Sconfinamenti #2

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Fatti non foste: per una riflessione sulla scienza in epoca fascista
La copertina del numero XIV della rivista.

Ho scoperto i primi numeri della rivista “Sapere” durante una recente visita all’archivio dell’ISEC, Istituto Storico dell’Età Contemporanea, realtà a cui mi guida Monia Colaci, collega, storica responsabile didattica dell’Istituto, che ogni anno offre a docenti e studenti l’occasione di esplorare storia e cultura del Novecento con approcci di ricerca e confronto interdisciplinari.

A colpire la mia attenzione (in ragione di interessi che hanno guidato anche la mia scrittura del romanzo Le invisibili, Neri Pozza) sono stati appunto alcuni numeri della pubblicazione (inaugurata nel 1935, lo stesso anno della Guerra d’Etiopia), la più antica rivista italiana di divulgazione scientifica.

Nel XIV numero del quindicinale, datato 15 luglio 1936, l’articolo di punta è incentrato sulla pericolosità degli incroci interrazziali, all’indomani della presa d’Etiopia e della costituzione dell’Impero fascista (9 maggio 1936). L’autore, Leone Lattes, rappresenta quella parte della scienza nostrana che impiegò il proprio sapere per avallare il passaggio da un generico concetto di supremazia nazionale a una giustificazione biologica della classificazione gerarchica di individui e popoli, con le conseguenze storiche che tutti conosciamo.

In vari giornali è stato affacciato il pericolo che in seguito alla nostra gloriosa conquista, possano determinarsi incroci tra i popoli italici e la popolazione etiopica, in così vasta scala da creare una sorta di razza mista di meticci. E poiché per una nozione comunemente ammessa, fra i meticci abbonderebbero tare degenerative somatiche e psichiche in grado maggiore che fra la popolazione dei progenitori si assisterebbe ad una deprecabile degradazione di entrambe.

Gli argomenti a sostegno di tale tesi sono di carattere biologico, e partono dal presupposto che esista un legame tra i caratteri fisici (funzionali alla classificazione razziale) e i caratteri culturali. La fusione tra razze diverse è ammessa con prudenza, purché i progenitori siano di razza pura definita e purché a mischiarsi siano stirpi che si siano già incontrate ab antiquo e abbiano mostrato un certo grado di tollerabilità legata alla comune appartenenza al bacino mediterraneo. La paradossale giustificazione dei rischi connessi al meticciato italo-etiope è che gli etiopi sono i più simili ai bianchi fra i popoli d’Africa, ma lo sarebbero proprio in ragione di una combinazione di popoli, e dunque geni, che non permetterebbe ulteriori intrecci. In buona sostanza, Lattes ammette che in Sicilia, in Spagna e Asia Minore si siano manifestate proficue mescolanze di stirpi e costruzioni di floride civiltà, ma la licenza non vale per l’’ultimo dei popoli sottomessi.

Per favorire la comprensione del caso sarà utile ricordare che Leone Lattes fu medico e scienziato torinese di famiglia ebraica; la madre Camilla Lombroso era nipote del più celebre Cesare, e il giovane Leone poté, in virtù della parentela, orientare i suoi interessi all’antropologia criminale e agli studi antropometrici, applicandosi alla morfologia del cervello dei criminali e delle donne criminali, nonché al mancinismo. Non sorprende che egli sposi alcune tra le teorie più diffuse sin dalla fine del XIX secolo, mentre il rifiuto del meticciato italo-etiope, argomentato con tanti distinguo non certo ineccepibili, suggerisce uno sforzo volto a contenere la valanga ormai prossima a colpire anche la sua famiglia. Di lì a due anni sarebbero arrivate le Leggi razziali, anticipate dal noto Manifesto della razza e testate proprio in Etiopia, con i provvedimenti del 1937 contro il madamato e il meticciato. Leone Giuseppe Armocida perse la cattedra pavese e fu costretto a migrare in Argentina per scampare alla sorte che interessò il suo quasi omonimo, Leone Davide Lattes, a cui è dedicata a Torino una pietra d’inciampo. Tornò in Italia nel 1948, riprendendo la sua docenza nell’ateneo pavese, e proseguì le sue ricerche fino al 1954, distinguendosi nel campo della sierologia. La vicenda sembra un triste esempio della nemesi storica che interessò molti italiani nella fase d’ascesa del fascismo e offre un’efficace fotografia del momento storico in cui doti intellettuali e deformazioni interpretative potevano coesistere nella stessa persona.

Dall’antropologia ottocentesca alle persecuzioni razziali nazifasciste

L’articolo si conclude con un auspicio in linea con il clima del momento «Provvida vis medicatrix naturae, la quale senza alcun dubbio sarà favorita e potenziata dal costume fascista, e dalle leggi che la sapienza romana saprà dare al conquistato impero». Il perentorio entusiasmo testimonia proprio il passaggio dalla generica temperie pre-politica, segnata da un razzismo bioantropologico largamente condiviso in tutte le società avanzate, alla prospettiva ideologica che originò la deriva legislativa: e tale deriva, come si accennava, colpì in prima istanza, e sin dal 1937, l’Africa Orientale Italiana.

