Non tutti i morti sono uguali, alcuni sono più uguali degli altri. Questo atteggiamento lo vediamo (per fortuna non troppo spesso) anche nei classici annunci televisivi in occasione di un qualche disastro. Dopo l’annuncio del fatto e del numero dei morti, solitamente segue la frase, pronunciata quasi con un sospiro di sollievo: «nessun italiano tra le vittime». Se poi si passa alle edizioni regionali, l’importanza su base territoriale data ai caduti è ancora più limitata «nessun toscano, piemontese, pugliese a bordo».
Lo registriamo anche nelle tragiche vicende degli ultimi tempi: i disperati di Gaza suscitano meno empatia di quelli israeliani, le vittime delle molte guerre in Africa nemmeno raggiungono l’onore delle cronache. La distanza (geografica e culturale, anche se spesso presunta) gioca un ruolo fondamentale nella nostra percezione. Il bambino è sì un po’ più neutro rispetto agli adulti, ma fino a un certo punto. Nonostante possa essere percepito come meno responsabile della differenza, o comunque non ancora così “altro”, rimane però quel senso di appartenenza che fa sentire i “nostri” bambini, più importanti degli altri. Come scrive lucidamente Susan Sontag: «Durante i combattimenti tra serbi e croati all’inizio delle recenti guerre dei Balcani, le stesse fotografie di bambini uccisi nel bombardamento di un villaggio venivano mostrate sia nelle conferenze di propaganda serbe che in quelle croate. Bastava cambiare la didascalia e la morte di quei bambini poteva essere utilizzata innumerevoli volte […] Per un ebreo israeliano, la fotografia di un bambino dilaniato in seguito a un attentato alla pizzeria Sbarro nel centro di Gerusalemme è innanzitutto la foto di un bambino ebreo ucciso da un kamikaze palestinese. Per un palestinese, la fotografia di un bambino dilaniato dal fuoco di un carro armato a Gaza è innanzitutto la foto di un bambino palestinese ucciso dall’artiglieria israeliana. Per i militanti l’identità è tutto»1.
Identità: ancora una volta questa parola è foriera di danni terribili. Non siamo capaci di abbandonare l’idea che gli esseri umani siano in qualche modo marchiati da una nazionalità, da una cittadinanza, da un legame con un territorio che, se non è il nostro, li rende automaticamente stranieri. Nascita e nazione sembrano diventati un binomio indissolubile, sul quale costruire la nostra identità. «Nel corso della mia vita ho visto dei francesi, degli inglesi, degli italiani, dei tedeschi, dei russi: ho anche appreso da un celebre libro, che si può essere persiano. Ma non ho mai visto l’uomo»2. Così scriveva lo statista e diplomatico francese Joseph de Maistre. Parole ciniche, che riflettono però una mentalità molto diffusa, direi quasi dominante. Quando si parla di un individuo, l’origine, l’appartenenza, la nazionalità vengono prima del suo far parte del genere umano. La nascita diventa nazione e ogni nazione ha un confine, che finisce per generare uno scarto tra coloro che consideriamo dei “nostri” e gli altri. È su questi confini che si costruisce il pensiero identitario, il noi più refrattario a ogni confronto, quello che, includendo alcuni, esclude tutti gli altri.
Per qualche decennio dopo la Seconda guerra mondiale è sembrato che certe pulsioni si fossero attenuate, almeno in Occidente, ma la memoria collettiva è spesso corta, e oggi la realtà dell’Europa è nuovamente segnata da una forte componente sovranista, con echi sinistri del passato, che richiama il legame tra suolo e sangue: «il sangue, il suolo e la personalità; essi sono modellati secondo le forme del nostro tempo, la germanità eterna», scriveva il teorico del nazismo Alfred Rosenberg. Basti pensare a come, pur con le debite distinzioni, anche lo ius sanguinis sia un esempio di questo approccio: conferisce infatti un significato biologico che, biologicamente parlando, non ha alcun significato, a un dato socio-culturale, come l’essere italiano. Anche il popolo da demos diventa ethnos, da ceto sociale diventa etnia, tribù, e la frattura di classe viene rimodellata in chiave etno-culturale fatta coincidere con la nazione. Ecco allora che i morti degli “altri” sono meno morti dei “nostri”.
