Ripensare la tradizione #4. Nel laboratorio di un poeta

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Dopo aver osservato alcuni dei modi in cui si costruisce una tradizione culturale, attraverso riprese, riletture, variazioni sugli stessi temi, in questo quarto e ultimo appuntamento proveremo a guardare gli stessi fenomeni, per così dire, al microscopio. Prenderemo cioè in esame alcune poesie di Sandro Penna, un poeta di ingannevole facilità, e proveremo a capire in che modo esse interpretano la tradizione, ne fanno uso e la tengono viva.

Citare, che passione!

Sandro Penna dà alle stampe il suo primo libro, Poesie, nel 1939. Il primo e l’ultimo testo si rimandano per antitesi: il primo incomincia “La vita… è ricordarsi di un risveglio / triste in un treno all’alba…”, e l’ultimo, di soli due versi, dice “Io vivere vorrei addormentato / entro il dolce rumore della vita”. “Vita” è quindi la parola che incornicia l’intero libro, che si apre con un triste risveglio e si chiude con un dolce sprofondare nel sonno – se il risveglio all’alba allude a una nascita, il sonno finale potrebbe simboleggiare la morte e quindi l’intero libro racchiude, per frammenti, il senso complessivo della vita, o la ricerca di questo senso da parte del poeta.

Questa non è l’unica indicazione di lettura che i testi estremi della raccolta forniscono a chi legge. Altrettanto importante è la scelta del poeta di ricorrere, in particolare in queste due poesie, al verso più usato nella tradizione italiana, e cioè l’endecasillabo. Nel pieno della stagione ermetica, novecentista, versoliberista, Penna esibisce una scelta controcorrente – e in tutto il libro conferma l’importanza che conservano per lui le regole del passato: versi, rime, strofe. Non mancano in Poesie momenti di maggiore libertà e di vera e propria irregolarità, certo, ma nel complesso Penna rende omaggio alla grande tradizione lirica dei secoli tra Duecento e Ottocento.

Questo omaggio assume spesso la forma della citazione, più o meno letterale, quasi sempre da testi celebri, ben riconoscibili dal lettore a cui si rivolge Penna. Ecco alcuni esempi:

È forse detto che l’amore umano
vano non debba rimanere mai…
Al cor gentil rempaira sempre amore
(Guinizzelli)
Amor ch’a nullo amato amar perdona
(Dante)
Mi nasconda la notte e il dolce vento Dolce e chiara è la notte e senza vento
(Leopardi)
Falsa primavera

…Ma effimero è alle cave
ansie il sole che ami.
Al vespro aspro, è grave
il cielo ai vecchi rami.

… Ma secco è il pruno e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
(Pascoli)
Già mi parla l’autunno…
…ascolto i miei pensieri
piegarsi sotto il vento occidentale
che scroscia sulle foglie… Poi mi chiudo nel letto. E mi saluta
il canto di un ragazzo…
…selvaggio vento occidentale, àlito
della vita d’autunno… da cui
le foglie morte sono trascinate… ascolta, ascolta!
(Shelley)
  … io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco…
(Leopardi)
Piove sulla città… Piange nel mio cuore
Come piove sulla città…
(Verlaine)
Interno

…sopra un tavolaccio
dormiva un ragazzaccio
bellissimo…

È come un ragazzaccio aspro e vorace…
(Saba)

Come si vede, siamo di fronte a “tessere” che il poeta inserisce in contesti nuovi, come è proprio del classicismo di ogni tempo. Che Petrarca o Poliziano lavorino in questo modo è ben noto, che lo faccia un poeta del Novecento non è invece scontato.

Giocare con le citazioni, però, può essere la strada più facile e in fondo ingenua per dare una patente di nobiltà ai propri versi. Entriamo allora nel laboratorio di Penna, esaminando più da vicino tre testi per capire il significato che assumono i riferimenti alla tradizione.

Gli occhi dell’angioletto

Tra le poesie più citate di questa prima raccolta penniana c’è la quartina di settenari che dice:

Trovato ho il mio angioletto
tra una losca platea.
Fumava un sigaretto
e gli occhi lustri avea.

L’estrema brevità del testo non impedisce al poeta di articolare, per accenni e allusioni, una minima vicenda: abbiamo due personaggi (il poeta e il ragazzo), un luogo ben preciso (un cinema “losco”, in senso letterale perché poco illuminato e in senso metaforico perché luogo di incontri erotici), e due gesti significativi (il ragazzo che fuma un piccolo sigaro e il poeta che lo avvicina.

