Ripensare i bambini come agenti attivi

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Gli operatori dei servizi sociali devono superare il modello paternalistico. I bambini vanno considerati soggetti attivi da numerosi punti di vista: sono capaci di auto-determinarsi, di interpretare informazioni, di costruire attivamente significati e di influire in modo strategico sull’ambiente circostante per ottenere determinati obiettivi.

 

Le pratiche dei servizi sociali per l’infanzia variano a seconda della natura del problema di cui si fanno carico e dei contesti socio-culturali e politici in cui vivono i bambini. Tuttavia, a prescindere dal contenuto, dai contesti e dalle metodologie di intervento, sono regolate da valori professionali e da precisi codici etici.
Un’analisi delle associazioni professionali dei servizi sociali in venti Paesi ha rivelato l’alta omogeneità di tali princìpi. Secondo la Federazione Internazionale degli Assistenti Sociali (IFSW), la più grande organizzazione del settore comprendente operatori sociali provenienti da novanta nazioni in tutto il mondo, il principale obiettivo di queste istituzioni è responsabilizzare le persone e aiutarle a migliorare la loro condizione di vita, il che spesso richiede azioni di giustizia sociale e per il rispetto dei diritti umani fondamentali. Allo stesso modo, l’Associazione Nazionale degli Assistenti Sociali degli Stati Uniti ritiene il mantenimento della giustizia sociale il fondamento della professione, e la difesa dei più deboli la pietra angolare su cui poggia il lavoro dei servizi sociali.
Nel quadro di programmi tanto eticamente caratterizzati non sorprende che tutti gli interventi di assistenza sociale dell’infanzia si basino su uno di questi tre modelli: quello del “salvataggio” dei bambini, quello dei servizi sociali o quello medico.
Si tratta di orientamenti che danno forma a servizi importanti e necessari per migliorare il benessere dei bambini nella nostra società. Tuttavia, il modo in cui gli utenti, cioè i bambini, sono concepiti in questi programmi deve essere ripensato. Animati dal desiderio di proteggerli e sostenerli, gli assistenti sociali possono involontariamente renderli vittime e destinatari passivi di aiuto. È innegabile che in alcune situazioni i bambini soffrano per mano di adulti e a causa di un ambiente ingiusto. Logico quindi che necessitino di protezione, ma il concetto di “vittime indifese” riflette una visione parziale e grossolana della loro situazione.

I bambini come vittime

I modelli dei programmi dei servizi sociali per l’infanzia sono spesso stati criticati per l’incapacità di riconoscere che i bambini sono capaci di fornire un prezioso contributo alla propria protezione e alla società in generale. In realtà, diversi esempi antropologici suggeriscono che la maggior parte dei piccoli in tutto il mondo assume ruoli “da adulto” importanti per il mantenimento della famiglia e che l’adempimento di questi compiti fornisce loro un senso di appartenenza, le competenze e l’opportunità di partecipare alla vita familiare e comunitaria.
Le più recenti ricerche sociologiche e antropologiche sullo sviluppo infantile dimostrano che i bambini sono molto più capaci di quanto pensiamo. Il lavoro minorile, ad esempio, sia esso classificato o meno come pericoloso, è malvisto dalle società ricche, che lo considerano dannoso per lo sviluppo infantile. Ma alcuni studiosi sostengono che l’enfasi sull’innocenza perduta e sull’infanzia rubata tendono a sentimentalizzare la questione, riflettendo più i valori personali dei ricercatori adulti che l’esperienza dei bambini. Non pochi di questi, infatti, considerano il lavoro come un veicolo per l’auto-realizzazione, l’autonomia economica e la responsabilizzazione.
Jo Boyden e Deborha Levison, due studiosi dei cosiddetti Childhood Studies, affermano che mentre i bambini non dovrebbero farsi carico delle responsabilità degli adulti, nondimeno dovrebbero avere maggiori opportunità di partecipare alla vita sociale. I servizi sociali dovrebbero integrare la loro mission con l’idea che i bambini non hanno necessariamente bisogno di protezione, e che spesso hanno valide intuizioni sul loro benessere, ottime soluzioni ai loro problemi e un ruolo spendibile nel mettere tutto ciò in pratica.

