
A differenza della povertà economica, che trova una più immediata riconoscibilità nell’opinione pubblica e nelle agende politiche, la povertà educativa fatica a essere percepita come vera e propria emergenza sociale, nonostante la sua estesa diffusione e le sue ripercussioni negative tanto per lo sviluppo della persona che per la tenuta della coesione sociale. Eppure, la povertà educativa è un fenomeno più ampio di quanto lo sia quella economica: per quanto esista una chiara correlazione tra disagio economico e difficoltà di apprendimento, la povertà educativa non riguarda esclusivamente coloro che vivono in condizioni di deprivazione materiale. Né si limita a chi non ha completato la scuola dell’obbligo. Anche in contesti meno esposti alla precarietà economica, infatti, si possono riscontrare carenze educative legate a un accesso limitato a risorse culturali, a un sistema scolastico poco inclusivo o a modelli familiari che non favoriscono lo sviluppo di competenze cognitive e critiche.
Parimenti, tra gli adulti che hanno completato la scuola dell’obbligo e hanno proseguito gli studi, non mancano quote di persone che hanno disappreso le competenze di base. Se si considera il livello minimo di competenze basilari possedute e utilizzate dalla popolazione – come le capacità di lettura, comprensione, scrittura, calcolo e problem solving – il nostro Paese si colloca tra i più arretrati d’Europa, come evidenziato da diverse indagini internazionali. I recenti dati OCSE-PISA del 2022, ad esempio, rivelano che quote significative della popolazione studentesca italiana non raggiungono livelli adeguati di numeracy e alfabetizzazione funzionale, ossia non detengono né impiegano le competenze ritenute fondamentali per il futuro inserimento attivo nella società (OCSE, 2023). Altresì, in Italia, anche tra gli adulti scolarizzati si registrano percentuali elevate di analfabetismo funzionale (INAPP, 2025). L’assenza di politiche educative strutturali, la frammentazione delle opportunità formative e la scarsa valorizzazione della cultura come motore di crescita sociale contribuiscono a consolidare questa forma di disuguaglianza, che si traduce in minori opportunità di mobilità sociale e in un aumento delle disparità tra le diverse fasce di popolazione. Contrastare la povertà educativa significa quindi non solo investire nella scuola e nei processi di apprendimento, ma anche promuovere un ecosistema culturale diffuso, capace di offrire opportunità di crescita continua a tutte le età e in tutti i contesti.
Cos’è la povertà educativa?
La povertà educativa, a nostro avviso, si sostanzia in tre dimensioni fondamentali, tra loro combinate (Giancola e Salmieri, 2023):
- Livello di istruzione inferiore alla scuola secondaria superiore: chi non ha completato almeno il ciclo di istruzione secondaria superiore è più esposto al rischio di povertà educativa, in quanto ha avuto un accesso limitato ai percorsi formativi e alle opportunità di apprendimento strutturato.
- Bassi livelli nelle competenze di base: le capacità di lettura, scrittura, calcolo e problem solving costituiscono il nucleo essenziale dell’alfabetizzazione funzionale. Tuttavia, la loro padronanza non dipende esclusivamente dal titolo di studio, poiché se tali competenze non vengono esercitate nella vita quotidiana, nel lavoro o nel tempo libero, tendono a deteriorarsi. Non è raro, infatti, che anche persone diplomate presentino difficoltà nel comprendere il significato di un testo mediamente complesso o nel risolvere un semplice problema logico-matematico, se hanno smesso di impiegare in modo attivo ciò che avevano appreso a scuola. Infatti, il livello delle competenze di base delle persone adulte risulta spesso più legato al tipo e alla qualità dell’occupazione che al titolo di studio.
- Bassi livelli di motivazione all’apprendimento e scarsa valorizzazione della cultura: questa dimensione, meno osservabile, ma altrettanto rilevante, riguarda l’atteggiamento nei confronti della conoscenza e dell’educazione. La povertà educativa non si manifesta solo per effetto di bassi titoli di studio o di scarse competenze, ma anche nella mancanza di curiosità intellettuale, assenza di occasioni di formazione continua e limitato interesse per la cultura in senso ampio. Qui il riferimento è alla cultura intesa come insieme di pratiche, orientamenti e interessi che alimentano la crescita personale e sociale. L’apprendimento non si esaurisce nei percorsi istituzionali: sono le attività extra-scolastiche, come la lettura, la partecipazione a eventi culturali e la frequentazione di ambienti stimolanti, a svolgere un ruolo decisivo nel mantenimento e nello sviluppo delle competenze di base apprese a scuola, favorendo anche l’acquisizione di abilità più complesse.
