Anche per ragioni dettate dalla nascita della Settima arte alla fine dell’Ottocento (il 28 dicembre 1895 è la data istituzionale della prima proiezione pubblica dei fratelli Lumière), il primo grande evento che i registi e gli sceneggiatori hanno voluto (e, forse, dovuto) affrontare – quasi in diretta – è stato senza dubbio la Prima guerra mondiale.
Certo, non mancavano esempi legati al passato, a fatti storici avvenuti prima che il cinema nascesse, e si può a questo proposito citare un film fondativo del cinema classico del calibro di Nascita di una nazione di David Wark Griffith: una pellicola del 1915, ambientata ai tempi della Guerra civile americana, che si può prendere come modello di riferimento per la spettacolarità delle sequenze di massa, per il numero di comparse e anche per le scelte narrative e stilistiche decisamente in anticipo sui tempi.
La Prima guerra mondiale cambia però tutto, anche a livello produttivo, per la geografia del cinema mondiale: l’Italia, ad esempio, perderà quel ruolo dominante che aveva in precedenza, mentre Hollywood diventerà la Capitale del cinema proprio in seguito al primo conflitto planetario.
Griffith lo ha raccontato in pellicole come Cuori del mondo (1918) e Le vestali dell’amore (1919), ma all’interno di quel decennio sono altri due i titoli che vogliamo sottolineare come fondamentali in questo senso: il primo è Per la patria (1919), capolavoro pacifista di Abel Gance, un dramma bellico, dai toni funerei e sentimentali allo stesso tempo, in cui la storia (privata) dei tre personaggi si mescola alla Storia e a una delle sue principali tragedie.
L’altro è invece Charlot soldato (1918), mediometraggio in cui Charlie Chaplin riesce a farci (sor)ridere della tragedia, regalando anche una delle prime parodie belliche della storia del cinema.
Il cinema americano proseguirà poi a essere protagonista del genere anche nel decennio successivo, sempre raccontando l’incubo della Prima guerra mondiale con produzioni come La grande parata (1925) di King Vidor o Ali (1927) di William Wellman, quest’ultimo il primo film a ottenere l’Oscar per la miglior pellicola durante la prima edizione in cui venivano consegnati gli Academy Awards.
Il cinema parlato, slanci pacifisti
Mentre il cinema in questi anni verrà sempre più utilizzato in chiave propagandista dai regimi dittatoriali – il fascismo sfrutterà enormemente il linguaggio della Settima arte in questo senso – nel corso degli anni Trenta i lungometraggi più significativi del genere risultano essere delle opere a sfondo dichiaratamente pacifista.
Il decennio viene inaugurato così dal meraviglioso All’Ovest niente di nuovo (1930), film di Lewis Milestone tratto dal celebre romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque. Milestone ritrae con crudezza e coraggio la “follia della guerra” ribaltando totalmente la prospettiva che il cinema bellico aveva proposto fino a quel momento: All’Ovest niente di nuovo prende, infatti, la prospettiva dei perdenti del conflitto, i tedeschi, le cui speranze vengono sempre più disilluse con il passare dei minuti.
Altra opera memorabile in questo ambito è La grande illusione, con cui Jean Renoir nel 1937 torna a parlare della Prima guerra mondiale, ma con l’intento di far riflettere su quanto si stava muovendo nuovamente in Europa e che avrebbe portato presto allo scoppio della Seconda. Quello di Renoir è un pacifismo pragmatico, realista, che non prescinde dal rispetto dei codici, morali in primis, insiti anche nel contesto bellico. La guerra, per paradosso, in questo come in altri lavori del cineasta francese, è l’unico scenario in cui gli uomini si scoprono uguali, pur indossando divise di diverso colore.
La Seconda guerra mondiale
Nel mezzo della Seconda guerra mondiale il cinema giocava ancora con la propaganda, da un lato, e con attenzioni ben più pacifiche e artistiche, dall’altro.
È abbastanza incredibile quello che hanno fatto Michael Powell e Emeric Pressburger nel film britannico Duello a Berlino del 1943, raccontando la storia di due uomini rimasti amici per la vita dopo essersi affrontati in duello a Berlino nel 1902: il veterano dell’esercito britannico Clive Candy e l’ufficiale tedesco Theo Kretschmar-Schuldorff, ormai anziani, rievocano la straordinaria parabola di stima reciproca che ha segnato un glorioso passato. Due guerre mondiali e l’avvento del nazismo non hanno scalfito un rapporto più grande della vita.
Sono due le nazioni che negli anni immediatamente successivi alla guerra danno un contributo fondamentale al racconto per immagini di alcuni episodi del conflitto: gli Stati Uniti hanno puntato sull’estrema spettacolarità e su un forte carico di retorica con ottime pellicole come Cielo di fuoco (1949) di Henry King, Iwo Jima, deserto di fuoco (1949) di Allan Dwan o Obiettivo Burma! (1945) di Raoul Walsh. Ma in questo periodo si dedica anche un ampio spazio alla malinconia di rapporti umani che si sono spezzati, come dimostra I migliori anni della nostra vita (1946) di William Wyler.
