Ripensare la tradizione #1. La conservazione del fuoco

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Le polemiche innescate nel gennaio 2025 dalle prime indiscrezioni sulle nuove indicazioni ministeriali, e in particolare dall’invito a studiare la Bibbia, a me paiono del tutto pretestuose. Aspettiamo naturalmente il testo ufficiale e definitivo, ma dai dati che abbiamo a disposizione al momento mi pare che non ci sia nessun motivo di scandalo. Quelle che seguono sono alcune riflessioni, di carattere un po’ più generale, suscitate da quanto ho letto negli ultimi giorni.
Immagine Ron Porter – Pixabay
Trasmettere una tradizione

Uno dei compiti fondamentali della scuola (non dico certo l’unico, ma uno dei più importanti sì) consiste nel trasmettere alle nuove generazioni una “tradizione”, cioè un insieme di conoscenze, di testi, di punti di riferimento, di valori anche. Una scelta cioè di quanto la nostra cultura ha elaborato nel corso della sua storia – scelta in parte, inevitabilmente, arbitraria e discutibile, ma nel complesso coerente e ragionata, nella misura in cui sia frutto non delle tendenze prevalenti in un determinato momento, ma di una selezione operata nel tempo dalla collettività, attraverso meccanismi consolidati.

È rispetto a questa tradizione che le nuove generazioni, giustamente, potranno prendere posizione, conservandone una parte e buttando nel dimenticatoio della storia ciò che per qualche ragione non sembra più vitale; ma proprio affinché sia possibile prendere posizione e riconfigurare il patrimonio da trasmettere al futuro, la scuola deve, tra le altre cose, tramandare. Lo studio delle varie “materie”, dalla storia alla letteratura, dalla filosofia alla geografia, dalla fisica all’architettura, a prescindere dai programmi e dalle curvature ideologiche che possono assumere,  risponde a questa esigenza: garantire una continuità nel tempo al sapere condiviso all’interno di una determinata società.

Naturalmente altro è imporre in modo autoritario la tradizione, altro è proporre la tradizione stessa all’analisi critica, alla valutazione ed eventualmente al rifiuto. Altro è prescrivere obbligatoriamente i contenuti da trasmettere quasi fossero verità immodificabili, altro proporre un “canone” aperto e in continua evoluzione. All’inizio del Novecento, in un’epoca in cui le prime avanguardie invitavano a uccidere il chiaro di luna e a sostituire la bellezza ideale della Nike di Samotracia con quella dell’automobile ruggente o dell’orinatoio, cioè propugnavano la distruzione tout court del passato e rifiutavano il concetto stesso di tradizione, il grande compositore e direttore d’orchestra Gustav Mahler difendeva il buon senso con parole semplici, ma a mio avviso ancora validissime: tradizione non è l’adorazione delle ceneri, ma la conservazione del fuoco.

Mi rendo conto che queste riflessioni possono apparire assai astratte. Vediamo allora in che modo viene elaborandosi una tradizione culturale attraverso due esempi concreti – e relativamente vicini a noi nel tempo – di “conservazione del fuoco”.

La morte e la fanciulla

Nel 1817 un compositore viennese di vent’anni, Franz Schubert, scrive uno dei suoi Lieder più belli e famosi, La morte e la fanciulla. Le parole sono di un poeta oggi dimenticato, Matthias Claudius, morto pochi anni prima, che reinterpretava un motivo caro all’arte rinascimentale, soprattutto tedesca, quello della giovane rapita dalla morte (che in tedesco è maschile, der Tod: fatto che consentiva agli artisti di introdurre nelle loro opere un sottinteso erotico, mostrando una fanciulla discinta o del tutto nuda abbracciata da uno scheletro). La melodia del Lied viene usata da Schubert, nel 1824, per il secondo movimento – tema con variazioni – di un quartetto, oggi noto come La morte e la fanciulla (il mite musicista, dopo aver avuto un giudizio negativo da parte di sedicenti amici, lo chiuse in un cassetto; riscoperto e pubblicato dopo la sua morte, è considerato oggi uno dei brani di musica da camera più importanti dell’Ottocento…).