Queste tre dimensioni, analiticamente distinte, sono tra loro intrecciate nella realtà quotidiana. Chi ha un basso livello di istruzione, ad esempio, è tendenzialmente privo anche di competenze di base adeguate, sebbene la relazione non sia automatica: esistono persone con un titolo di studio elevato che, a causa di una scarsa esposizione a pratiche culturali e intellettuali, vedono progressivamente ridursi le proprie capacità cognitive (obsolescenza delle competenze). Ma vi sono anche casi, più rari, di persone che viceversa hanno un basso titolo di studio, ma hanno sviluppato nel corso degli anni la passione e l’interesse per la lettura e per altre forme di apprendimento culturale. D’altra parte, il capitale culturale di un individuo e la sua propensione all’apprendimento giocano un ruolo essenziale nel mantenere vive e attive le competenze, contrastando così il rischio di impoverimento educativo anche in assenza di percorsi scolastici avanzati. La povertà educativa dunque non è semplicemente sinonimo di scarsa scolarizzazione, ma denota l’assenza o la fragilità delle competenze necessarie per stare al mondo e affrontare la complessità della vita quotidiana.
Diseguaglianze di origine e povertà educativa
È evidente dunque che la povertà educativa non è una condizione statica e immutabile; piuttosto, si genera e si riproduce nel tempo, spesso seguendo una trasmissione intergenerazionale. Le diseguaglianze educative e le disparità di accesso all’istruzione e alle risorse culturali tendono infatti a essere trasmesse dai genitori ai figli, rafforzando un circolo vizioso difficile da spezzare. Uno degli aspetti più complessi riguarda i meccanismi attraverso cui questa trasmissione intergenerazionale avviene concretamente. Non conta soltanto il
disinvestimento in istruzione, ma ha un peso anche l’intreccio di elementi contestuali e relazionali che plasmano le opportunità, le forme e gli ambiti di apprendimento e sviluppo delle competenze. Questa seconda componente rappresenta, in un certo senso, la “scatola nera” della riproduzione delle disuguaglianze educative (Bowles e Gintis, 2002), ovvero un indice di processi latenti che spiegano come e perché alcune condizioni di svantaggio educativo si perpetuano da una generazione all’altra. Tra i fattori determinanti vi è, innanzitutto, il livello di istruzione dei genitori. I figli di adulti con una bassa istruzione tendono a ricevere minori stimoli cognitivi e culturali fin dalla prima infanzia, avviandosi così in una traiettoria di svantaggi che si cumulano dai primi anni di scuola a seguire. Oltre al capitale educativo della famiglia, entrano in gioco anche le condizioni occupazionali ed economiche che incidono sulla possibilità di accedere a materiali didattici, esperienze culturali e opportunità formative aggiuntive. Le risorse culturali presenti o meno nell’ambiente domestico-familiare – libri, strumenti musicali, prodotti culturali, giochi da tavola, dispositivi digitali – sono un indicatore delle dinamiche di socializzazione e delle interazioni tra genitori e figli che plasmano lo sviluppo delle competenze e delle aspirazioni educative dei più giovani (Giancola e Salmieri, 2024). Oltre a questi aspetti, un ruolo cruciale è rivestito dalle aspettative e dai modelli culturali vigenti all’interno della famiglia e della comunità di appartenenza. Il valore attribuito all’istruzione e alla cultura, l’atteggiamento nei confronti della scuola, degli insegnanti e dell’applicazione influenzano profondamente la motivazione all’apprendimento e la percezione delle opportunità di crescita: nelle famiglie e nei contesti in cui l’istruzione è vista come un percorso essenziale di emancipazione e di crescita, è più probabile che i figli sviluppino un orientamento positivo nei confronti del successo scolastico e della curiosità per la cultura in generale. Viceversa, laddove prevalgono modelli che subordinano l’istruzione a una logica puramente strumentale o la considerano irrilevante ai fini della realizzazione personale, i rischi di povertà educativa sono elevati. Infine, esistono fattori esogeni alla famiglia, legati al contesto sociale e alle politiche pubbliche, che possono amplificare o mitigare le disuguaglianze di apprendimento. Nei sistemi di welfare in cui è previsto l’accesso ai servizi educativi di qualità per la primissima infanzia, gli effetti legati all’origine familiare degli studenti sono in buon parte controbilanciati dai processi di omogeneizzazione degli stimoli cognitivi che si riverberano positivamente nel corso degli anni successivi poiché colmano le disparità di partenza tra i bambini. Anche la presenza di beni e servizi culturali nel territorio, come biblioteche, cinema, teatri, strutture sportive e spazi di aggregazione, costituisce un fattore importante di contrasto alla povertà educativa e alla sua trasmissibilità intergenerazionale, purché tali risorse siano effettivamente accessibili e fruibili da tutti. Senza un’infrastrutturazione di dotazioni culturali diffuse, inclusive e attraenti, le opportunità di apprendimento restano appannaggio di chi già possiede i mezzi per accedervi, perpetuando così le disuguaglianze di apprendimento.
