Apprendiamo in questi giorni che la dispersione scolastica costa allo stato 70 miliardi (700 mila ragazzi tra i 10 e i 16 anni in “fuga dai banchi”, il 17,6%), e ci viene inoltre ricordato che le scuole italiane cadono fisicamente a pezzi (1 edificio su 7 lesionato; 24 mila scuole a rischio sismico), tanto che secondo la protezione civile occorrerebbero 13 miliardi per metterle in sicurezza, ma la ministra Carrozza nel decreto 104/2013 punta il dito sull’abolizione del vincolo adozionale (“eventuale adozione”), per completare la trasformazione dell’editoria scolastica nell’anarchia creativa di scuole scambiate per case editrici e docenti scambiati per autori, avviata dalla Gelmini (art. 15 della legge 133/2008) e proseguita da Profumo con il passaggio dalla “versione a stampa” al “formato cartaceo”, dal libro alla dispensa (art. 11 della legge 221/2012).
Nel “decreto ministeriale di natura non regolamentare” del 27 settembre la ministra avverte cautelativamente che il libro di testo ha anche la funzione di offrire “una esposizione autorevole, validata (sia dal punto di vista autoriale sia da quello editoriale e redazionale) ed efficace dei contenuti essenziali previsti dalle indicazioni nazionali”; e che su di esso vige la “tutela dei diritti patrimoniali dell’autore e dell’editore”. Ma lei pensa a tanti “comitati scientifici”, qualcosa di simile a tanti “soviet scolastici”: “Se una rete di scuole fa dei libri, è sufficiente che si dotino di un comitato scientifico fatto da insegnanti che certifichino il lavoro fatto. Non mi pare una cosa mostruosa” (Repubblica, 3 ottobre). In questo clima, non c’è da meravigliarsi se vengono messi all’indice “quei professori che molte volte costringono le famiglie ad acquistare testi particolari”, come se fosse un reato preferire far studiare la storia antica e medievale sui manuali di Giardina o Cantarella anziché sui manuali di autori che non danno nessuna garanzia di autorevolezza accademica e di scientificità (con tutti gli effetti che ne conseguiranno sul piano della formazione delle future classi dirigenti), o di “pari opportunità” per tutti gli studenti italiani.
Non c’è nemmeno da meravigliarsi se l’editoria scolastica sia l’unico settore produttivo per il quale venga legittimato (ed esaltato) l’usato, nelle forme organizzate e non più spontaneistiche che abbiamo conosciuto nella nostra adolescenza, al di là della retorica sul “mercatini”. Forse l’unico settore che abbia attratto su di sé le attenzioni dell’Antitrust per due volte (nel 2008 e nel 2009). Alla gogna le “nuove edizioni” (“caro libri, la truffa delle nuove edizioni”), come se i libri mutassero pelle per capriccio delle case editrici, non perché vengono modificati i programmi (Indicazioni nazionali per i licei e Linee guida per gli istituti tecnici e professionali) o imposti nuovi obblighi per decreto (vedi articolo 15 della legge 133 del 2008, con la “forma mista cartaceo e digitale”, modificato prima dall’art. 11 della legge 221/2012 e adesso anche dal decreto 104 del 12 settembre 2013…: siamo ormai all’”accanimento legislativo). Il libro di testo è l’unico prodotto che abbia subìto, con la Gelmini, un divieto di “nuove edizioni”. Adesso resta da capire come si possa trovare sul mercato un testo “nelle edizioni precedenti, purché conformi alle Indicazioni nazionali”, come vorrebbe la ministra Carrozza (decreto 104) quando i libri o sono “edizioni precedenti” o sono “conformi”.
Le famiglie vengono sempre più sotterrate dagli aumenti di tariffe, assicurazione, benzina, immobili, iva, trasporti (e si lasciano spontaneamente sotterrare dal “lotto di stato”), eppure ogni estate parte per tre mesi una campagna di denigrazione degli editori che dirotta le colpe della “crisi” sulle loro spalle (“caro libri, famiglie in affanno”, “solito salasso”, “il prezzo è ingiusto”, “come sopravvivere ai rincari”, “stangata”, ecc.). Gli editori diventano ritualmente il capro espiatorio di una propaganda che colpisce al cuore l’immaginario di 8 milioni di famiglie interessate al tema della spesa dei libri scolastici. Come se le famiglie fossero stroncate non da una pressione fiscale giunta al 43,8%, ma da un business che non supera i 650 milioni di euro, il costo di duemila pensioni per ex parlamentari. Mentre passa sotto silenzio (anche nei decreti) il costo del cosiddetto “contributo volontario” richiesto alle famiglie (744 milioni all’anno, più di quanto esse spendano per i testi scolastici), la tassa silenziosa nata nel 2007 per ampliare l’offerta formativa, ora destinata invece a finanziare l’attività ordinaria delle scuole (toner, carta igienica, ecc.).