«Stavolta no: a differenza di altre stragi di matrice terroristica, non ci sentiamo parte della comunità degli offesi»3. Con queste poche parole Mariano Croce riassume benissimo l’idem sentire di molti di noi dopo il massacro perpetrato per mano dell’Isis al Crocus City Hall di Mosca il 22 marzo 2024. Nonostante il numero, nonostante fossero tutti comuni cittadini, quelle vittime non hanno superato la soglia emotiva che spinge al compianto. Perché sono russi e quindi nemici, visto che da due anni Vladimir Putin conduce una guerra contro l’Ucraina in cui l’Europa e l’Italia (non gli italiani) sono schierati a fianco di Kiev. Le persone uccise nel teatro erano cittadini, non militari invasori, ma persone comuni, e tra di loro c’era certamente chi non era neppure d’accordo con le scelte scellerate del presidente russo, eppure sono finite dalla parte dei nemici, per i quali non vale la pena spendere troppe lacrime. O forse sarebbe meglio dire che quei morti non muovono a commozione le nostre coscienze, perché non si tratta di un sentimento razionale: perché questa distinzione tra i nostri e gli altrui sia efficace deve essere istintiva. Sono molti i casi in cui una comunità, qualunque essa sia, si compatta sulla base di un nemico, e quel nemico deve essere distante, o comunque allontanato simbolicamente. Deve stare al di fuori di “noi”. È lo stesso meccanismo che sta alla base delle accuse di stregoneria, che sono quasi sempre rivolte a individui in qualche modo al di fuori o marginali alla comunità. La loro funzione è proprio quella di incanalare verso l’esterno le tensioni e le pulsioni distruttive interne, così la comunità, minacciata da un male esterno, riesce a pensarsi come naturalmente buona. Il cattivo ci serve, per definire su di esso l’immagine di un “noi” buono4; talvolta è una soluzione, proprio come i barbari della celebre poesia di Costantino Kavafis. Ogni società umana stabilisce un confine tra ciò che è bene e ciò che è male e attribuisce a quest’ultimo volti diversi. Per questo, come scrive ancora Croce: «Non scatta in noi quella comoda coazione alla solidarietà che nella passate tragedie, per quel poco che è durato, ci ha fatto dire che i morti era come fossero i nostri ‒ anzi, che era come fossimo morti noi stessi».
Non ci sono state marce di indignazione, nessuno ha indossato magliette con su scritto “Я Крокус” (io sono Crocus) e addirittura, per qualche giorno, si è temuto che in quell’episodio atroce fosse coinvolto il governo ucraino, che invece consideriamo amico. Nonostante i colpevoli appartenessero, invece, alla stessa galassia jihadista che condusse l’eccidio dell’11 settembre 2001, in questo caso le vittime non erano così nostre come quelle di New York.
I nostri sentimenti sono anche condizionati dalle informazioni che riceviamo e che orientano i nostri stati d’animo. L’attacco russo ha immediatamente posto l’Ucraina e la sua popolazione nel nostro campo emozionale: appariva evidente chi fosse il cattivo e Putin incarna benissimo quel ruolo. Non ci hanno mai mosso a solidarietà, invece, gli oltre 5mila morti russi, caduti nel corso di un conflitto iniziato nel 2014 e durato ben otto anni, di cui non si è quasi mai parlato nel nostro Paese. Si potrebbe dire altrettanto degli quasi 6 milioni di morti nel corso della ventennale guerra in corso nella Repubblica Democratica del Congo, totalmente assente da schermi e giornali nazionali.
La Russia, dopo la rivoluzione di Ottobre, è stata allontanata ideologicamente dal mondo occidentale, è diventata nemica, e, a proposito di morti, è triste vedere come nella maggior parte delle rievocazioni relative alla Seconda guerra mondiale si ponga sempre l’accento sul ruolo fondamentale svolto dalle truppe alleate e molto meno sui 20 milioni di morti sovietici caduti contro le truppe naziste.
Il 7 ottobre 2024 militanti di Hamas compiono un terribile e atroce massacro oltre il confine israeliano, in cui vengono barbaramente uccisi 1.200 civili. Nulla può giustificare quell’attacco, che giustamente suscita orrore in quasi tutto il mondo. Le vittime erano peraltro in gran parte giovani, che partecipavano con danze e bevute al festival all’aperto di musica trance Supernova Sukkot Gatherin, non certo combattenti. C’è da dubitare fortemente che fossero tutti nemici dei palestinesi, che condividessero necessariamente la politica del loro governo. Forse molti di loro sognavano anche un futuro di pace, ma sono stati ridotti a nemici, a carne da macello perché “israeliani”, diventando così le vittime della politica oltranzista di espansione territoriale condotta da Netanyahu. Agli occhi di Hamas erano “altri” a prescindere.
Da parte israeliana c’è stata immediatamente una scontata reazione, mirata però non a colpire i veri responsabili della strage, ma gli abitanti della Striscia di Gaza tutti, anche loro in gran parte incolpevoli delle azioni terroristiche di chi li governava, che peraltro non avevano scelto, che non indiceva elezioni da anni, per paura di essere sconfitto. E così altri civili massacrati in quanto “Hamas”: ma quanti di loro ne condividevano le scelte?
