Lo storico Giovanni De Luna scrive che: «Abituarsi a leggere criticamente la televisione o il cinema, storicizzandone il ruolo e la funzione, può indurre a una sana abitudine alla vigilanza squarciando quella cappa di inerte passività che oggi si addensa sul modo in cui il pubblico fruisce dei mezzi di comunicazione di massa». E in effetti l’uso del cinema per lo studio della storia è ormai un dato di fatto nella scuola da almeno quarant’anni: da quando cioè, sull’onda della contestazione studentesca, fecero la loro comparsa le prime pellicole nella scuola, molto spesso nell’ambito di veri e propri cineforum, gestiti dagli stessi studenti. Poi, con la diffusione dei videoregistratori le scuole si dotarono di proprie videoteche. Ma è solo con l’arrivo dei supporti digitali, con pc sempre più potenti, che si è reso possibile realizzare montaggi artigianali di sequenze di film o addirittura costruire veri e propri DVD-ROM o prodotti per le LIM in cui le immagini dei film siano accompagnate da un commento scritto: tutto ciò al fine di rendere la lezione sempre più interattiva e accattivante e non semplicemente una replica di quanto può avvenire a casa davanti alla televisione.
Sappiamo che il rapporto tra cinema e storia è complesso e, pur senza volerlo affrontare in questa sede, è bene tener presente che molteplici possono essere gli utilizzi del cinema a scuola: può servire a provocare una reazione rispetto a un tema e innescare pertanto una riflessione in classe; può essere utilizzato come fonte di conoscenza storica, oppure come mezzo per raccontare la storia. Quando si utilizza un film di argomento storico si deve tuttavia avere la consapevolezza che esso non ci illumina solo su un determinato argomento, ma anche su come gli uomini che hanno realizzato quel film hanno interpretato la storia in quel determinato momento storico.
Come leggere un film
In proposito De Luna puntualizza che: «Leggere un film per lo storico vuol dire rispondere ad alcuni interrogativi sostanziali: che livello di autonomia ha il film nei confronti della storiografia in senso proprio? Si limita a confermarne le tesi prevalenti nel presente in cui viene prodotto, o semplicemente si riferisce a quelle diffuse nel senso comune della gente, o, ancora, appare in grado di arricchire in modo specifico la prospettiva storiografica, anticipandone scoperte, additando nuove piste?». Circa tre anni fa, in occasione di un laboratorio di storia tenuto alla SSIS di Torino, ho provato a rispondere a queste domande scegliendo il tema della guerra ai civili. Si tratta di una categoria storiografica abbastanza recente che ha dimostrato come, nel corso del Novecento, e soprattutto a partire dalla seconda guerra mondiale, i civili siano progressivamente divenuti il bersaglio principale di tutti i conflitti bellici fino a raggiungere ormai l’80-90% delle vittime totali nelle ultime guerre. Utilizzando sequenze tratte dal cinema italiano dagli anni Quaranta agli anni Ottanta ho provato a condividere con i miei corsisti (e al tempo stesso con gli studenti della mia quinta professionale) l’idea che registi e sceneggiatori abbiano raccontato al grande pubblico questo tema e colto la sua importanza ben prima degli storici. L’attività perseguiva ovviamente un duplice obiettivo: da una parte affrontare un tema storico che non fosse una mera replica del libro di testo ma offrisse una chiave di lettura complessiva di una parte consistente della storia del Novecento; dall’altra educare a un approccio critico nella lettura dei film storici. Un articolo non può ovviamente restituire l’impatto di un prodotto multimediale, ma in questi sede vorrei almeno segnalare titoli e sequenze, attraverso i quali ciascuno possa pervenire ad analoghi lavori.