Non solo studenti: la povertà educativa degli adulti
La povertà educativa non colpisce solo i giovani in età scolare, ma è una realtà diffusa anche tra gli adulti. Nel mondo degli adulti è un fenomeno che riceve meno attenzione e interventi rispetto al mondo della scuola, poiché nel senso comune prevale l’idea che, una volta completati gli studi, l’apprendimento delle competenze di base valga una volta e per sempre. Parimenti, le politiche pubbliche tendono a concentrare risorse e programmi sull’istruzione dei giovani, privilegiando la visione dell’apprendimento come fase iniziale del corso di vita, nonostante la diffusa retorica del life-long learning cui non seguono, nel nostro Paese, investimenti formativi adeguati. Se nei primi anni di vita il sistema scolastico fornisce e certifica il quadro formale di apprendimento, in età adulta la formazione continua, l’accesso a risorse culturali diversificate, l’apprendimento non-formale e informale costituiscono pratiche fondamentali per mantenere e sviluppare le competenze, anche quelle di base. Tuttavia, molte persone smettono di esercitare capacità cognitive di base come la lettura critica, il calcolo o la capacità di problem solving, con il rischio di un progressivo deterioramento delle proprie abilità. Ciò avviene nella maggior parte dei casi perché nel contesto lavorativo e nel tempo libero questi adulti non incontrano occasioni e opportunità che stimolino o presuppongano l’uso di tali abilità. Persino individui con un titolo di studio elevato possono così ritrovarsi in una condizione di povertà educativa.
Così come la povertà economica implica la privazione di beni e risorse materiali, la povertà educativa in età adulta rappresenta una mancanza di strumenti per decodificare la complessità del mondo che circonda le persone rendendole dipendenti dagli altri. In questa prospettiva, la cultura può essere vista come una «cassetta degli attrezzi» (Swidler, 1986), un insieme di risorse che devono essere costantemente alimentate e praticate per adattarsi e rispondere alle situazioni mutevoli e complesse della realtà contemporanea. Gli adulti sono dunque esposti ai rischi di un progressivo impoverimento educativo, che può tradursi in difficoltà nel comprendere testi complessi, nel selezionare e valutare criticamente le informazioni o nell’accedere a opportunità di crescita personale e professionale. Non è quindi solo una questione di titoli di studio, ma di postura nel quotidiano e nel corso della vita: interesse, curiosità e proattività nei confronti della conoscenza sono elementi essenziali per applicarla, aggiornarla, espanderla.
La povertà educativa in età adulta ha diversi effetti negativi di lungo termine, non solo sulle condizioni di vita dei singoli, ma anche sulla società nel suo complesso. Le evidenze indicano che povertà educativa ed economica si alimentano reciprocamente, dando corso a un circolo vizioso in cui le condizioni economiche di deprivazione restringono lo spettro delle opportunità culturali e sociali e queste ultime riducono le possibilità di emancipazione economica, vincolando il soggetto in un regime di doppia vulnerabilità che si trasmette di generazione in generazione. Oltre a determinare le possibilità occupazionali, la padronanza delle competenze di base e avanzate è strettamente legata al tipo di lavoro che un individuo potrà svolgere. Tuttavia, le persone in condizioni di povertà educativa tendono a rimanere escluse dalle opportunità di apprendimento, anche quando queste sarebbero disponibili. Questo fenomeno è ben descritto dal cosiddetto «effetto San Matteo» (Stanovich, 2000), secondo cui chi possiede già un elevato livello di istruzione e qualificazione beneficia maggiormente delle opportunità di formazione continua, crescita professionale e sviluppo culturale, mentre chi parte da condizioni di svantaggio rischia di restare sempre più escluso dall’accesso a questo tipo di risorse.