In che modo il poeta trasfigura e diciamo pure nobilita la sordida realtà che descrive? Ricorrendo a un registro linguistico alto, come rivela il diminutivo raro “sigaretto” e l’arcaismo “avea”, ma soprattutto attraverso la scelta della metafora “angioletto”, che rimanda alla tradizione stilnovistica e petrarchesca. Due testi credo che risuonassero all’orecchio di Penna: “In un boschetto trova’ pasturella” di Guido Cavalcanti (Rime 46), dove si descrivono gli “occhi pien d’amor” della fanciulla e si narra poi come l’incontro si risolva in un rapporto sessuale; e il madrigale di Petrarca “Nova angeletta sovra l’ale accorta” (Canzoniere 106), che si conclude anch’esso con un riferimento agli occhi da cui “sì dolce lume uscia” (che diventa “lustri” nella quartina di Penna).

Il richiamo alla lirica delle origini non è un fatto isolato, anzi è una costante nella produzione penniana, e basti a confermarlo la presenza in Croce e delizia (1957) di questa “pastorella” sui generis:

Andavo già piangendo fra la gente
il mio perduto seme senza amore.
Raccolse le mie lacrime un pastore
leggero, attento, intatto, indifferente.

E, subito dopo, di un altro testo in cui, come nelle “albe” provenzali, si parla di amanti costretti a separarsi dallo spuntare del sole:

“Lasciami andare se già spunta l’alba.”
Ed io mi ritrovai solo fra i vuoti
capanni interminabili sul mare…

Torniamo alla quartina dell’angioletto. All’innalzamento del tono contribuisce anche la scelta metrica: la quartina di settenari rimati abab riprende il ritmo tipico dell’odicina settecentesca e quindi conferisce al testo un carattere vagamente arcadico. Penna, da poeta del Novecento, e da poeta “maledetto”, gioca sullo scontro fra alto e basso, sublime e infimo: il suo angelo non bada alle pecorelle modulando canti d’amore sulla zampogna, ma fuma un sigaro “fra una losca platea”… Insomma, il poeta accentua i richiami alla tradizione proprio nel momento in cui affronta una tematica scabrosa e conturbante.

Ricordo di Esterina

Il secondo testo che prendiamo in esame è la poesia intitolata Nuotatore. È formata da soli tre versi endecasillabi, due dei quali sono però spezzati, sicché il testo risulta disposto su cinque righe:

Dormiva…?

                      Poi si tolse e si stirò.

Guardò con occhi lenti l’acqua. Un guizzo

il suo corpo.

                        Così lasciò la terra.

L’estrema brevità della poesia, anche in questo caso, non deve farci sfuggire il suo carattere narrativo. Il poeta, nel primo emistichio, contempla un giovane disteso sulla spiaggia e si chiede se è addormentato. Nella parte centrale si concentra l’azione (il ragazzo si alza, si stira, guarda l’acqua, si tuffa), affidata a una serie di verbi, tutti al passato remoto: due nella prima frase, uno nella seconda, nessuno nella terza, che è quindi una frase nominale. Molto interessante il contrasto ritmico che viene a crearsi tra la misura standard dell’endecasillabo, perfettamente rispettata, e quella delle frasi, che contraddicono e frantumano tale misura: la prima frase costituisce un ottonario, la seconda un novenario (ma con gli accenti disposti irregolarmente rispetto alla norma che li prevede sulla seconda, quinta e ottava sillaba metrica), la terza un senario. La conclusione, evidenziata dallo stacco grafico, attua il passaggio dalla descrizione alla trasfigurazione (il ragazzo “lascia la terra”, diventa una creatura tra acquatica e celeste), e nello stesso tempo il ritorno a una misura più classica, quella del settenario.

È proprio la conclusione a ricordare al lettore attento un’altra poesia che racconta una situazione simile e si conclude in maniera quasi identica, e cioè Falsetto di Montale (in Ossi di seppia, 1925). Montale si rivolge a una giovane di nome Esterina, svolgendo per una quarantina di versi il confronto tra il proprio atteggiamento verso la vita e quello della ragazza, e conclude:

T’alzi e t’avanzi sul ponticello
esiguo, sopra il gorgo che stride:
il tuo profilo s’incide
contro uno sfondo di perla.
Esiti a sommo del tremulo asse,
poi ridi, e come spiccata da un vento
t’abbatti tra le braccia
del tuo divino amico che t’afferra.
Ti guardiamo noi, della razza

di chi rimane a terra.

