In uno dei miei viaggi in Benin ho visitato un centro di formazione agricola per i giovani delle campagne locali. Fui colpito dall’estrema formalità e dalla pesante burocrazia, assolutamente estranea al contesto. Poi mi dissero che lì si insegnava alle donne a fare il sapone. C’erano delle ragazze selezionate e in tre mesi apprendevano a confezionare le saponette a base di burro di karité. Tre mesi.
La prima cosa che pensai fu che il tarlo occidentale dell’apprendimento istituzionalizzato si era insinuato nelle menti delle classi dirigenti africane, erodendo il buon senso tradizionale. In ogni villaggio africano qualunque ragazza impara a fare il sapone dalla madre, dalla zia, dalla sorella maggiore. Si impara da piccole a farlo, in molto meno di tre mesi e senza pagare per accedere al corso di formazione.
Poco più avanti, sull’altro lato della strada, c’era uno spazio vuoto, seminascosto dall’erba alta. Era il centro di formazione per l’allevamento. Qui, disse il responsabile, si insegnava a condurre i buoi e a utilizzare l’aratro. Diciotto mesi durava l’apprendistato. Uscendo dal centro e percorrendo la strada di ritorno si vedevano decine di ragazzetti peul di dodici-quattordici anni che conducevano verso le pozze d’acqua le loro mandrie di vacche e salutavano con la mano le auto che passano.
Qualunque figlio di allevatori impara a conoscere e a condurre gli animali fin da piccolo. Lo fa come si fa nell’Africa rurale, per imitazione, per trasmissione orale dei saperi. Le velleità di occidentalizzare e modernizzare il cosiddetto Sud del mondo hanno suggerito di istituzionalizzare saperi condivisi da tutti. Ciò che prima (e ancora oggi, per fortuna) avveniva all’interno di un naturale ciclo di apprendimento, oggi sembra dimenticato o peggio, sminuito. La comparsa di un centro di formazione rende obsolete le vecchie pratiche, tribale il sistema di trasmissione. Come a dire: non c’è nulla di professionale nell’apprendere dalla propria madre o dal proprio padre.
Non è una cosa adatta a uno Stato moderno. In questo modo si finisce per innestare un processo di formazione e di apprendimento con forme slegate dalla cultura locale, che finiscono non solo per apparire estranee ai locali, ma risultano anche assurde ai nostri occhi. Si sovrappongono un sapere funzionale e una conoscenza di carattere teorico e, partendo dal presupposto etnocentrico che il secondo sia superiore, se ne adottano i presupposti metodologici.
Viene in mente l’affollamento di riviste che ricopre le nostre edicole. Ci sono periodici per tutto, ti insegnano a cucinare, partorire, crescere i figli. Tante che viene da chiedersi come abbia fatto l’umanità a sopravvivere prima delle riviste. Servono a creare bisogni, a generare insicurezze e a far credere di riuscire a eliminarle.