Non si tratta della gogna propriamente detta, per cui un individuo giudicato colpevole veniva esposto alla derisione della comunità locale, sia per colpire la sua dignità che come deterrente per i concittadini. A Venezia, chi aveva falsificato un documento poteva essere condotto in pubblico con il viso coperto di fuliggine e pubblicamente presentato come falsario.
Anche l’immagine di un colpevole poteva essere messa alla gogna, per colpire l’individuo e condannare il reato. Stiamo parlando della pittura d’infamia, che caratterizzò l’Italia dei comuni. L’immagine di chi si era reso colpevole di particolari reati, dal tradimento alla bancarotta, dall’omicidio al falso, veniva dipinta sui muri esterni degli edifici pubblici nelle piazze centrali o sulle porte di accesso alla città, o ripetuta in più luoghi simbolici in modo da moltiplicarne l’efficacia. Oltre alle limitazioni sociali e alla privazione dei diritti, in questo modo gli individui colpiti subivano anche l’oltraggio dei passanti.
La prima testimonianza è generalmente ricondotta all’introduzione della pittura d’infamia fra le pene previste dagli statuti di Parma, nel 1261. Evidentemente si trattava di una pratica già conosciuta. Spesso contemplata dagli stessi statuti cittadini e ordinata dalle autorità, la pittura infamante si diffuse in altre città dell’Emilia e in Toscana, per poi estendersi in quasi tutta l’Italia settentrionale e in parte di quella centrale.
Il dipinto doveva essere esplicito e rendere ben riconoscibile la colpa. A Padova, gli ufficiali colpevoli di estorsione venivano rappresentati con una borsa appesa al collo.
Ma anche all’interno della categoria dell’infamia esisteva una gradazione; l’azione più infamante era quella che perturbava l’ordine sociale: il tradimento. Il traditore rompeva un patto di fiducia, a lui erano riservate le immagini più complesse ed elaborate.
Quasi nessuna pittura infamante è giunta fino a noi, sia per la sua collocazione all’aperto, che la esponeva alle intemperie, sia per il fatto che dopo un certo periodo veniva cancellata per ragioni di decoro o perché il suo scopo era terminato. Possiamo però immaginarci la loro crudezza dalle pesanti didascalie di accompagnamento.
Un esempio importante, e ancora visibile, è costituito dal fregio affrescato nel salone del Broletto di Brescia intorno al 1270-1280, con la rappresentazione dei cavalieri sconfitti e banditi dalla città. Colpevoli di tradimento contra patriam, vennero rappresentati incatenati e con una borsa al collo.
Anche a Treviso risultano dai documenti due casi di pittura d’infamia, relativi a reati commessi da pubblici ufficiali. In un caso, si chiede di cancellare l’immagine infamante di un miles, dipinta sulla parete esterna del palazzo comunale, perché stava provocando grave disonore al cittadino, alla sua famiglia e alla sua città d’origine.
Nel Trecento questa pratica era piuttosto diffusa. Dalla metà del secolo la raffigurazione del colpevole si cristallizzò prevalentemente nella rappresentazione dell’impiccato a testa in giù, spesso appeso per un piede.
Nel corso del Quattrocento la pittura d’infamia si concentrò soprattutto a Firenze. Fra i numerosi esempi, quello di Bonaccorso di Lapo di Giovanni – colpevole di essersi accordato con Gian Galeazzo Visconti -, rappresentato impiccato a testa in giù, con catene di ferro, la mitra in testa e circondato da diavoli.
I pittori non erano così propensi ad accettare l’incarico di rappresentare dei condannati, e spesso vi venivano obbligati dalle autorità. L’infamia del colpevole si rifletteva, in qualche modo, su chi eseguiva la pena, il boia e, in questo caso, il pittore. C’era, inoltre, la paura delle vendette. È per questo che spesso i pittori venivano scelti fra personaggi già legati al mondo del crimine.
A Firenze furono coinvolti anche noti maestri, come Andrea del Castagno, di cui ricordiamo ancora l’appellativo “Andreino degli Impiccati”, Sandro Botticelli, Andrea del Sarto.
Nel 1478, Botticelli venne pagato per aver dipinto sulle pareti di Palazzo Vecchio in Piazza della Signoria le effigi dei partecipanti alla Congiura dei Pazzi: alcuni appesi per la gola e i latitanti appesi per un piede.
Nel 1529 venne chiesto a Andrea del Sarto di raffigurare i tre capitani che avevano tradito la Repubblica di Firenze passando al nemico. Il pittore li raffigurò su due palazzi pubblici, appesi per un piede; per poterli dipingere si era fatto modellare dei manichini. Ci rimangono ancora i disegni preparatori conservati al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. Non volle però far risultare le pitture a suo nome, e le attribuì all’allievo Bernardo del Buda per evitare un soprannome come quello già assegnato a Andrea del Castagno.
Nel corso del tempo, la pittura d’infamia perse lentamente la sua forza per poi essere abbandonata del tutto. Se per qualche strano motivo oggi dovesse essere ripristinata, non basterebbero i muri dei palazzi.
Per approfondire
– Gherardo Ortalli, “…pingatur in Palatio”. La pittura infamante nei secoli XIII-XVI, Roma, Jouvence, 1979.
– Gherardo Ortalli, Comunicare con le figure, in Arti e storia nel Medioevo. Del vedere: pubblici, forme e funzioni, a cura di E. Castelnuovo e G. Sergi, vol. III, Torino, Einaudi, 2004, pp. 477-518.