L’approccio paternalistico

Un aspetto centrale del dibattito sui limiti della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia riguarda la presunta visione paternalistica dei diritti dei bambini, che rischierebbe di compromettere la loro agency annullandoli come attori sociali competenti.
È interessante notare, ad esempio, che i bambini non solo non hanno in alcun modo partecipato alla stesura della Convenzione, ma non sono stati neppure consultati dai governi, sia a proposito dei princìpi stabiliti dalla Convenzione sia riguardo ai modi più efficaci per attuarli. Ma proteggere i diritti dei bambini, se fatto in modo paternalistico, cioè in base a come gli adulti pensano che dovrebbero vivere, può causare danni pesanti anche se involontari.
Nel 2008 gli antropologi Gina Porter e Albert Abane hanno avviato in Ghana un piccolo studio-pilota finalizzato a comprendere quali fossero le esigenze dei bambini poveri rispetto alla viabilità e ai mezzi di trasporto operanti in quell’area. Il presupposto stava nella consapevolezza che la maggior parte della pianificazione dei trasporti su strade e autostrade in Africa è realizzata da ingegneri civili di sesso maschile; e se gli interessi delle donne sono poco considerati dal Ministero dei trasporti, quelli dei loro figli sono addirittura invisibili.
La particolarità di questo progetto sta nell’aver coinvolto direttamente i più piccoli, diversamente dalla maggior parte della ricerca accademica, anche quella più focalizzata sul bambino, che in realtà è condotta da ricercatori adulti i quali si limitano a consultare i piccoli per accertare le loro opinioni senza però renderli mai partecipi alla ricerca.
L’esperimento di Porter e Abane si è svolto in varie fasi. Prima di tutto è stato necessario trovare i bambini interessati a partecipare e ottenere il consenso dei genitori e degli insegnanti. In un secondo tempo i piccoli hanno partecipato a un seminario di formazione di sei giorni facilitato da personale delle varie ONG coinvolte. Infine, i piccoli ricercatori hanno condotto osservazioni, test, misurazioni e interviste ad altri bambini in una zona vicina alla regione centrale di Cape Coast. La raccolta dei dati è stata portata avanti da loro in maniera autonoma, ovvero senza la presenza di adulti.
Il progetto si è dimostrato assai efficace nel mettere in luce una serie di importanti problemi legati al trasporto, rivelando criticità che non erano state identificate dai ricercatori adulti: percorsi troppo lunghi per arrivare a scuola, buche e altri ostacoli lungo le strade, fogne a cielo aperto in cui i bambini rischiano di cadere facilmente, clacson di autobus troppo rumorosi che spaventano i più piccoli, mancanza di un’adeguata illuminazione notturna, percorsi di attraversamento stradale pericolosi e autisti di taxi maleducati, al punto da molestare le ragazze.

Il fattore resilienza

Le ricerche nel campo dei servizi sociali si stanno sempre più allontanando dal modello del bambino come soggetto passivo da tutelare. Al suo posto sono emerse due prospettive convergenti, anche se di origini diverse. La prima si fonda sul concetto di resilienza dei bambini, ovvero sulla capacità umana di affrontare le avversità della vita, superarle e uscirne rinforzati o addirittura positivamente trasformati. La seconda si basa sull’idea che tutti i soggetti siano dotati di una forza propria e quindi i servizi sociali dovrebbero lavorare per aumentare questa “dotazione” universale.
Il concetto di resilienza è stato elaborato negli anni Settanta da un gruppo di psicologi e psichiatri nordamericani impegnati nello studio delle psicopatologie infantili. Osservando come i bambini e gli adolescenti coinvolti in situazioni oggettivamente difficili trovavano quasi sempre risorse personali e ambientali per affrontare al meglio le situazioni di degrado in cui vivevano, questi studiosi hanno accentuato l’importanza di scovare risorse inaspettate, di far leva su punti di forza individuali, di mobilitare al massimo le capacità di auto-riparazione e di sopravvivenza specialmente in situazioni di crisi.

L’ambiente facilita la crescita del bambino

Il concetto di resilienza ha cominciato a richiamare l’attenzione degli studiosi di servizi sociali che hanno cercato di tradurlo nei loro interventi concreti. Con un approccio costruttivista post-moderno, Michael Ungar, direttore del Resilience Research Centre, propone di considerare la resilienza un concetto allargato e complesso, tale da includere sia l’individuo sia i fattori comunitari e culturali in cui vive. Alla resilienza, infatti, contribuisce l’abilità dell’ambiente di facilitare la crescita del bambino, compresi i meccanismi ambientali che influenzano l’espressione dei geni. Quanto più i giovani sono in grado di mobilitarsi per procurarsi le risorse di cui hanno bisogno per la salute mentale, tanto più è probabile che lo sviluppo sia soddisfacente. Allo stesso modo, quanto più sono in grado di negoziare per ottenere che queste risorse siano rese disponibili in modi culturalmente rilevanti, tanto più facilmente le risorse contribuiranno a uno sviluppo positivo.
Emersa in gran parte dopo l’anno 2000, la prospettiva della resilienza infantile si rifà a sua volta a una tendenza precedente denominata Strength Based Practice, ovvero pratica basata sulla forza.
Elaborata negli anni Ottanta e successivamente resa popolare dallo studioso di welfare sociale Dennis Saleebey, essa si concentra nell’incoraggiare le persone, anche quelle in condizioni apparentemente disastrose, ad assumere la guida dei loro stessi processi di cura basandosi sulle risorse personali e sul desiderio soggettivo di star bene.
Ponendosi come convinzioni filosofiche e aprioristiche più che scientifiche, sia la prospettiva della resilienza sia quella della forza rischiano tuttavia di rimanere astratte. Spesso si traducono in misurazioni oggettive di fattori che contribuirebbero o ostacolerebbero la resistenza dei bambini ai drammi che sono costretti a vivere, con il risultato di rendere invisibile la loro personalità.