I bombardamenti
Lo storico Paul Fussel scrive che la seconda guerra mondiale: «Era cominciata con la decisione di non bombardare i civili […] e si concluse non soltanto con Amburgo e Dresda, ma con Hiroshima e Nagasaki». In Italia le vittime complessive dei bombardamenti furono circa 70 000. Al termine della guerra furono stilate liste di danni inferti a beni e a servizi ma non è stata rinvenuta nessuna nota che calcolasse precisamente il numero delle vittime civili. Il cinema italiano fu invece assai sensibile a questo tema fin dall’immediato dopoguerra. Roberto Rossellini, in Roma città aperta (1945), sceneggiato da Sergio Amidei quando la città era ancora occupata dai tedeschi, non potendo puntare il dito sugli americani “liberatori”, con grande attenzione e classe, in una scena di dieci secondi, ci mostra la sora Pina che, alla domanda del portiere dello stabile dove vive «Ma esisteranno ‘sti americani?», che sembrerebbe auspicarne l’arrivo quanto prima, ne ridimensiona l’entusiasmo, mostrando un edificio bombardato e rispondendo «Esistono, esistono!».
Ed è ancora Rossellini, nel 1946, quando gira il suo film-documentario sulla conquista dell’Italia da parte degli statunitensi, Paisà, a mostrarci una nazione ridotta a un cumulo di macerie. La storiografia più recente ci insegna che Napoli fu una delle città più bombardate d’Italia: un dato evidente a Rossellini che sceglie questa città come sfondo del secondo episodio nel quale un bambino, seduto in mezzo alle macerie, chiede dei soldi a un soldato americano e poi gli ruba le scarpe mentre questi è ubriaco. Qualche giorno dopo il soldato ritrova il bambino e lo costringe ad accompagnarlo a casa sua per pretendere la restituzione delle scarpe. Quando però si trova di fronte alla sua abitazione, un’immensa caverna sotto le macerie, dove molte famiglie vivono accampate, domanda dove sono i genitori e il ragazzo risponde che sono morti: a quel punto l’americano desiste dalla sua richiesta e se ne va. Nell’anno successivo di Paisà esce Un americano in vacanza di Luigi Zampa, ambientato questa volta a Roma: la sequenza dei due americani che cercano invano tra le macerie dei bombardamenti un bar e assistono invece alla celebrazione di una messa e a una lezione di scuola, sono l’ennesima conferma di quanto il cinema neorealista abbia saputo prestare attenzione al nostro tema e al vissuto quotidiano dei civili durante una guerra.
Con gli americani “in casa” le critiche erano pur sempre ispirate a cautela e affidate alle immagini ma, quando Vittorio De Sica, nel 1960, ispirandosi al romanzo di Alberto Moravia, gira La ciociara, può permettersi ben altri toni. Intanto perché ci mostra non le macerie, ma la ricostruzione di un vero bombardamento su Napoli, aperto e chiuso dalla sirena, con tutti i risvolti psicologici che esso assume sui civili; ma soprattutto perché, in piena guerra fredda, mette in bocca a Sophia Loren, l’attrice italiana più famosa del momento, la parola «assassini», rivolta proprio agli americani. Nel decennio successivo, in Anno uno (1974), dedicato alla biografia dello statista democristiano Alcide De Gasperi, ancora Rossellini apre significativamente il film con la ricostruzione di un bombardamento su Roma ai tempi del massacro delle Fosse Ardeatine. La drammaticità dell’evento è accresciuta non solo dalla pellicola a colori, ma soprattutto dalla scelta di rappresentare la raccolta dei corpi dei civili morti durante il bombardamento.
Le rappresaglie nazifasciste
Le vittime civili dell’occupazione tedesca in Italia furono 10 000 circa e tra esse gran parte erano donne, anziani e bambini. Oggi il cinema, alla luce di una copiosa storiografia, si è molto occupato di loro con film molto discussi come Miracolo a Sant’Anna di Spike Lee (2008) o il recente capolavoro di Giorgio Diritti L’uomo che verrà (2009). Ma in realtà lo fa in Italia da almeno cinquant’anni, anche se non sempre in modo esplicito: pur avendo in effetti diffusamente raccontato l’esperienza della lotta partigiana al nazifascismo, sembrerebbe di poter dire che prima abbia messo al centro la guerra di Liberazione poi, dagli anni Sessanta, la guerra civile e, solo in anni più recenti, la guerra ai civili. Il tema è molto spesso rappresentato dalla classica entrata in scena di un camion tedesco, che effettuando un rastrellamento preleva civili a caso, da una piazza in cui la popolazione è costretta ad assistere a una pubblica esecuzione o ai corpi degli impiccati lasciati esposti o dal racconto di banali violenze quotidiane, fino ad arrivare alla ricostruzione di veri e propri eccidi in film come Dieci italiani per un tedesco di Ratti del 1961.Tra i titoli imprescindibili ancora Roma città aperta, non a caso con una scena come quella della morte della sora Pina, così nota e famosa, da essere diventata anche l’icona del cinema neorealista italiano. Non dimentichiamo infatti che la protagonista del film, l’attrice Anna Magnani, è una popolana lontana da una sensibilità politica che, in una città in ginocchio per i bombardamenti e la miseria, si confronta tutti i giorni con problemi di sopravvivenza.
