Rivoluzioni senza respiro e senza metodo #2

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Certo, non ci sono modi obbligati di fare una rivoluzione: c’è chi si lancia sulle barricate, chi riflette e teorizza e forse lascia che siano altri a morire, chi fa militanza, chi fa da massa anonima e chi lancia il sasso e poi osserva. A me pare che Mauro Piras, quando ha proposto la sua rivoluzione dell’insegnamento della filosofia in Italia (per una sintesi, vedi qui), abbia fatto proprio così: abbia lanciato il sasso (i suoi interventi su blog, mi hanno confermato l’impressione che già ebbi leggendo l’articolo esteso).

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Da questo punto di vista, quello che segue non è affatto una critica di Piras. L’operazione dell’autore, naturalmente, ha una sua legittimità. Ciò che mi preme è che però il testo vada compreso e giudicato per quello che è, con tutti i suoi pregi e limiti. Per dirlo in maniera più articolata, il testo di Piras, a mio parere, non è svolto con metodo ed è di corto respiro. Cercherò, in ciò che segue, di sviluppare ulteriormente questo giudizio, mostrando come questi limiti condizionano negativamente le conclusioni e le proposte dell’autore. Alla fine, spiegherò perché, nonostante questo, in ciò che scrive Piras ci sono spunti fondati, importanti, da valorizzare e sviluppare. Essi rendono il contributo dell’autore una felice occasione per riflettere sul presente e sul futuro.

Dire perché una cosa non funziona e proporre l’alternativa è un modo standard di procedere se si vuole cambiare le cose. Almeno così sembra, ma personalmente non credo che le cose vadano svolte così. Se davvero si teorizza il cambiamento di un sistema in corsa, perché questo è il sistema scolastico italiano, bisogna compiere una serie di passi, tutti essenziali, e vanno rispettati alcuni criteri di valutazione. In primo luogo, serve una disamina attenta e sistematica dei limiti di ciò che è in atto. Bisogna, in secondo luogo, studiare i punti di forza del sistema in atto. Si può dubitare (e io dubito fortemente) che Piras abbia svolto come si doveva il primo punto, ma è un fatto che non ha svolto il secondo. Senza di questo viene il sospetto che la critica di Piras sia un’operazione di vendita, tesa a convincere i poco accorti che il prodotto in uso non funzioni, per poi rifilare il proprio, nell’implicita e ingenua pretesa che il nuovo sarà senza pecche e difetti. Soprattutto, senza l’esame dei punti di forza dell’esistente, manca parte del materiale fondamentale per poter poi prendere decisioni.

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Un rivoluzionario impegnato, che ragioni con metodo, studierà invece a fondo l’esistente, essendo attento a ciò che non funziona e a ciò che funziona. Soprattutto, non avvierà nessuna rivoluzione se non quando sarà certo che il meglio dell’esistente sia sacrificabile o se non lo è, troverà modo di salvarlo. Inoltre, non avvierà a cuor leggero nessuna rivoluzione se il meglio dell’esistente non è peggiore del meno buono del nuovo e non l’avvierà affatto se l’esistente, nel suo complesso, non è peggiore del nuovo, nel suo complesso. Si può credere che la posizione di Piras condanni senza appello e senza eccezioni quanto è in atto, non trovandovi nulla da salvare. Se però è davvero questa la tesi di Piras, mi pare ideologica e poco avvertita di ciò che succede oggi. Provo a esemplificare. Piras pare non capire che uno studio storico degli autori, come avviene oggi, consente l’interiorizzazione della riflessione globale di alcuni maestri del pensiero che segnano la tradizione in cui viviamo.
Cancellare la presentazione storica dei classici compromette che si interiorizzi criticamente la figura di tali maestri, toglie l’opportunità di rimeditarne il pensiero col dovuto agio, di sedimentare nel tempo un’acquisizione critica delle  idee e dei sistemi di pensiero della tradizione e di acquisire nel tempo le metodologie di contestualizzazione storico-geografica e di analisi ermeneutica che sono tra le migliori abilità a cui il nostro sistema forma. Ciò non riuscirebbe ad avvenire o non avverrebbe in maniera soddisfacente in una didattica della filosofia per discipline. Gettare con leggerezza alle ortiche tutto questo per qualcosa di nuovo, mi pare una pessima idea, ma Piras sembra pronto a seguirla, proprio perché il suo discorso è svolto senza metodo.

