La Convenzione dell’Aja del 1954, relativa alla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, introduce nel preambolo un concetto fondamentale: i danni arrecati ai beni culturali di qualsiasi popolo costituiscono un danno al patrimonio culturale dell’intera umanità, poiché ogni popolo contribuisce alla cultura mondiale.
Il patrimonio culturale, fatto di oggetti materiali e immateriali (siti archeologici, edifici, monumenti, libri, documenti, opere d’arte, ma anche musica, danza, tradizioni e pratiche artigianali…) è un forte fattore di identificazione per ogni comunità. Per questo i beni culturali possono diventare un obiettivo pagante in caso di guerra o di attacchi terroristici: perché rappresentano i simboli di chi è ritenuto nemico e la loro distruzione ha un forte riscontro mediatico.
La Siria ha svolto un ruolo fondamentale nella storia della civiltà. L’estrema difficoltà di avere informazioni sicure sulla sorte del suo patrimonio culturale rende ancora più drammatica la situazione. In Siria si stanno verificando tutti i problemi tipici di un territorio in guerra. I siti archeologici sono stati abbandonati agli scavi clandestini, o sono diventati campi di battaglia e postazioni militari. Edifici di valore storico-artistico e interi nuclei urbani sono stati danneggiati o distrutti. I musei sono stati saccheggiati o le loro collezioni sono state evacuate disordinatamente, senza alcun rispetto per i moderni criteri imposti dalla tutela, con destinazione sconosciuta.
Pensiamo, per esempio, al sito archeologico di Tell Mardikh, dove nel 1964 una missione italiana diretta da Paolo Matthiae intraprese gli scavi, scoprendo la città di Ebla e i suoi archivi millenari. Nel 2012 il sito è diventato terreno di battaglia fra forze governative e ribelli.
Anche il quartier generale della missione italiana e la sua documentazione scientifica sono stati saccheggiati.
E ancora, per citare solo alcuni esempi, pensiamo agli scavi clandestini nel sito greco-romano di Apamea, o ai bombardamenti della fortezza medievale, ai danni subiti da Palmira, a tutte le costruzioni del periodo islamico distrutte o danneggiate ad Aleppo, Dara’a e Homs, al Museo nazionale di Damasco, al piccolo museo di Dura Europos, completamente saccheggiato.
In questa devastazione, che si aggiunge al dramma delle famiglie disperse o smembrate, delle case, delle infrastrutture e dell’ambiente distrutti, si perde anche il patrimonio intangibile rappresentato dalle tradizioni culturali, con gravi conseguenze per la comunità locale e per la ricostituzione del suo senso di appartenenza e di autostima quando, un giorno, la guerra finirà. Devastato da un incendio l’antico Souk di Aleppo, spazzati via interi quartieri storici della città di Homs.
E a tutto questo si sommerà la tragedia dei profughi, privati dei punti di riferimento tradizionali, spaesati fra le macerie del proprio Paese o in luoghi lontani e sconosciuti.
Un gruppo di archeologi ha dato vita a una pagina Facebook, Le patrimoine archéologique syrien en danger costantemente aggiornata per monitorare i danni e fornire dati per immaginare restauri e ricostruzioni “assennate”, ovvero condotte scientificamente e non asservite alla logica dei vincitori e delle imprese associate. Perché la ricostruzione di un Paese è solo apparentemente neutrale. Con l’imposizione di imprese, tecniche costruttive e materiali estranei alla cultura locale, può causare danni gravi quanto quelli di un bombardamento.
Millenni di storia dell’umanità distrutti, o dispersi fra collezionisti stranieri senza scrupoli. La comunità internazionale dovrà pensare anche a questo, e renderne conto al mondo intero.