Top ten #5

Tempo di lettura stimato: 4 minuti
Una top ten dei libri che hanno cambiato il (mio) mondo? Non la so fare. Ho gettato il sasso e vorrei nascondere la mano, come diceva mia nonna.

toptensandro

Troppi libri letti per noia o dovere, e non per passione. Troppi traslochi da una città all’altra. E troppe librerie ikea, che quando sono piene lasci il resto in scatoloni che poi non sai più in quale casa siano rimasti.

E allora cambio le regole del (mio) gioco. Mi siedo sul divano e, anziché ripercorrere con la memoria la lista di tutti i libri sicuramente letti (ci sono libri di cui conosco minuziosamente la trama e che non ricordo di aver mai letto!), tento di concentrarmi sulle citazioni o le pagine che mi tornano in mente mentre scrivo. Una sorta di scrittura meccanica, senza mediazioni.

So da dove partirò…

La morte paga doppio, di James Cain, per la precisione asettica nella crudeltà: lui strozza il marito dell’amante. Delitto per soldi, non per passione. Usa la sua stessa stampella. La scena si svolge in macchina, e quindi il gesto ne risulta impedito. Il marito oppone resistenza con la mano con cui tiene il sigaro. Perché l’assassino non si bruci, la moglie della vittima interviene, tenendo il sigaro, mentre aspetta che il complice finisca il lavoro. Leggendo (e rileggendo morbosamente) mi chiedevo: e il marito? sta assistendo al proprio omicidio, ma soprattutto al tranquillo gesto della moglie… cosa gli passa per la mente?

Il centro del mondo, di Dzevad Karahasan, per una frase sola (che cito male, a memoria): “Non esistiamo se pensiamo, come sosteneva una persona molto intelligente di qualche secolo fa. Esistiamo se altri pensano a noi”.
Una frase che sarebbe da baci perugina, se l’autore non l’avesse scritta in una cantina di Sarajevo, isolato dal resto del mondo dal tiro dei cecchini cristiani.

I promessi sposi, di Alessandro Manzoni. Per il personaggio del sarto, dotto del paese e uomo buono, che accoglie il cardinale in visita pastorale e di ringraziamento per il salvataggio di Lucia. Essendo uomo di lettere, pensa di doversi preparare un lungo e forbito discorso per l’eccezionale evento. Quando però il cardinale arriva e lo ringrazia, lui per l’emozione riesce a pronunciare solo “si figuri”.  Nient’altro. E di quel “si figuri” non si perdonerà per il resto della vita.

Achille Campanile, tutto! Dovendo scegliere, Il bravo oratore: il maestro di oratoria spiega  agli allievi che ogni buon discorso ha un momento topico: di qualunque situazione si deve dire che non è da considerarsi un punto di arrivo, ma l’avvio verso nuove mete. Gli allievi applaudono. Lui ringrazia e, nel congedarli, ricorda loro che aver appreso l’arte oratoria non deve essere considerato un punto di arrivo, ma l’avvio verso nuove mete. Applausi scroscianti e gli allievi escono, commentando il bel discorso.

Luciano Bianciardi, Non leggete i libri, fateveli raccontare (per quello che mi ha insegnato sul mio lavoro attuale).

Philip Roth, Pastorale americana. Faticoso e ansiogeno. Ma quell’industrialotto americano, fabbricante di guanti, con la moglie ex candidata a miss America e la figlia che gli è uscita proprio male, mi sono entrati nel profondo: il protagonista acquista spessore piano piano, piano piano… con una lentezza strutturale di cui ho ritrovato un’eco nel film L’albero della vita. Alla fine del romanzo ti sembra di aver attraversato per intero quell’esperienza, come fosse tua. Letteratura e vita? Sì, direi di sì.

Jorge Luis Borges, tutto. Dovendo scegliere, La biblioteca di babele: combinando un numero limitato di fonemi, e le combinazioni che ne derivano, si ottiene qualunque racconto possibile, compresa l’intera nostra storia umana. Dio non creatore ma bibliotecario?

Fëdor Dostoevskij, Memorie del sottosuolo. Per l’inizio: “Sono un uomo malato, sono un uomo maligno. Non sono un uomo attraente. Credo mi faccia male il fegato”. Si può iniziare così un racconto? Sì, si può… si può. E poi ci si può abbrutire insieme al protagonista.

Jean-Paul Sartre, A porte chiuse, perché lo vollero recitare i miei ragazzi, a scuola (al tempo di un altro lavoro). E allora ci fermammo a costruire i personaggi, tentando l’analisi psicologica di ognuno. Rimanemmo folgorati dall’ammissione di Garcin, che – riguardando la propria vita – dice a un certo punto di essersi sempre sentito destinato a una morte eroica. Nell’attesa, si era perdonato tante minuscole infamie quotidiane. Del gesto eroico non si conserva memoria. Delle infamie sì. E all’inferno si scontano.

Shakespeare, tutto. Perché è vero fino all’abiezione. La replica di Orazio: “Mio dio! Che re è questo!” segue il racconto compiaciuto di Amleto, che spiega come abbia condannato a morte Rosenkrantz e Guildersten… La loro colpa? Essersi lasciati coinvolgere, loro piccoli, nelle dispute dei grandi. Forse Orazio vuol dire: “Che acume! Che ingegno! Che grandezza!” Forse no. Ho provato a pronunciare la frase con una smorfia di disgusto, e ne ho ottenuto intera la psicologia di Jago, di Shylock, di Riccardo di Gloucester. La mia, forse.

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Sandro Invidia

Direttore editoriale Loescher.

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