L’arte e l’angoscia novecentesca

Tempo di lettura stimato: 15 minuti
La recente notizia dell’ondata di ribellione suscitata da una performance dell’artista belga Jan Fabre, consistente nel lancio di alcuni gatti per aria sulla scalinata del municipio di Anversa, può utilmente essere presa quale spunto per una riconsiderazione critica dell’attuale concezione di arte come provocazione del pubblico e come trasgressione dei valori tradizionali (del Bello, della decenza e ultimamente anche dei diritti degli animali).

Da studiosi di storia, noi vi vedremo una testimonianza tra le più eloquenti della condizione spirituale dell’Occidente da oltre un secolo, tra grandezze e miserie.
Quale punto di partenza di tale indagine, che intende muoversi all’incrocio di diverse discipline (storia, letteratura, filosofia, oltre naturalmente alla storia dell’arte; ma si presterebbe a un allargamento anche in campo musicologico), si può prendere un testo piuttosto noto fra gli specialisti, ma forse non abbastanza presso il grande pubblico, come il libro di H. Sedlmayr, Perdita del centro, risalente al 1948 e ripubblicato in traduzione italiana nel 2011 da Borla (Roma).

 

L’opera di Sedlmayr fu il primo tentativo, invero poco seguito e addirittura irripetuto quanto a vastità di taglio e di ambizioni, di mettere sotto processo l’antiumanesimo nell’arte, cogliendolo nel momento del suo affiorare a fine Settecento e captato quale musa ispiratrice di un progressivo scatenamento della déraison. Per capire fino in fondo l’inarcatura esegetica del libro, va tenuto presente che esso fu scritto alla fine della Seconda guerra mondiale come atto di accusa verso un mondo che aveva tradito se stesso, condannandosi al suicidio. Non è però un pamphlet, anzi presenta i requisiti di una vera storia generale dell’arte occidentale moderna e contemporanea, il cui filo rosso è una ricerca a tappeto di possibili patologie, elaborate sul piano estetico e visivo.

Tentando un’applicazione anche a questo campo del paradigma della psicanalisi freudiana, lo studioso tedesco trattò la manifestazione del brutto e dello strano nel linguaggio artistico come sintomi di una sofferenza inespressa. Esattamente come in un individuo il comportamento nevrotico è indizio di un irrisolto dissidio tra pretese e possibilità, così nell’arte la negazione dell’esigenza del Bello è spia di una rimozione operata dall’anima sociale, a seguito di una dolorosa menomazione. L’occulto protagonista malato di questa storia, di cui l’artista è sensibilissima antenna, è in questo caso la civiltà europea, che fra Otto e Novecento venne martoriata da ambizioni nevrotiche e assassine, che la portarono alla gara colonialista per la spartizione del mondo, all’idoleggiamento dei totalitarismi, alle due guerre mondiali, all’equilibrio del terrore. Tormentata dal senso di colpa, oltre che frustrata per la sconfitta epocale con conseguente perdita dell’egemonia mondiale entro la metà del XX secolo, la coscienza europea si è infilata nel vicolo cieco dell’autopunizione, che buona parte dell’arte attuale esprime con il linguaggio dell’ironia dissacratoria.

 

Procediamo con ordine. Diciamo anzitutto che il primo passo verso l’abolizione del Bello beatificante, con conseguente esaltazione del Brutto disturbante, fu compiuto dalle avanguardie artistiche degli anni Dieci (basti ricordare il canone futurista dell’antigrazioso). Tuttavia, fu solo dopo la Prima guerra mondiale che la ricerca artistica più avanzata prese a focalizzarsi sulla celebrazione non più della vita, ma della morte e dello sfacelo. Si trattò di un’introiezione dell’orrore subito dalle giovani generazioni, che era stato anticipato già negli ultimi decenni dell’Ottocento dalle opere di una serie di eccentrici artisti, non immuni da psicopatologie (Ensor, Munch, Kubin, Schiele), i quali con le loro inquietanti tendenze a forzare il tratto fino alla deformazione vengono giustamente considerati quali precursori dell’espressionismo tedesco. Benché questa corrente sia nata, com’è noto, nel 1905, ai nostri fini risultano particolarmente significativi gli sviluppi che essa prese a partire dal 1914.

