Gentile professoressa Rausa, ma siamo sicuri che il modello scolastico nel quale ci siamo formati e al quale siamo stati abituati funzioni ancora?
Gentile prof. Rausa, le scrivo pubblicamente per ringraziarla dell’articolo che ha voluto offrire alla nostra rivista. Ho letto e condiviso, con qualche emozione, tutto quello che lei ha scritto. Come direttore della casa editrice dei due principali dizionari di Greco e di Latino, nonché di molte opere fondamentali di ambito umanistico, può immaginare con quanta apprensione io osservi quello che succede nella scuola italiana: il calo di iscrizioni al Liceo Classico e l’aumento di alunni che hanno scelto di frequentare lo Scientifico senza latino non possono farmi piacere.
Prima di essere direttore sono stato insegnate di Lettere; prima, studente di Lettere moderne; prima ancora, di Liceo classico.
Ecco: il mio cursum honorum a ritroso le sintetizza meglio di lunghi sproloqui le ragioni di una consonanza di vedute sulla quale non vorrei soffermarmi oltre.
Vorrei, infatti, passare per un istante nel campo avverso, e provare a guardare con occhi diversi non le scelte ministeriali, ma la situazione reale nella quale si cala il suo ragionamento.
Lo vorrei fare sulla base di 3 “evidenze”:
1. il rapporto CENSIS;
2. il rapporto OCSE;
3. la protesta dei “forconi”, attualmente in corso.
Parto dai due rapporti, che fotografano una situazione italiana a dir poco agghiacciante: cittadini in fuga verso l’estero, disoccupazione ai massimi storici, inoccupazione giovanile disperante, dispersione scolastica altissima, analfabetismo di ritorno, assenza di meritocrazia e generale senso frustrazione… così (ma ci sarebbe molto altro) il CENSIS.
Qualche giorno fa il rapporto OCSE-Pisa, che tutti hanno accolto con trionfalistica soddisfazione, ma che in realtà diceva che l’Italia si è impegnata… sì… un po’ è anche migliorata… sì… qualche sforzo in matematica si è notato… ma sostanzialmente è ancora insufficiente, e in comprensione di lettura (diciamo, tanto per capirci, in “italiano”) più che negli altri ambiti (quello matematico e quello scientifico).
Se sommo questi dati a quelli di qualche mese fa, sempre di ambito OCSE, che collocavano gli adulti italiani agli ultimi posti dell’occupabilità, allora mi e le chiedo: ma siamo sicuri che il modello scolastico nel quale ci siamo formati e al quale siamo stati abituati funzioni ancora?
Sì, ha avuto degli enormi meriti, questo lo sappiamo; ma li ha avuti all’interno di una società di cui era specchio e sintomo.
Ora che la società è cambiata così radicalmente; che la crisi economica sta spazzando via posti di lavoro e vite umane (non parlo di morti e feriti, ma di famiglie che non si formano, di case che non si comprano, di figli che non si fanno); che l’asse decisionale sembra essersi dislocato in un altrove inimmaginabile qualche anno fa… Ora, mi e le chiedo, ha senso davvero continuare a difendere un modello di istruzione che, ci piaccia o no, a questi problemi non ha saputo e non sa dare risposta?
E i “forconi”, si starà forse chiedendo? Che c’entrano?
Non so nemmeno io, con precisione. Dalla mia finestra, qui a Torino, vedo le serrande abbassate del bar dove spesso pranzo. Il bar è aperto, ma il gestore ha paura e quindi si prepara a ogni evenienza. La cosa mi mette una gran tristezza. Questa protesta non la capisco, perché davvero nessuno si è sforzato di farmela capire. Malcontento diffuso; senso d’impotenza; rabbia antipolitica; rigurgiti fascistoidi… sembra esserci davvero di tutto, lì in mezzo. Lo spettacolo dei poliziotti che solidarizzano, mentre i commercianti si barricano è di quelli da incubo notturno…
Un incubo che temo sia solo all’inizio, e che racconta di un paese che, nel vuoto totale di risposte convincenti (dalla politica, dall’industria, dalla scuola) non troverà di meglio che ricorrere sempre più di frequente alle vie più facili e sbrigative.
E nefaste.
Con sincera stima e gratitudine.