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Il principale limite del testo di Piras mi sembra consistere però nel suo essere di corto respiro. Esso è strutturato per abbattere e ricostruire, ma la costruzione (1) è fondata su basi non adeguate, (2) è svolta senza un progetto generale e (3) manca di una esplicita discussione degli strumenti con cui si può attuare il nuovo. Quanto alle fondamenta, esse si riducono a quello che per l’autore è l’“unico vero fine” dell’insegnamento della filosofia: “apprendere ad argomentare e a riflettere concettualmente sull’esperienza, avendo consapevolezza del sapere filosofico già esistente”. Si può concordare che queste siano alcune delle finalità dell’insegnamento disciplinare, ma è poi tutto qui? A me non sembra. E l’interiorizzazione e l’esistenzializzazione, se mi si passa il termine, del domandare? E la capacità di problematizzare? E l’acquisizione dell’attitudine ad esplorare dall’interno i sistemi di pensiero? E l’acquisizione di una mentalità critica? Dire che questi sono reperibili nella definizione di Piras è giocare alla semplificazione e alla banalizzazione riduzionistica.

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Questo problema nasce in buona parte dal fatto che il lavoro di Piras è più sbilanciato sulla didattica di quanto sia consapevole del momento educativo dell’insegnamento. Manca poi un progetto generale che agganci l’insegnamento disciplinare alle urgenze formative della nostra società quali, per fare pochi esempi, l’organizzazione del pensiero, la capacità di interrogarsi sull’esistenza umana, la formazione del pensiero critico, la padronanza dei lessici specifici, l’acquisizione di attitudini alla collaborazione in rete, la flessibilità e l’adattabilità, la capacità di iniziativa, la capacità di accedere alle informazioni e di analizzarle, la curiosità, l’immaginazione, la cura nell’espressione non verbale e nell’autopresentazione, oltre alla curiosità intellettuale e alla capacità di empatia e rispetto per l’altro. Si tratta di qualità urgenti da favorire nelle giovani generazioni e per tutte loro si dovrebbero cercare percorsi di implementazione anche attraverso lo studio della filosofia. Un ripensamento dell’insegnamento della filosofia che non colga l’occasione per una discussione di tutto questo è di corto respiro, cerca di risolvere grandi problemi con facili formule. Se si vuole avviare un cambiamento è invece il caso di misurarsi coi dettagli, con le questioni fini, quotidiane, che rendono le proposte concrete e lasciano al pensiero il fascino di un possibile che risulti interessante e magari anche opportuno. Le rivoluzioni poi non vanno impostate sulla tecnica e ciò soprattutto se esse sono funzionali alla crescita dell’umano, nondimeno, disponendo oggi di strumenti senza precedenti, è davvero il caso di fare i conti con la tecnica quando si pianifica il futuro. Come i treni prima e le autovetture poi hanno cambiato radicalmente il modo di viaggiare, così non c’è motivo di pensare che gli strumenti che si stanno sviluppando oggi non possano presto modificare la didattica in maniera radicale. Di tutto ciò non si trova traccia nel lavoro di Piras. Infatti, non basta menzionare LIM e PowerPoint per sentirsi a posto su questo punto. Quanto alle tecniche didattiche che Piras propone, sono interessanti, ma potrebbero adattarsi benissimo anche alla didattica attuale: non mostrano organicamente come si svolgerebbe la didattica per discipline filosofiche proposta da Piras, come ci si aspetterebbe. Esse insomma sono presentate, ma non agganciate a un progetto didattico-educativo complessivo. Manca anche qui un respiro più ampio.

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Vi sono, anticipavo all’inizio, alcuni spunti validi che Piras offre e che mi preme riprendere. Intanto concordo con Piras che insegnare filosofia a scuola non può essere la semplice presentazione della storia del pensiero dei filosofi, anche se ritengo che pochi tra i colleghi si limitino a fare solo ed esclusivamente storia della filosofia. Gli studenti vanno provocati a “pensare con la propria testa”, a riflettere, a criticare, ad argomentare, a dire il “perché” e il “per me”. Vanno aiutati a imparare a domandare e a essere protagonisti delle loro domande (“gli studenti siano attivi nel lavoro in aula”, dice bene Piras). Attenzione però a non confondere l’attività come presenza che riflette, si confronta e magari agisce con l’attivismo che spesso si agita, per generare una confusione sterile, se non dannosa. Una delle piaghe dolorose, a mio parere, della programmazione disciplinare corrente e diffusa consiste nell’offrire una formazione che termina proprio quando le cose si fanno davvero attuali. Il Novecento è trattato di fretta, spesso in maniera superficiale, lacunosa e carente. Recependo in qualche forma una didattica per temi si potrebbe lavorare per sanare questo vulnus dell’attuale preparazione liceale che lascia lo studente informato dei classici, ma ignorante dell’attuale.

Ad ogni modo, a Piras va riconosciuto il merito di aver lanciato con coraggio un dibattito fecondo che provoca il docente di filosofia a ripensare il senso della propria attività didattica ed educativa e spinge a valutare il nuovo, rilanciando l’eterno quesito sul perché fare e perché fare così e, soprattutto, come fare domani.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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