 

All’interno di questa seconda nascita dell’espressionismo, non vi è pittore che più di Otto Dix abbia saputo rappresentare il trauma delle ferite sofferte nel corpo e nella psiche dai soldati della Grande Guerra, simbolicamente elaborate attraverso l’accatastamento di forme sfatte, larvali e putrescenti, impastate del fango della trincea, rievocanti il ribrezzo e perfino il tanfo dei cadaveri in decomposizione. Tra la Francia e la Spagna, una reazione consimile prese l’indirizzo del surrealismo, che malgrado oggigiorno venga considerato un movimento prevalentemente comico e satirico, e dunque “leggero”, in realtà veicolò il sentimento tragico dell’allucinazione davanti a una realtà che non è più comprensibile secondo procedimenti logici: quasi una schizofrenia, di cui è facile capire l’origine traumatica. Un esempio valga per tutti: nella Natura morta con fagiolini (titolo apparentemente innocuo e quasi infantile, ma in realtà schermo di un contenuto indicibile), Salvador Dalì rievocò allegoricamente lo squartamento e la mutilazione dei cadaveri, che si praticava tra fronti avversari durante la guerra civile di Spagna.

 

L’esperienza della guerra rivelò insomma all’arte europea la tragedia non razionalizzabile della perdita dell’integrità della persona umana, sia nel corpo sia nella mente. Di qui in avanti, la realtà umana sarà sempre più oggetto di uno snaturamento nell’arte, specchio dello stravolgimento che essa sta soffrendo nei sistemi socio-politici novecenteschi, dove sembra prevalere il dominio più sfrenato della violenza dell’uomo sull’uomo, della violenza di regime (che da persecuzione di partito si fa violenza di Stato: si pensi alla repressione interna organizzata dai totalitarismi tramite apparati informativi, polizia segreta, interrogatori e deportazioni), della violenza tra uno Stato e l’altro (è nota in proposito l’interpretazione delle due guerre mondiali avanzata da Nolde, che le vede quali sequenze di un’unica grande guerra civile europea).

Interessante fare un passo indietro, per capire l’entità del fallimento in cui la civiltà europea incorse nel complesso delle sue attese, anche quelle più di più remota gestazione. Per un lungo momento, fra Sette e Ottocento, si era creduto di esorcizzare l’assurdo e la violenza nella storia riponendo tutto il potere nella collettività: ebbe così compimento una lunga marcia verso la concentrazione nello Stato – lo Stato che si pretendeva “etico” – della facoltà di dirigere la società e cambiare in meglio la storia. Non a caso, il libro di Sedlmayr prende le mosse dall’architettura immaginata dall’utopismo sociale in età illuministica, per evidenziare la prima radice della distruzione dell’umanesimo. Il profetismo della nuova epoca predicava l’abolizione di leggi e consuetudini ereditate dal passato, nonché la sparizione dell’idea stessa di un vincolo imposto dalla natura. Nel loro carattere visionario, questi progetti intendevano celebrare l’avvento di una nuova età di predominio della tecnoscienza, il nuovo idolo sovrumano che avrebbe risolto i grandi problemi della società alla luce della fede nel progresso. Nessun limite doveva essere considerato definitivo: tutto doveva anzi essere ritenuto conquistabile nel futuro, grazie all’applicazione della ragione ai bisogni dell’uomo.

 

Tutte le grandi ideologie redentive furono figlie del collettivismo, dell’industrialismo e di un determinismo scientista di varia colorazione. Con la spersonalizzazione indotta dalla civiltà delle macchine, sembrò scomparire la secolare linea maestra della civiltà occidentale, rappresentata dall’umanesimo classico-cristiano, con la sua valorizzazione della centralità della persona, con la sua prescrizione di un freno razionale sopra le pulsioni immani e dunque con il suo scrupolo di misura e di legalità. La sentenza di morte fu scritta, tra gli altri, da Heidegger nel 1947 con la Lettera sull’«umanismo» (a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 2011; ma si veda anche la conferenza del 1953 su La questione della tecnica, pubblicata in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Milano, Mursia, 2007, pp. 5-27). Oggi sappiamo che non è andata così: l’umanesimo è perennemente sotto sfida, ma non ha fatto la fine delle forze che tendevano a sopprimerlo e che Heidegger fatalisticamente considerava come inarrestabili. D’altro canto, la storia ha preso un indirizzo del tutto imprevedibile, con l’emergere di nuove forme di antiumanesimo (talora presentato anche come “trans-umanesimo”), di cui l’arte si è fatta acutissima interprete.