Le conseguenze della povertà educativa si estendono anche alla sfera della salute e del benessere individuale (si veda Giancola e Salmieri, 2023, in particolare il Capitolo 6). Chi ha bassi livelli di alfabetizzazione è maggiormente esposto al rischio di non riconoscere segnali di malessere, non sapere come comunicare il proprio stato di salute, incontrare maggiori difficoltà di accesso ai sistemi sanitari e alle cure o di sviluppare una diffidenza nei confronti del sapere medico-scientifico. La difficoltà nel distinguere il sapere scientifico dagli stereotipi del senso comune può aggravare questa condizione, riducendo ulteriormente la capacità di accedere a cure adeguate e di prendere decisioni consapevoli. In questo scenario, la povertà educativa non è solo un problema individuale, ma una sfida collettiva che incide sulle opportunità di sviluppo economico, civico e culturale dell’intera società.
I dati più recenti
La recente seconda edizione dell’indagine internazionale sulle competenze degli adulti (PIAAC, Programme for the International Assessment of Adult Competencies), condotta nel 2023, offre una serie di dati sulla povertà educativa degli adulti italiani (INAPP, 2025). I risultati di tale indagine evidenziano la persistenza di significative lacune tra gli adulti italiani nelle competenze fondamentali, con ripercussioni rilevanti sul livello di qualificazione della forza lavoro, sulla partecipazione alla vita sociale e sulla qualità della vita. I dati dell’indagine riflettono la valutazione dei livelli delle competenze degli adulti in tre ambiti chiave: literacy (comprensione e uso della lettura e della scrittura), numeracy (capacità di calcolo e problem solving matematico) e problem solving in ambienti tecnologicamente avanzati (ovvero l’abilità di utilizzare strumenti digitali per risolvere problemi della vita quotidiana e lavorativa). I risultati attestano che una quota significativa della popolazione adulta italiana presenta difficoltà in almeno uno di questi tre ambiti, con livelli di competenza insufficienti a garantire una piena autonomia nella gestione delle sfide quotidiane e professionali. Nel campo della literacy, il 35% degli adulti italiani ha ottenuto un punteggio pari o inferiore al Livello 1 – il più basso in una scala da 1 a 5 – una percentuale nettamente superiore alla media OCSE, che si attesta invece al 26%. In altre parole, nel nostro Paese oltre un terzo della popolazione adulta presenta difficoltà nella comprensione e nell’uso della lettura e della scrittura in contesti quotidiani e lavorativi. Anche nelle competenze di numeracy, ovvero la matematica di base, il 35% degli adulti ha raggiunto un punteggio pari o inferiore al Livello 1 (media OCSE: 25%). Ciò significa che, sebbene questa fetta della popolazione adulta riesca a svolgere semplici operazioni numeriche, incontra enormi difficoltà nel gestire problemi di un livello appena più complesso, come identificare l’andamento di crescita o di diminuzione di un fenomeno nel tempo in base alle percentuali riportate su un grafico cartesiano.
Anche questa tornata dell’indagine, come le precedenti, conferma che le competenze degli adulti sono correlate al background familiare di provenienza: gli adulti con scarsi livelli di competenze di base provengono prevalentemente da famiglie culturalmente svantaggiate, in cui i genitori hanno un basso livello d’istruzione (per un’analisi dei risultati delle tornate precedente si veda Decataldo e Giancola, 2014).