La scena che abbiamo citato è preceduta ad arte da un breve dialogo della protagonista con il suo compagno mentre esprime le sue ansie («Quando finirà questa guerra?»), alla vigilia del loro matrimonio. La grande storia irrompe invece tragicamente nel loro destino: la sora Pina paga con la vita la sua ingenuità di rincorrere l’uomo che ama prelevato da un camion tedesco durante un rastrellamento proprio in quello che avrebbe dovuto essere il giorno più felice della sua vita. A differenza della sora Pina, nel suo carattere umile e dimesso la contadina Agnese (protagonista del romanzo di Renata Viganò e dell’omonimo film di Giuliano Montaldo, L’Agnese va a morire), rimane invece sull’uscio di casa, come raggelata dall’arresto del marito. Ma poi prende progressivamente coscienza di quanto sta accadendo intorno a lei e diventa una staffetta partigiana. Anche questo film ci propone una pubblica impiccagione alla presenza della folla e dei tedeschi spesso sprezzanti nei riguardi anche di donne e anziani.Nel giro di due anni, tra il 1960 e il 1961, escono tre film che mettono per la prima volta in scena la guerra civile condotta dai fascisti, non solo attraverso rastrellamenti, soprusi e violenze quotidiane, ma anche attraverso vere e proprie rappresaglie.Nel primo, La lunga notte del ’43, di Florestano Vancini (1960), il regista ricostruisce un episodio di rappresaglia operato dai fascisti a Ferrara per vendicare l’uccisione di un loro camerata: nel film di Vancini ci imbattiamo per la prima volta nella rappresentazione di cadaveri di civili giustiziati nel cuore della notte, ma lasciati esposti come monito, senza nessuna pietà, anche nel giorno successivo, impedendo ai congiunti di avvicinarsi o rendere loro degna sepoltura. Un macabro rituale sul quale solo oggi la storiografia si interroga. Analoghe scene si ripetono in altri due film: Un giorno da leoni di Nanny Loy (1961) e Tiro al piccione di Giuliano Montaldo, dello stesso anno.
Chi uccise a San Miniato?
Ma è solo con La notte di San Lorenzo dei fratelli Taviani (1982) che i civili vengono posti al centro del racconto: a San Miniato i tedeschi oramai in fuga dichiarano di aver minato tutto il paese e annunciano che l’unica salvezza è quella di rifugiarsi in chiesa. Il paese è diviso in due: molti uomini accettano la proposta dei tedeschi, gli altri invece decidono di non fidarsi e di raggiungere le linee americane. I paesani che si sono rifugiati in chiesa muoiono perché una bomba esplode al termine della liturgia. Quelli che hanno scelto di andare incontro ai soldati americani incappano invece in uno scontro a fuoco tra partigiani e fascisti.Il film coglie lo spirito di un reale disagio della popolazione civile vissuto in Toscana nei mesi della ritirata tedesca. Ma esso è anche l’occasione per spiegare ai ragazzi come anche il migliore cinema d’autore, quando non sia suffragato da un’attenta ricerca storica, possa concorrere ad amplificare e trasmettere una falsa memoria storica. Nel caso dell’episodio in questione lo storico Lutz Klinkhammer ha recentemente dimostrato che la morte dei trentasei civili nel duomo di San Miniato avvenne a causa «di una granata, più probabilmente di provenienza americana che tedesca, entrata da una finestra nell’interno della chiesa: questa disgrazia è stata considerata per decenni come una carneficina pianificata dai tedeschi».