 

Come si è visto a più riprese nel corso del XX secolo, il dilagare del razionalismo positivista non ha affatto portato alla vittoria della ragione, bensì allo scatenamento degli spiriti selvaggi: un paradosso su cui non ci si interrogherà mai abbastanza. Colui che con maggiore perspicacia aveva previsto questo esito, veramente demoniaco, dell’umano delirio di onnipotenza fu Dostojevskij; ma è da dire che i movimenti artistici non furono da meno nel recepire le implicazioni di tale apertura del vaso di Pandora degli istinti umani, quelli alti e – soprattutto – quelli bassi. Ricordiamo che cosa divenne la politica in buona parte dell’Europa tra le due guerre: il trionfo di quella brutalità che, sulla scorta di G. Mosse (di cui resta imprescindibile La nazionalizzazione delle masse, Bologna, Il Mulino, 2007; ma si veda anche: Le guerre mondiali: dalla tragedia al mito dei caduti, Bari, Laterza, 2008), la storiografia attuale ha elevato a categoria interpretativa della sindrome preparatoria della transizione al totalitarismo.

Moltissimi sono i documenti che si potrebbero addurre a questo proposito e che fornirebbero materia per interessanti divagazioni. Tra di essi, scegliamo di ricordare uno scritto particolarmente indicativo di Lev Trotzkij, intitolato La loro morale e la nostra (Bari, De Donato, 1967). Poche fonti storiche riescono a conferire con pari incisività il senso di irriducibilità del nemico politico a un comune denominatore, rappresentato dall’umanità. Ogni efferatezza è giustificata contro questo vivente abominio: la categoria di “eccesso” non deve neppure esistere, e la stessa morale è avviata verso l’”evaporazione” in un mondo in cui l’invasamento rivoluzionario diventa legge a se stesso. Pregno di rilevanza semantica appare in questo contesto il richiamo all'”oggettività”, che altro non vuol dire che rassegnata spietatezza davanti alle mortifere esigenze di un lotta senza quartiere.

 

In un frangente in cui le rivoluzioni, i totalitarismi, le guerre mondiali e l’Olocausto si saldarono in un flusso inarrestabile di smentite della dignità umana, fu difficile ma non impossibile per la coscienza europea levare l’ultimo filo di voce per denunciare il traviamento in corso. Uno dei documenti più commoventi fu il testamento spirituale dello storico olandese J. Huizinga, intitolato Lo scempio del mondo (Milano, B. Mondadori, 2004), scritto sotto l’occupazione nazista della patria e rimasto incompiuto a causa della morte nel 1943. In esso l’anziano scrivente puntò il dito contro il tradimento dei grandi valori della civiltà classico-cristiana, compiuto consapevolmente da una Germania che li conosceva bene ma che li scartò per sottomettersi agli “iddii pestilenziali”, come li chiamò Montale. Tra le grandi consegne universali che secondo Huizinga spettavano all’Europa, stava in primo luogo la custodia del Bello come stimolo alla nobilitazione di sé, un retaggio umanistico che la frenesia di potenza materiale aveva oscurato.

Lo stimolo al Bello rimase oscurato anche dopo che la tragedia della Seconda guerra mondiale ebbe fine, poiché la violenza che aveva ammorbato l’aria d’Europa lasciò tracce assai persistenti. L’artista deve essere visto come una spugna che, vivendo in simbiosi con i suoi simili, ne capta ideali e timori, paranoie e infatuazioni. Per temperamento, l’artista è più di loro esposto alle conseguenze dell’infelicità: lo spleen è il suo pane. Pertanto, non stupisce di vedere come, nella seconda metà del Novecento, i movimenti artistici d’avanguardia non smettano di considerare la condizione umana come segnata da una caduta irremissibile, e anzi approfondiscano senza fine tale pessimistica intuizione. Tanto per usare un riferimento topografico preso a prestito dall’escatologia cristiana, si può dire che il luogo che agli occhi dell’artista risalta come il più corrispondente all’esistenza umana è l’Inferno – o tutt’al più, il Limbo. Il Paradiso, semplicemente, è fuori portata: non è più tematizzabile.