Le stesse premesse del passaggio dal cartaceo al cartaceo più digitale o digitale puro (e la conseguente dieta forzata imposta al mercato dei testi scolastici per via legislativa) erano di natura economica, fondate sul presupposto falso che il costo del digitale fosse irrilevante. La “scuola digitale” nasce infatti non come il frutto di una scelta perseguita per ragioni di efficacia didattica (maggiore sviluppo di competenze, maggiore senso critico, ecc.), ma con l’intento dichiarato di ridurre le dimensioni, il peso e il costo dei libri attraverso la “forma mista”, perché la carta – è noto – costa, mentre il digitale no. Il comma 2 dell’art. 15 legge 133/2008 (Gelmini), Costo dei libri scolastici, recitava: “Al fine di potenziare la disponibilità e la fruibilità, a costi contenuti di testi, documenti e strumenti didattici da parte delle scuole, degli alunni e delle loro famiglie…”. Fatte salve, non occorre nemmeno dirlo, le legittime esigenze di risparmio delle famiglie, ma davvero si può credere che con il 20% (Profumo) o il 10% (Carrozza) o il 30% (se l’intera dotazione libraria è in versione digitale) di risparmio sul tetto di spesa ottenuto con la “riduzione della dotazione libraria” si possano sostenere (entro lo specifico tetto di spesa) i costi di hardware e contenuti digitali integrativi, oneri che ricadono sulle famiglie, aiutate nell’acquisto (né Profumo né Carrozza hanno detto ancora come, rinviano) dalla mediazione delle scuole (art. 11 della legge 221/2013)? Un governo convinto della bontà e necessità di questo passaggio, che creda – come afferma – nella conoscenza e nel sapere come risorsa competitiva decisiva da impiegare nella sfida globale, si regola di conseguenza: investe. I numeri del Paese sono da “maglia nera”: dalla spesa in istruzione, (Ocse), al ritardo nel digitale (Ocse), dagli “studenti sconnessi delle scuole italiane” (Eurispes) agli “italiani popolo di incompetenti” (Isfol) e alla preparazione “tecnologica” dei docenti (Skuola.net). E invece, se l’Italia da vent’anni sta morendo sotto l’enfasi dell’annuncio, neppure il Miur sfugge a questa deriva. Si annunciano investimenti sull’istruzione per 400 milioni in tre anni (decreto 104 del 12 settembre, “Istruzione riparte”), di cui soli 23 per il 2013 (più 215 e 160), sorvolando sul fatto che nel bilancio del Miur sono stati risparmiati con il “riposo” forzato di 88 mila docenti precari e 44 mila Ata (che ha inciso sulle condizioni d’uso della scuola a danno anche degli studenti, che purtroppo non votano: si pensi alle “classi pollaio”), non meno di 11 miliardi di euro dal 2009 al 2013, di cui il 30%, oltre 3 miliardi, dovevano essere destinati (art. 64 della legge 133/2008, quella dei tagli lineari) alla formazione/incentivazione dei docenti. Nel decreto 104, la cifra stanziata per questa voce è di appena 10 milioni (art. 16). Un passo avanti, e molti indietro.
Un governo che rispetti realmente le esigenze delle famiglie e non voglia usarle strumentalmente nei mesi estivi, quelli delle manovre correttive di bilancio, non affiderebbe la scuola dell’autonomia (presunta) agli sponsor, ma assumerebbe come onere dello stato sia i costi incombenti di connettività e hardware, sia i costi dei manuali, fuori da ogni tortuoso e demagogico giro di tetto di spesa, blocco esaennale di adozioni e quinquennale di edizioni, comodato d’uso, usato e bignamini, come insegna la buona pratica della “scuola perfetta” di Helsinki (Repubblica 3 aprile 2013), l’Europa che ammiriamo.