Vi è poi un elemento particolarmente interessante in merito al divario generazionale nelle competenze di base. Gli adulti di età compresa tra i 55 e i 65 anni mostrano livelli di competenza inferiori rispetto ai 25-34enni. In particolare, nel campo della literacy, gli adulti più anziani ottengono 22 punti in meno rispetto ai giovani. Questa differenza è attribuibile proprio al fenomeno della obsolescenza delle competenze (Giancola e Salmieri, 2023). Tuttavia, la disparità tra generazioni riflette anche un fattore strutturale: la percentuale di persone con un’istruzione medio-elevata è aumentata nel corso delle generazioni più recenti, contribuendo così a far aumentare il numero medio di anni in cui si partecipa all’istruzione formale, innalzando il livello delle competenze di base apprese in ambito educativo. Eppure, per quanto i giovani adulti italiani (16-24 anni) abbiano ottenuto risultati migliori rispetto alla popolazione più matura, i loro punteggi restano comunque inferiori alla media OCSE: i primi hanno fatto registrare un punteggio medio di 263 punti in literacy e di 259 punti in numeracy, entrambi al di sotto degli standard internazionali.
In sostanza, vi sono alcune tendenze generali, confermate dal raffronto tra le due edizioni dell’indagine PIAAC. La prima è che molti adulti faticano a comprendere testi complessi, a estrarre informazioni pertinenti da documenti scritti o a elaborare in modo critico le informazioni disponibili, ponendo quindi un problema di analfabetismo funzionale. Come si diceva, questo non solo limita le opportunità occupazionali e professionali, ma influisce anche sulla capacità di accedere a informazioni cruciali per il benessere materiale e simbolico, come quelle relative alla salute, alla finanza personale o alla partecipazione civica.
A questo fenomeno si aggiunge il problema della povertà educativa dei giovani nella sfera delle competenze numeriche, in cui si osserva una ridotta capacità di interpretare dati, gestire operazioni di calcolo di base e comprendere informazioni quantitative, con conseguenze negative per le competenze finanziarie e in generale per le possibilità di inserimento nel mercato del lavoro, in tutte quelle posizioni e in quei settori che richiedono il possesso di un livello minimo di competenze matematiche.
Infine, soprattutto per la popolazione più matura, si registra una significativa fragilità nelle competenze digitali. In un contesto sociale in cui le tecnologie digitali rivestono un ruolo sempre più vitale, il divario digitale rappresenta una delle sfide più urgenti poste dalla povertà educativa. I risultati dell’indagine PIAAC indicano che una quota elevata di adulti italiani incontra serie difficoltà nell’uso degli strumenti digitali, nell’accesso alle piattaforme online e nella gestione di compiti che richiedono un uso critico delle nuove tecnologie. Questa carenza non solo limita l’accesso alle informazioni e ai servizi digitali, ma riduce anche le opportunità di formazione continua e di riqualificazione professionale.
Il contrasto della povertà educativa
I risultati presentati confermano che la povertà educativa non si esaurisce con la conclusione del percorso scolastico, ma continua a esercitare un’influenza negativa sul benessere individuale e collettivo anche in età adulta. In assenza di interventi mirati, il rischio è che queste difficoltà si traducano in una partecipazione ridotta alla vita sociale e democratica e in un accesso limitato ai diritti alla salute e al mercato del lavoro, con conseguenti vulnerabilità economiche e forme di esclusione progressiva dagli ambienti digitali e dai processi di innovazione tecnologica.
Si osserva, inoltre, una radicata dinamica di trasmissione intergenerazionale della povertà educativa: livelli di istruzione e competenze di base inadeguati nei genitori sono spesso associati a una carenza di stimoli culturali durante i processi di alfabetizzazione scolastica e di apprendimento formale dei figli. Per questa ragione, non solo le politiche educative e le riforme scolastiche, ma soprattutto le strategie di contrasto alla povertà dovrebbero investire in programmi rivolti agli adulti, al fine di interrompere il ciclo della trasmissione intergenerazionale.
Il contrasto alle diverse forme di povertà richiede, innanzitutto, il riconoscimento che la povertà educativa, pur essendo meno visibile, rappresenta una condizione reale e dannosa in ogni ambito sociale. In secondo luogo, le strategie di prevenzione e intervento dovrebbero articolarsi in un insieme integrato di azioni di lungo periodo, promuovendo un processo continuo e diffuso di apprendimento lungo l’intero arco della vita. Questo approccio, per essere efficace, deve coinvolgere trasversalmente molteplici contesti della quotidianità – non solo quello scolastico – includendo la famiglia, i luoghi di lavoro e di formazione, le reti amicali e il tempo libero, i consumi culturali e digitali, la partecipazione alla vita pubblica e il benessere individuale e collettivo.