Insomma, Schubert si inserisce con il suo duplice lavoro all’interno di una tradizione già plurisecolare, che coinvolge arti figurative, letteratura e, grazie a lui, musica. Ma siamo solo all’inizio: un secolo più tardi, esattamente nel 1915, un altro celebre viennese, il pittore Egon Schiele, che di anni ne aveva venticinque, riprende il tema in uno dei suoi quadri più belli. Ora, il Rinascimento ricava dall’immagine della fanciulla rapita dalla morte un messaggio che possiamo ricondurre con qualche semplificazione al classico “carpe diem”, attribuendo alle due figure un valore allegorico (la morte impugna spesso una clessidra, a simboleggiare il tempo che tutto divora, ed è spesso a cavallo, perché il tempo fugge veloce). Il romanticismo accentua il pathos della situazione, come rivelano i versi del Lied di Schubert (la fanciulla spaventata dice: “Via, sparisci! / Vattene, barbaro scheletro! / Io sono ancora giovane. / Ti prego, non mi toccare!”; e la morte, insinuante e cupa, risponde: “Dammi la mano, bella e delicata creatura! / Sono un amico, non vengo per punirti. / Su, coraggio! Non sono cattivo, / dolcemente dormirai fra le mie braccia!”). Il quadro di Schiele ha carattere autobiografico: il pittore e la sua amante-modella Wally Neuzil sono ritratti abbracciati a letto, in una posizione contorta, sopra un lenzuolo stropicciato; Schiele era stato appena costretto ad abbandonare Wally e gioca, da espressionista, sul violento contrasto fra la situazione amorosa (due amanti, per altro completamente vestiti) e il tema funebre (il titolo del quadro ci costringe a leggere nel lenzuolo un sudario e in Schiele stesso l’incarnazione della morte…).

Passano altri decenni e il tema, apparentemente esaurito, torna alla ribalta grazie a un drammaturgo cileno di origine tedesca, Ariel Dorfman. Nel 1991, infatti, Dorfman mette in scena un dramma intitolato La morte e la fanciulla, in cui si racconta di un medico che, a causa di un guasto alla macchina, si trova costretto a chiedere ospitalità per la notte a una giovane coppia di sposi. La donna, da un dettaglio, riconosce nel medico l’uomo che, ai tempi della dittatura di Pinochet, quando lei era detenuta come oppositrice, la violentava selvaggiamente nelle segrete della polizia politica, dopo averla bendata, e copriva le sue grida mettendo sul giradischi, a tutto volume, il quartetto di Schubert. Ora la “fanciulla” ha l’occasione per vendicarsi: a dispetto del marito, che vorrebbe appellarsi alla giustizia dello Stato, imprigiona il medico e, minacciando di ucciderlo, lo costringe a confessare. Dal dramma di Dorfman il regista Roman Polanski ricava nel 1994 un film che ossessivamente ripropone nella colonna sonora le note di Schubert – a cui vengono dunque sovrapposte tematiche civili e morali del tutto assenti nelle precedenti letture: che cos’è la giustizia? è possibile che un trauma come quello subito dalla protagonista sia superato? è possibile perdonare una colpa come quella del medico? in che modo i personaggi di un tale dramma potranno mai riascoltare il Lied o il quartetto del compositore romantico?

Carmen

Prendiamo un altro esempio, quello a cui ha dato vita lo scrittore francese Prosper Mérimée nel 1845, con la novella Carmen. La novella è stata fagocitata dall’opera composta trent’anni più tardi da Georges Bizet, ma merita di essere riconsiderata, perché non si limita a raccontare la vicenda della zingara uccisa dal suo ex amante, il caporale don José, ma si presenta con una struttura assai più complessa e interessante.

Mérimée affida la narrazione a un folklorista (oggi diremmo a un etnologo) che si reca per ragioni di studio nell’allora esotica Spagna meridionale, dove incontra un certo don José, detenuto come ladro, stringe amicizia con lui e lo aiuta a fuggire. Incontra poi l’ambigua Carmen, dalla quale viene derubato – e presso la quale ritrova don José, che lo salva da guai peggiori. Passa ancora del tempo e il narratore viene a sapere che don José sta per essere giustiziato come omicida. Va a trovarlo in carcere e ascolta la storia della sua vita – l’unica che viene raccontata nell’opera di Bizet, e che nel libro è seguita da parecchie pagine di carattere etnografico, sui costumi dei Rom, la loro lingua ecc.