La nazione che però avrà una vera e propria rinascita dopo la guerra sarà l’Italia, capace finalmente di tornare ai fasti del primo periodo del cinema muto grazie al neorealismo, un movimento che aggrega diverse opere caratterizzate da uno stile essenziale, debitrici del verismo verghiano e di un desiderio di raccontare la realtà così com’è, senza fronzoli.
Seppur ci siano stati diversi anticipatori in questo senso, il manifesto del movimento è Roma, città aperta (1945) di Roberto Rossellini, un vero e proprio instant-movie che racconta l’occupazione nazifascista della capitale italiana con la necessaria crudezza.
Rossellini proseguirà con altri due capitoli di un’ipotetica trilogia neorealista: Paisà (1946), in cui si racconta la Liberazione d’Italia dal Sud al Nord in vari episodi, e Germania anno zero (1948), dove mostra una terrificante panoramica della Berlino del dopoguerra.
Le difficoltà seguite al conflitto bellico saranno oggetto di riflessioni per cineasti come Luchino Visconti (Bellissima), Vittorio De Sica (Ladri di biciclette) e tanti altri.
Il cinema italiano poi tornerà anche a raccontare la Prima guerra mondiale con La grande guerra (1959), film di Mario Monicelli avvicinabile al filone della commedia all’italiana con due memorabili Alberto Sordi e Vittorio Gassman.
Le altre nazioni
Certo, nel corso degli anni Cinquanta il cinema americano insiste molto sul cinema bellico (anche Stanley Kubrick torna alla Prima Guerra Mondiale con Orizzonti di gloria del 1957), ma si percepisce come numerose nazioni vadano sempre più a riflettere sui traumi della Seconda guerra mondiale.
In Europa certamente emerge ancora la Gran Bretagna (il classico Il ponte sul fiume Kwai del 1957), ma è molto interessante ciò che si sviluppa in Francia, prima con pellicole emozionanti come Giochi proibiti (1952) di René Clément, poi con le sperimentazioni portate dagli autori della modernità. Emblematico a questo riguardo è Alain Resnais, che ha indagato in maniera profondamente psicoanalitica quei traumi con un documentario come Notte e nebbia (1957) e che realizza un film di finzione come Hiroshima, mon amour (1959), incentrato sull’incontro tra un’attrice francese che si trova in Giappone per girare un film contro la guerra e un ragazzo del luogo con cui inizia un’appassionata e tormentata relazione. Basta l’incipit, che mostra i loro corpi avvinghiati dopo un rapporto sessuale, coperti dal sudore e dalla cenere che simboleggia il trauma della bomba atomica.
Restando in ambito europeo, non va dimenticato il grande lavoro svolto in Polonia da Andrzej Wajda, autore che ha indagato le conseguenze nefaste della guerra in pellicole come Cenere e diamanti (1958).
Una menzione speciale, poi, va al cinema giapponese, che negli anni Cinquanta racconta con estrema forza il suo punto di vista su ciò che è successo. Lo fa sia in maniera profondamente realista, con film come Nessun amore è più grande (1959) di Masaki Kobayashi o Fuochi nella pianura (1959) di Kon Ichikawa, sia in senso profondamente simbolico: Godzilla (1954) descrive un mostro gigantesco che diviene una forte metafora della bomba atomica e degli orrori che ne sono scaturiti.
La guerra del Vietnam
Non tutti ricordano che il primo film sulla guerra in Vietnam è stato un lungometraggio francese, 317° battaglione d’assalto (1965), realizzato prima che gli Stati Uniti rendessero quelle battaglie tra le più significative della storia del cinema. Inizialmente troviamo anche una star decisamente repubblicana come John Wayne a lavorare sul tema, con il suo film Berretti verdi del 1968, ma in seguito la guerra in Vietnam diventerà soprattutto una materia di riflessione in cui il cinema ragionerà sulla follia alla base del conflitto e sui traumi causati dalle scelte del governo americano in quegli anni. Seppur non manchino lavori profondamente retorici e capaci di coniugare guerra e azione, come la serie di Rambo o Rombo di tuono, il filone – diventato un vero e proprio sottogenere a sé stante – diventa fondamentale quando invece entra nell’aspetto più psicologico del conflitto.
Esempi fondamentali in questo senso sono Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese e Tornando a casa (1978), due film figli della cosiddetta New Hollywood, che ragionano sul tema dei reduci e di ciò che la guerra lascia dentro ognuno dei suoi protagonisti.
Ancor più centrale in questa riflessione è Il cacciatore (1978) di Michael Cimino, capolavoro che mostra il prima, il durante e il dopo conflitto con una forza drammaturgica e stilistica devastante.