Bambini come agenti

Il concetto di agency non è nuovo nella letteratura sociale. Può essere definito come la capacità di agire attivamente e trasformativamente nel contesto in cui si è inseriti. Nei rari casi in cui è attribuito ai bambini, ciò è fatto in maniera ambigua, e tale ambiguità a sua volta riflette una mancanza di chiarezza del concetto stesso.
L’idea di agency alla quale mi riferisco è quella elaborata dalla Social Relations Theory (SRT) e sviluppata in modo particolare dallo psicologo dello sviluppo infantile Leon Kuczynski e dai suoi colleghi.
A livello ontologico questa branca di studi sostiene l’idea di un’agency universale, vale a dire l’idea che tutti gli esseri umani siano agenti intenzionali, organismi che riflettono su di sé, dotati di auto-organizzazione e capaci di contribuire attivamente alla loro vita. A livello analitico, questi studiosi distinguono tre dimensioni dell’agency. La prima è l’autonomia, ovvero l’aspetto motivazionale per l’auto-determinazione e l’auto-conservazione. La seconda è la costruzione, ossia la manifestazione dell’agire umano attraverso l’attività semiotica, cioè la capacità di bambini e adulti di interpretare le loro interazioni con l’ambiente e di creare nuovo significato dalla loro esperienza. La terza, infine, è l’azione, cioè la capacità di intervenire nell’ambiente o, in alternativa, di astenersi da tale intervento.
Se tutti gli esseri umani sono agenti, la Social Relations Theory propone però che essi differiscano nelle risorse di cui dispongono per sostenere le loro azioni. Tali risorse, che costituiscono il potere di cui gli individui sono o meno provvisti, possono essere distinte in tre tipologie: le risorse individuali, ovvero la forza fisica, il controllo delle ricompense, le competenze e l’informazione; le risorse relazionali, ossia l’accesso alle relazioni personali come supporto per l’esercizio di agency; infine le risorse culturali, che si riferiscono ai diritti e ai vincoli trasmessi ai singoli dalle leggi, dagli usi e dai costumi di una cultura. La cultura occidentale, ad esempio, tende a fornire spazio di manovra ai bambini riconoscendo loro numerosi diritti, come stabilito in primo luogo dalla Convenzione sui Diritti dell’infanzia. Ma anche nelle culture in cui ai bambini sono assegnate meno risorse, questi continuano a essere agenti, solo che la loro efficacia come soggetti sociali attivi può essere ridotta o manifestarsi in forme diverse.

Il contesto rimane fondamentale

Secondo la Social Relations Theory, l’agency dei bambini deve essere intesa nel contesto relazionale in cui questi sono intimamente connessi, incluse le relazioni con i loro caregivers (gli adulti che si occupano di loro) e con la cultura in cui vivono.
La considerazione del contesto relazione è dunque fondamentale per stabilire se i minori abbiano o meno agentività, perché fornisce un punto di vista dinamico, capace di includere le contraddizioni, i conflitti e il cambiamento.
Lo mostra ad esempio uno studio di Chan e Goh sulle relazioni madre-figlio di fratelli di bambini autistici: empatizzando con lo stress delle madri prodotto dal lavoro di cura dei fratellini problematici, i bambini “normali” tendono a giustificare e a razionalizzare il fatto di ricevere meno attenzioni genitoriali.
In definitiva, il concetto di agency contesta la visione dominante dei bambini come destinatari a priori di aiuto o vittime bisognose di protezione e di intervento, costringendo anche i servizi sociali a trattare i minori come partner nella risoluzione dei problemi che li coinvolgono evitando così una mera fornitura paternalistica di servizi.

Il testo che avete letto, nella traduzione di Francesca Nicola, è Reconceptualization of Children as Active Agents in Social Work Practice, Social Work Department, Università Statale di Singapore, Singapore. Paper presentato alla 3rd Global Conference Childhood. A Persons Project, Mansfield College, Oxford, 2013.

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Esther Goh

Insegna nel Dipartimento ddi Servizi Sociali della National University of Singapore.

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