I punti di contatto con Nuotatore sono flagranti: la situazione narrata è la medesima, il poeta si colloca nella stessa posizione “contemplativa” rispetto all’oggetto della sua attenzione, che passa dall’immobilità allo slancio improvviso del tuffo in mare, e la conclusione è quasi una citazione letterale. Penna tuttavia non imita il poeta ligure, piuttosto vi si contrappone: ai 51 versi di Falsetto fanno riscontro tre endecasillabi; all’abbondanza di dettagli della poesia montaliana, che sente il bisogno di precisare nome ed età della protagonista, di sviluppare una serie di similitudini, di circondarla di presenze concrete minuziosamente descritte (lo scoglio, il sole, il sale, il ponticello), risponde una ricerca di massima concentrazione, che riduce tutto il contesto a un solo elemento senza aggettivi, “l’acqua”; e alla sintassi articolata e alla musicalità distesa del poeta ligure Penna ribatte con frasi del tutto prive di subordinazione, frantumando gli endecasillabi e negandone il ritmo per affidare la ricerca sonora a tre rime grammaticali (stirò : guardò : lasciò) e a insistite allitterazioni (Si tolSe e Si Stirò; Guardò… un Guizzo; Lenti L’acqua; il suo Corpo. Così). In altri termini, è come se Penna dicesse ai suoi lettori: non in quel modo (con analisi, descrizioni, paragoni ecc.) si fa poesia, ma questo (con un lavoro di sintesi radicale, di riduzione all’essenziale).

Una risposta a Saba

È la stessa riflessione metaletteraria che traspare dalla poesia finale del volume, già citata sopra. Penna si richiama in questo caso a un testo di Saba, il secondo dei tre che costituiscono Dopo la giovanezza, nella raccolta La serena disperazione (1913-1915): quando “l’amorosa immagine balena”, dice Saba,

Ignaro nell’incanto entra il bambino,
che giunto a pubertà dorme supino.

Là si desta, e non sa di che, fiaccato,
e vivere vorrebbe addormentato…

Penna cita con una minima variazione l’ultimo verso citato, ma laddove Saba inscena le proprie contraddizioni, articolandole in un discorso che le porta alla luce e le discute e tenta di fare chiarezza nei più riposti meandri della coscienza, Penna preferisce l’affermazione apodittica, la sentenziosità dell’epigramma, la sintesi (ancora una volta) contrapposta all’analisi. Saba sceglie un metro artificioso come il distico a rima baciata, ripetendo per tre volte lo stesso numero di versi (14, come quelli del sonetto), Penna si affida a una musicalità più sotterranea, quella delle allitterazioni (ViVere Vorrei… Vita) e delle assonanze (dOlcE rumOrE).

La tradizione come dialogo

«Poche figure», scrive Mario Praz, «riescon così meschine come quella dello scopritore di fonti, quando costui si manifesti sotto specie di spennacchiatore di corone di lauro». Proviamo dunque a ricavare qualche conclusione più utile da queste osservazioni.

La prima è che alludere alle pastorelle medievali o citare Saba e Montale non è, da parte di Penna, un’esibizione erudita. Come tutti i poeti, gli scrittori, gli artisti, Penna non opera in solitudine, ma all’interno di un “discorso” collettivo – volta a volta dialogo, dibattito, discussione, scambio, polemica. Nessun testo, nemmeno il più lirico e autobiografico, può prescindere da ciò che lo precede e lo accompagna. La frase troppo spesso citata, «non si può essere un grande poeta bulgaro», è un’esagerazione che contiene una verità: non è impossibile, ma è difficilissimo, perché sono mancati alla letteratura bulgara i Dante, i Petrarca, cioè i punti di riferimento condivisi.

Riconoscere gli elementi costitutivi di questo dialogo a distanza tra autori, opere e testi, come ho provato a fare in questo intervento e in quelli che l’hanno preceduto, non è uno “spennacchiare corone di lauro”: è un aspetto del piacere di leggere, perché scoprire una citazione, riconoscere una voce, cogliere un rimando o un riferimento, ci fa sentire partecipi di quel discorso collettivo…

E infine: se consideriamo la tradizione non come un museo, ma come un dialogo vivo e dinamico, evitiamo due errori purtroppo ancora diffusi: quello di confondere conoscenza e nozionismo, che della conoscenza è la caricatura, o l’imbalsamazione; e quello di attribuire alla conoscenza della propria tradizione un valore identitario, di chiusura nei confronti di tradizioni diverse e lontane – al contrario: è proprio approfondendo la conoscenza della propria tradizione che ci si rende conto di quanto varia e aperta sia una cultura nei suoi momenti più vitali e nei suoi esponenti più significativi.

(fine)

Ripensare la tradizione #3. I miti della modernità

Ripensare la tradizione #2. I silenzi di Manzoni

Ripensare la tradizione #1. La conservazione del fuoco

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Alberto Cristofori

ha organizzato nel 2015 “Milano per Dante”, una lettura integrale della Commedia affidata a 100 esponenti della società civile milanese. È autore di manuali scolastici e traduttore. Ha pubblicato con Bompiani un romanzo e una raccolta di racconti, e dirige una casa editrice per bambini e ragazzi (Albe Edizioni).

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