, infatti, ci dà uno spaccato di storia di quella Gallia Cisalpina che da molti anni io studio attraverso la documentazione delle epigrafi latine. E nel romanzo ogni tanto mi è sembrato di rivedere qualche eco di quella documentazione; è come se il narratore avesse dato vita e parola a quelle pietre apparentemente (solo apparentemente…) mute, e di ciò voglio dare solo due piccoli esempi.

Rilevo_con_le_Matronae

Il primo è nella devozione che il gallo Tasgezio ha per le Matronae, divinità femminili celtiche (o comunque “nordiche”) ben documentate un po’ ovunque nell’epigrafia cisalpina, e anche in quel Novarese dove Vassalli ambienta la sua storia: noto agli addetti ai lavori, infatti, è il santuario rurale di Suno, le cui iscrizioni sono state più volte studiate da Giovanni Mennella (Università di Genova), che di queste “terre selvagge” sa tutto o quasi. Ma anche nel Milanese o nel Comasco tale culto è ben presente, e le Matronae che proteggono il villaggio di Tasgezio mi fanno venire in mente le Sanctae Matronae Ucellasicae Conacanaunae di un’epigrafe (CIL V, 5584) da Corbetta, centro a metà strada tra Milano e Novara: sono menzionate su un’ara loro dedicata dal gallo romanizzato Novellius Marcianus Primuli filus, da me riedita qualche anno fa (“Rivista Storica dell’Antichità”, XXII-XXIII, 1992-93 = AE 1993, 805 e in sedi successive). È infatti più che probabile che gli aggettivi che accompagnano le divinità (Ucellasicae, Conacanaunae) si riferiscano proprio alle “microcomunità” delle quali esse erano numi tutelari, così come le erano dei Braecores Gallianates (CIL V, Suppl., 847) o degli Ausuciates (CIL V, 5227), nell’area di Comum; comunità poco più (o poco meno…) grandi di quella di cui Tasgezio faceva parte.
Il secondo particolare del romanzo che mi ha emozionato è la vicenda (che non narrerò per rispetto dei futuri lettori) dei due giovani, il nobile Valerio Rutilo e il liberto Stazio, che si sono voluti arruolare insieme in quanto amici. Al tema dell’amicitia nel mondo romano, infatti, ho dedicato molti anni di studi, alcuni dei quali confluiti in una monografia. Il primo di questi fu però, nel lontano 1994, proprio l’intervento a un Convegno di storia militare all’Università di Lione e si intitolava Amicitia militum: un rapporto non gerarchico. In esso cercavo di dimostrare l’importanza di questo legame – fatto di “parità” e reciprocità – anche in una struttura gerarchica e “dispari” come quella dell’esercito romano; un legame che talora le epigrafi militari attestano formalmente (con formule come amicus e heres), ma alla cui base doveva esserci soprattutto una vigorosa e informale stretta di mano (dextrarum iunctio) prima di una battaglia o durante una tempesta in mare.

Caio_Mario

Insomma, leggendo d’un fiato il libro di Vassalli ho visto prendere vita – lo ripeto – molti dei personaggi che “popolano” le iscrizioni romane cisalpine, e mi sono chiesto se l’autore (che in realtà fa solo qualche velocissima menzione alla documentazione epigrafica…) abbia visto qualcuna delle numerose “antiche pietre” di quell’Ager Novariensis dove abita da anni: molte di queste, tra l’altro, si conservano nel bel Museo Lapidario del Broletto di Novara. Leggendone i testi latini – di età successiva ai nostri eventi – si percepisce la progressiva “romanizzazione” della popolazione locale; un fenomeno, questo, di cui nel romanzo si delinea con nitidezza la fase iniziale, nella descrizione dei membri dell’élite gallica che parteciparono – agghindati da Romani e coi biondi capelli tinti di scuro – all’inaugurazione dell’arco trionfale per Gaio Mario. Si legge infatti: Quegli uomini si facevano chiamare con nomi latini e dicevano di discendere da ufficiali o da funzionari romani venuti a vivere sotto il monte Ros “ai tempi delle guerre puniche”. Era una bugia e tutti lo sapevano, ma sapevano anche che per contare qualcosa nella valle del Po, in quell’epoca bisognava fingersi romani.
Concludo plaudendo ancora alla qualità e alle piacevolezza complessiva del libro, anche se non so se sono il più adatto a dare giudizi imparziali, perché da tempo penso che Vassalli sia fra i maggiori scrittori italiani in circolazione: in una mia premiazione ideale, salirebbe sicuramente “sul podio”. So solo che siamo ai livelli del miglior Vassalli (La Chimera, 1990; Un infinito numero, 1999; Amore lontano, 2005); livelli che – a mio avviso – egli raggiunge quando rielabora le vicende di qualche secolo fa: quando cioè, si sforza di profittare della storia, senza mettersi a farle concorrenza (Alessandro Manzoni, Lettera al Fauriel).

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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