La novella di Mérimée, insomma, è un’opera giocata su più livelli narrativi, che affronta una molteplicità di temi: l’eros femminile, il militarismo, l’esotismo romantico – naturalmente anche quello che oggi chiamiamo femminicidio e che allora non era percepito come tale. È quindi un’opera che si inserisce in modo originale all’interno di una serie di temi tradizionali: quello del delitto passionale, innanzitutto; ma anche quello dei cosiddetti zingari, o tzigani, o gitani (che tanta parte aveva già nella musica del Settecento, e nel 1824 aveva ispirato al russo Aleksandr Puškin il poema Gli zingari, a sua volta ispiratore di opere e balletti); e quello dei viaggi di studio in luoghi esotici e pericolosi (tra le fonti di Mérimée gli studiosi indicano infatti The Zingali, del 1841, opere del viaggiatore inglese George Borrow, tra i primi a studiare seriamente la cultura rom).

La difficile, elitaria scrittura di Mérimée non poteva garantire alla figura di Carmen una grande popolarità. Nel 1875, però, appena prima di morire a trentasette anni, Georges Bizet scrive il suo capolavoro e fa della squallida ladruncola di Mérimée uno dei grandi miti della modernità. La vicenda viene modificata per ragioni teatrali (la storia viene ridotta alla vicenda di seduzione e femminicidio; accanto a Carmen e a don José compaiono la malinconica fidanzata di lui e il torero amante di lei); ma la differenza fondamentale riguarda proprio la protagonista, che nel melodramma di Bizet diventa un’eroina della libertà femminile, una donna “scandalosa” che non solo vive senza remore il proprio desiderio, ma domina gli uomini che si innamorano di lei, senza lasciarsene sottomettere – fino a pagare con la vita la propria irriducibile indipendenza.

Il melodramma raggiungeva nell’Ottocento un pubblico molto più vasto della letteratura; proprio per il suo fascino scandaloso (del tutto inaccettabile per la mentalità tardo-ottocentesca), Carmen diventa un personaggio universalmente noto, uno dei grandi “miti” della modernità, e la sua vicenda assurge a grande racconto archetipico, meritevole di essere continuamente ri-raccontato e re-interpretato di generazione in generazione. Basta osservare, nel corso del XX secolo, il numero di film intitolati a Carmen (una ventina tra il 1913 e il 2022), nonché i balletti, i musical, le canzoni, i quadri, i fumetti…

A Carmen è legato anche un interessante caso di radicale riscrittura della vicenda. Nel gennaio del 2018, sotto la regia di Leo Muscato, il Maggio Musicale Fiorentino ha messo in scena l’opera di Bizet rovesciandone il finale (Carmen non muore, ma uccide don José) per lanciare «un messaggio contro il femminicidio». Il problema sollevato da questa provocazione, ripeto, a me pare interessante: i miti, da sempre, sono oggetto di reinterpretazioni, e anche di rifacimenti e stravolgimenti, come rivela qualunque enciclopedia – e quella proposta dal Maggio, evidentemente, non è più l’opera del compositore, bensì a quella del regista.

Conoscenza o celebrazione

Torniamo brevemente alla questione da cui ho preso le mosse. Nessuno mette in dubbio che leggere la Bibbia sia di fondamentale importanza per comprendere almeno i rudimenti della tradizione occidentale. Senza la Bibbia (l’Antico e il Nuovo Testamento) nulla risulta comprensibile – né la Commedia né il Faust o Moby Dick, né Giotto o Stravinskij o Neruda. Il problema è, al solito, come si propone di leggerla. Se evitiamo l’adorazione delle ceneri, e facciamo vedere come le grandi figure della Bibbia, da Adamo ed Eva a Paolo di Tarso, siano state vive nella tradizione culturale dell’Occidente, nella letteratura, nell’arte, nella musica, allora apriamo alla possibilità a nuove riletture, che certo rischiano di tradire l’originale, ma forse proprio così facendo tengono vivo il fuoco.

La sfida non è insegnare o meno la Bibbia (lo si fa già, nel rispetto della libertà di insegnamento), la sfida è evitare la celebrazione e il catechismo (ed è una sfida difficile, ovviamente). Di questo tuttavia sono sicuro: le storie di Davide e Betsabea, o di Susanna e Daniele, o di Agar e Ismaele, non lasciano indifferenti, oggi come ieri, perché toccano corde universali, e come le storie di Ulisse o di Orfeo, di Carmen o di don Chisciotte, non hanno ancora finito di parlarci.

(continua)

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Alberto Cristofori

ha organizzato nel 2015 “Milano per Dante”, una lettura integrale della Commedia affidata a 100 esponenti della società civile milanese. È autore di manuali scolastici e traduttore. Ha pubblicato con Bompiani un romanzo e una raccolta di racconti, e dirige una casa editrice per bambini e ragazzi (Albe
Edizioni).

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