 

Anche nell’epoca della ricostruzione post-bellica e del boom economico, la situazione spirituale del mondo europeo appare segnata dall’incapacitazione. La mente dell’Occidente avanzato sembra irretita nel non saper ritrovare le ragioni della Bellezza; e anche questo è un aspetto paradossale del nostro passato, se si pensa che quella fu un’epoca di crescita del benessere ad un ritmo quasi leggendario per noi oggi. Eppure, a tanto splendide prestazioni sul piano industriale, imprenditoriale e lavorativo non corrispose una correlata riabilitazione estetica della condizione umana, malgrado i nobili tentativi compiuti, fra gli altri, da una difensore dell’umanità come K. Jaspers nel 1950, in quella sorta di speranzoso bilancio che fu Ragione e antiragione nel nostro tempo ( Milano, SE, 1999).

 

Nell’autopercezione dell’europeo dell’epoca della Guerra fredda continuò a pesare l’ombra della guerra e della violenza civile, come dimostra in maniera impareggiabile la pittura di Francis Bacon, che nella seconda metà del Novecento portò a compimento la poetica dello sfiguramento della persona fisica, riflesso della liquidazione di una soggettività sovrana che non riesce più a inserirsi stabilmente nel mondo. Nello Studio per una crocifissione, che Bacon elaborò sulla scorta della Guernica di Picasso, Bacon portò all’estremo limite grafico il sentimento dell’angoscia, espresso attraverso il suo caratteristico “urlo”.

Anche a proposito della formazione di Bacon si disse che fu decisiva la vista, o anche solo l’immaginazione, dei cadaveri maciullati dalle bombe durante la Seconda guerra mondiale. Tuttavia lo stesso non si poté più dire per gli artisti più giovani, che nel secondo dopoguerra si susseguirono in un vorticoso approfondimento del Brutto e del Disumano come cifra della nostra condizione esistenziale. In questa sede noi vogliamo problematizzare tale tendenza, che indubbiamente rivela un’incapacità sintomatica, alla luce dei suoi presupposti storici, chiamando a sostegno la voce di alcuni pensatori che ci possano aiutare a far luce sul problema.

 

Uno di questi può essere Ortega y Gasset, che con grande precocità nel 1930 nella sua celebre Ribellione delle masse (Milano, SE, 2001) ha descritto la complessa e turbolenta condizione della psicologia collettiva nel momento in cui, a varie tappe nel corso del Novecento, le masse un tempo diseredate sono entrate a fare parte del gioco politico, vedendosi riconosciuta una sovranità prima inaccessibile. Tra le componenti della mentalità condivisa vi è l’irrispetto nei confronti degli idoli degli ex padroni, tra i quali i valori del Bello e del Sublime: tutto deve essere calpestato per essere ridotto a misura del nuovo sovrano. Nascono di qui i correlati per noi attualmente più sgradevoli del processo novecentesco di democratizzazione, ossia la frenesia orgiastica (di cui la cultura dello “sballo” è epifenomeno), la volgarità come stile di vita dei nuovi potenti, il populismo becero, la retorica del cattivo gusto qualunquista, l’arroganza supponente di chi si vuol sentire importante, etc. Sul piano della creazione artistica, sempre di qui proviene il fenomeno dell’oltraggio al senso estetico, che connota una parte così significativa dell’esperienza artistica delle democrazie giovani e meno giovani. Su di un altro piano, meno polemico e più mediatico, si deve vedere in tutto ciò la matrice della cultura pop che attualmente è regina dell’esperienza estetica nel nostro quotidiano, anche per le sue salde connessioni con il mondo della pubblicità e della musica.

 

Vi è però un aspetto ulteriore, e forse meno simpatico, insito nelle tendenze provocatorie e iconoclaste così tipiche di quasi tutte le avanguardie e transavanguardie che si contendono l’attenzione dei critici e del mercato. Potrebbe infatti esserci un narcisismo sottilmente misantropico in questo irreconciliato protrarsi dell’antagonismo tra arte e società; al qual proposito torna utile la sottolineatura, compiuta vigorosamente da Sedlmayr, della radice nietzschiana dell’arte contemporanea.