Il mondo occidentale si è subito schierato pressoché unanimemente con Israele. Potrebbe apparire quasi “naturale” provare un senso di vicinanza con l’aggredito, ma davvero parteggiamo sempre per la vittima? E i due ruoli sono davvero sempre così chiari?
È comprensibile che sull’onda emotiva non si potesse che essere contro un massacro così scellerato come quello dei terroristi di Hamas, ma pur condannando con tutta la forza una tale violenza, non si può dimenticare la lunga e continua politica di repressione condotta dai governi israeliani contro i palestinesi, a partire dalla Nakba del 1948, fino alla progressiva occupazione di terre in Cisgiordania. Così come non si possono cancellare le condizioni di prigionia e oppressione in cui erano costretti gli abitanti di Gaza dal 2005. Due milioni di persone, non certo tutti terroriste, che avevano la corrente elettrica per tre ore al giorno, che non potevano uscire dalla galera in cui erano rinchiusi.
Dipingere un mondo in bianco e nero semplifica la vita e agevola i conduttori di inutili talk show, ma non aiuta a comprendere la complessità dei fatti. È troppo semplice contrapporre democrazia a terrorismo, etichettando subito il buono e il cattivo. Definendo terrorista il nemico, lo si esclude dall’orizzonte dell’umanità. Chiara Volpato mette in luce come la deumanizzazione sia stata impiegata, dopo l’11 settembre, per costruire il consenso alla “guerra al terrore” e far sì che l’opinione pubblica occidentale tollerasse le violazioni dei diritti umani e trascurasse l’incidenza dei “danni collaterali” alle popolazioni civili. «L’etichetta “guerra al terrore” (war on terror) si è rivelata uno strumento potente nella costruzione dell’immagine di un nemico non identificabile con uno Stato. Termini quali “nemici combattenti” e “terroristi” hanno escluso nemici e prigionieri dall’orizzonte morale, permettendo di sottoporli a trattamenti vietati dalla Convenzione di Ginevra. Il termine “terrorista”, in particolare, è servito a creare una categoria di individui ai quali non sono applicati i diritti riconosciuti internazionalmente agli esseri umani, individui che possono essere uccisi al di fuori dalle azioni militari e possono essere rinchiusi in lager, quali Guantanamo, sottratti alla giurisdizione ordinaria»5.
Le oltre quarantamila vittime palestinesi hanno suscitato, in una parte del mondo occidentale, uno sdegno, piuttosto che un’empatia, un sentimento razionale più che emotivo, perché appartengono a un mondo altro, sono arabi, musulmani, e come scrive Maurizio Bettini: «Nella società contemporanea l’alterità è rappresentata soprattutto dalle culture che non sono le nostre (islamiche, africane in genere); dai popoli che non sono “noi”»6. Senza contare l’equazione palestinesi uguale Hamas, che rende ogni abitante di Gaza automaticamente complice del barbaro attacco del 7 ottobre.
«Chi pensava che nel mondo globale del XXI secolo l’orientalismo fosse morto si è dovuto ricredere», scrive Enzo Traverso, «l’orientalismo è vivo e gode di ottima salute. I media ne sono saturi. Il suo principale assioma – gli occidentali sono incapaci di definire sé stessi se non ponendosi di fronte ai rappresentanti di un’umanità radicalmente altra, non-bianca, considerata incivile e gerarchicamente inferiore – viene declinato quotidianamente in tutte le forme possibili»7. Gaza non è in Occidente. Quei morti non sono “nostri”.
NOTE
- S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, trad. it P. Dilonardo, Mondadori, Milano 2003, pp. 106-107.
- J. De Maistre, Considérations sur la France, Chez Rusand, Lyon 1829, p. 94.
- M. Croce, Sulla strage a Mosca in Occidente regna l’inverno emotivo, «Domani», 25 marzo 2024.
- Cfr. M. Douglas (a cura di), La stregoneria, trad. it. C. Faralli, G. Ricci, Einaudi, Torino 1980.
- C. Volpato, La negazione dell’umanità: i percorsi della deumanizzazione, in «Rivista Internazionale di Psicologia e Filosofia», Vol. 3 (2012), n. 1, p. 102.
- M. Bettini, Hai sbagliato foresta. Il furore dell’identità, il Mulino, Bologna 2020, p. 19.
- E. Traverso, Orientalismo e sionismo per giustificare un genocidio, «il manifesto», 19 dicembre 2023.