Forse ancor più decisivo in questo senso è Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola, un film che riporta la guerra a uno stato mentale, come dimostra il memorabile incipit con la sovrimpressione tra il volto del protagonista Martin Sheen – pronto a un viaggio nel cuore di tenebra dell’essere umano, per citare il libro di Conrad da cui è tratto – e lo sfondo degli incendi sulla giungla causati dai bombardamenti.
Negli anni Ottanta sono tornate a ragionare sulla guerra diverse altre pellicole importanti, come Platoon (1986) di Oliver Stone e Full Metal Jacket (1987), dove Stanley Kubrick mostra due tipi di guerra, quella in accademia e quella sul campo.
La Shoah
Eletto per tentare di rappresentare anche l’irrappresentabile, il cinema ha dedicato non poca attenzione al tema della Shoah, tratteggiandone direttamente la portata devastante o affrontando le dolorose conseguenze tramite prospettive meno convenzionali. Molti esempi in questo senso sono arrivati dagli anni Ottanta in avanti, a partire da un documentario torrenziale e memorabile come Shoah di Claude Lanzmann o dal malinconico Arrivederci ragazzi di Louis Malle.
Il tema della Shoah, collegabile quindi pienamente al cinema di guerra, è diventato anche una potente macchina commerciale sul grande schermo, visti anche i grandi incassi e i numerosi Oscar ottenuti da film (seppur ottimi) come Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg o La vita è bella (1997) di Roberto Benigni.
Registi di varie nazioni hanno scelto questo argomento a cavallo dei due millenni, dal rumeno Radu Mihaileanu con Train de vie (1998) al greco Costa-Gavras con Amen (2002), passando per il polacco Roman Polanski con il suo notevole Il pianista (2002).
In mezzo a tanti film degli anni 2000 che toccano l’argomento – talvolta in maniera un po’ furba – vogliamo segnalare due vere e proprie opere d’arte che cambiano la prospettiva sull’argomento. Il primo è Il figlio di Saul (2015) di László Nemes: nella Auschwitz del 1944, l’ungherese Saul è costretto a collaborare con i nazisti per smaltire i prigionieri. Convinto di aver ritrovato il cadavere del proprio figlioletto, farà di tutto per garantirgli un degno riposo. Folgorante esordio per Nemes, già assistente di Béla Tarr, il film affronta la tragedia del genocidio nazifascista tramite il dramma del protagonista, raggiungendo picchi emotivi di rara umanità, optando per una cinepresa che rimane sempre incollata al volto del protagonista e lascia gli orrori sullo sfondo, sempre fuori fuoco. Lavora altrettanto egregiamente col fuori campo La zona d’interesse (2023) di Jonathan Glazer, tratto da un romanzo di Martin Amis, che ci mostra la banalità del male mostrando la quotidianità della famiglia di un gerarca nazista che vive accanto ad Auschwitz.
Il nuovo millennio
Le pellicole contemporanee che tornano a ragionare sulla Seconda guerra mondiale sono diverse, ad esempio due film del 1998 – Salvate il soldato Ryan e La sottile linea rossa – ma anche nel nuovo millennio non mancano esempi variegati in tal senso: dall’ucronia di Quentin Tarantino con Bastardi senza gloria (2009), film che immagina come Hitler possa essere rimasto ucciso in un cinema, allo spettacolare Dunkirk (2017) di Christopher Nolan, passando per il dittico firmato da Clint Eastwood che mostra la battaglia di Iwo Jima dal punto di vista degli americani, prima, con Flags of Our Fathers (2006) e da quello dei giapponesi poi, con Lettere da Iwo Jima (2006).
Sono anni in cui il cinema a stelle e strisce ha ragionato anche molto sulla guerra in Iraq, con opere sperimentali come Redacted (2006) di Brian De Palma, ma anche sulla caccia a Osama Bin Laden come conseguenza dell’11 settembre: il primo titolo che va ricordato in questo senso è Zero Dark Thirty (2012) di Kathryn Bigelow, regista che aveva già affrontato il tema della guerra in Medio Oriente con The Hurt Locker (2009).
Vogliamo però chiudere la nostra panoramica citando i film che parlano della guerra nei Paesi del Medio Oriente realizzati da autori e autrici del posto: da Lebanon (2009) di Samuel Maoz a Kippur (2000) di Amos Gitai.
Quando si parla di cinema di guerra, infine, non si possono dimenticare alcuni importanti documentari: il titolo con cui vogliamo concludere è l’imprescindibile Alla mia piccola Sama (2019) di Waad Al-Kateab. Non è soltanto un film-testimone del tragico conflitto siriano, ma una vera e propria video-lettera che la regista realizza per la figlia nata durante i bombardamenti. Storia privata e storia collettiva si fondono in questo potente lungometraggio, capace di essere intimo e di avere un ampio respiro allo stesso tempo: proprio le caratteristiche fondamentali che dovrebbe avere qualunque, grande, film di guerra.