Com’è noto Nietzsche ribadì in più sedi, tra cui è da ricordare nel 1878 Umano, troppo umano (2 volumi, Milano, Adelphi, 1979-81), il suo disprezzo per l’individuo meschino dei suoi giorni, un patetico pigmeo sottomesso alle convenzioni sociali e attaccato a illusorie agenzie di rassicurazione, tra cui le organizzazioni partitiche e religiose con le loro dottrine pseudo-salvifiche e la loro “morale del gregge”. Con il suo gusto per il “sacrilegio” a fini di illuminazione Nietzsche è giustamente considerato il capofila del nichilismo, che è forse il sottofondo di pensiero maggiormente diffuso tra gli artisti contemporanei più à la page, quelli che fanno parlare di sé. Pensiamo per un attimo alle modalità con cui essi usano rapportarsi agli aspetti più degeneri del nostro sistema socio-culturale, che sono quelle della parodia e dell’esasperazione.

A una semplice scorsa di ciò che viene ammannito dai media, appare indubitabile che quello attuale è il regno dell’istintualismo edonista e consumista, abilmente vezzeggiato dall’industria pubblicitaria e reso ancor più ineluttabile dal crollo delle ideologie alternative e dal cedimento delle religioni nel loro aspetto virtuista. Indubbiamente tutto ciò crea un vuoto, a cui l’arte, quando è pervasa da nichilismo, non tenta nemmeno di supplire con l’incitamento a un Bello a cui non crede più, esattamente come i suoi nemici. Tutto quello che essa fa è visibilizzare la futilità di ciò che è futile e la labilità di ciò che è labile. L’artista si compiace spesso nel ridicolizzare la presunzione del piccolo borghese ottuso e illuso, sfatandone l’opportunistico bisogno di “normalità”; ma non lo mette di fronte a qualcosa di più grande, bensì di fronte a qualcosa di altrettanto piccolo.

 

Gli accade di farlo con petulanza, e talvolta con un certo sadismo. Per questo al termine di un contatto con questo genere di trovate artistiche, magari allestite nella forma di “istallazioni” in cui indugiare attoniti, possiamo scoprirci colti da un senso di taedium vitae, di inutilità del tutto, che deriva precisamente dalla ripetizione all’infinito della scoperta del fondo di inganno che contraddistinguerebbe l’esperienza umana, secondo la lettura che il nichilista compie del nostro disagio. All’individuo triste dei nostri giorni, l’unica consolazione che questo tipo di approccio artistico sembra proporre è quella della mimesi satirica del suo Nulla, magari riproposta secondo variazioni che ricercano ora lo spaesamento estraniante, ora l’atto ludico e gratuito e insensato, ora l’eros artificializzato, ora l’irrisione beffarda; e così via. In casi-limite, come quello di Fabre con i gatti, si cerca il transfert sull’animale di una pulsione violenta che accomunerebbe artista e spettatore.

Questo è il modo in cui ai nostri giorni l’arte cerca la sua via all’espletamento della funzione liberatoria e catartica che da sempre le compete: francamente è un po’ insufficiente, per un’umanità assetata di infinito e di meraviglioso. Concludiamo dicendo che probabilmente nessun esponente delle avanguardie del primo Novecento avrebbe potuto immaginare una simile rincorsa al gesto degradante, quale sviluppo delle proprie teorie sovversive. Da buoni rivoluzionari, gli avanguardisti erano ciecamente fiduciosi intorno alla virtù palingenetica della distruzione. Noi oggi sappiamo che non è così: purtroppo non tutto ciò che viene spazzato via è destinato a ricrescere meglio di prima, anzi.

Condividi:

Marco Pellegrini

Professore di Storia moderna all’Università di Bergamo. Specialista di storia dell’Italia quattro-cinquecentesca, è autore di varie monografie, tra cui da ultimo: Religione e umanesimo nel primo Rinascimento, da Petrarca ad Alberti (Firenze, Le Lettere, 2012). Insieme a Luigi Airoldi è autore del manuale Dialogo di civiltà, edito da Loescher nel 2011.

Contatti

Loescher Editore
Via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino

laricerca@loescher.it
info.laricerca@loescher.it