Il debito nei confronti del darwinismo sociale di matrice conservatrice (allineato al pensiero del cugino di Darwin, Francis Galton) è stato esplorato de Giovanni De Martis[1], storico e fondatore, nel 2002, dell’Associazione di studi storici “Olokaustos”. Nello scritto Dalle Samoa ad Auschwitz. Dal razzismo umanitario al razzismo biologico (in “Quaderni di Olokaustos”, n. 1 – 2005, pp.133-175) De Martis osserva come nazismo e fascismo abbiano ricavato dall’esperienza coloniale, inaugurata dall’imperialismo ottocentesco, una sorta di palestra per la deriva totalitaria più rigida e cruenta: le Samoa tedesche furono, non meno dell’Etiopia italiana, lo spazio laboratoriale in cui si evidenziò la modificazione del pensiero razzista e la sua rapida traslazione verso una sempre maggiore rigidità. Quell’imperialismo fondava la sua legittimazione proprio sulla visione scientifica che assegnava ai coloni una condizione razziale privilegiata.

Il riferimento a John Burdon Sanderson Haldane, il genetista inglese che elaborò una teoria matematica applicata alla selezione, introduce sin dai primi paragrafi il coté culturale di Leone Lattes. Gli antesignani inglesi si uniscono al prozio positivista, da cui il giovane Leone apprendeva lo studio antropometrico applicato all’anatomia forense e la scuola italiana a cui fanno capo anche altri scienziati citati nell’articolo: Giuseppe Sergi, antropologo messinese cui si deve una classificazione su base craniologica delle razze umane (soprattutto in L’uomo, secondo le origini, l’antichità, le variazioni e la distribuzione geografica, Torino 1911) ed Enrico Morselli, esponente di punta della scuola psichiatria antropologica, che nel 1912, di ritorno dal congresso internazionale di eugenica di Londra, in La psicologia etnica e la scienza eugenista (“Rivista di Sociologia”, 1912, 289-293), sposa pienamente l’idea di una gerarchia delle varietà e razze umane e proprio sulla presunzione di una precisa classificazione fonda il rifiuto del metamorfismo tra gruppi etnici. Secondo Morselli, il differenziamento dei popoli sarebbe tra le cause più importanti del progresso nell’evoluzione umana, e dunque ogni razza o popolazione o nazione avrebbe il dovere di preservare il proprio tipo etnico[2].

Il razzismo dunque non è stato una prerogativa del fascismo; tuttavia, all’ideologia del Ventennio va ascritta la responsabilità di avere, indipendentemente dall’alleato tedesco, radicalizzato un pregiudizio ammantato di razionalità e trasformato in azione legislativa (contro gli etiopi prima e gli ebrei poi) un sentire culturale largamente diffuso da diversi decenni. Le leggi razziali non furono un incidente di percorso, né la moneta di scambio per ’l’alleanza funesta con la Germania hitleriana, ma la perfetta espressione di una linea politica precisa, che, con molta più spregiudicatezza che in passato, ha usato la scienza per legittimare un’autocratica volontà imperialista.

Intersezioni: di razza e di sesso

A quanto detto andrà aggiunto un secondo elemento di riflessione, osservando come spesso la teoria della razza incroci il discorso sui sessi: nelle parole di Lattes il maschio italico, sia esso soldato o borghese, è associato ad attributi di gioventù, robustezza e prepotente istinto sessuale, mentre la donna etiope, che lo esporrebbe a rischi di degenerazione della stirpe (per via degli indesiderabili meticci), è nascosta da espressioni asettiche come elemento femminile locale. E, in relazione ai caratteri somatici peculiari del popolo d’Etiopia, si parla delle donne locali come dei prodotti migliori, dotati di spiccate attrattive estetiche e sessuali. Nessuna possibilità di empatia dunque, tanto meno per la prole inopinata: dei meticci si auspica anzi che siano abbandonati a sé stessi, così da non dar luogo a una razza meticcia permanente.

La rappresentazione femminile non è meno stereotipata quando l’autore prende in esame la possibile soluzione al problema, ossia l’invio di donne bianche nelle colonie di popolamento:

In linea storica il problema non può risolversi che in un solo modo, promuovendo la colonizzazione mediante famiglie italiane; poiché proprio al coraggio della donna italiana, alla sua devozione verso il suo sposo trapiantato, alla sua costanza di allevatrice di nuove e sane generazioni, è affidata una seconda vittoria che seguirà la fulgida vittoria delle armi: quella etnografica e demografica, per cui l’impero diventerà veramente l’impero del popolo italiano.

Abbiamo dunque maschi robusti trapiantati e mogli/madri coraggiose e devote allo sposo e alla prole (va da sé, forte e sana) perché occorre che la conquista etnografica e demografica suggelli quella militare. Si riconoscerà in questo assunto un leit motiv dell’immaginario e del discorso pubblico, che ha attraversato le generazioni per poi ritornare ancora oggi (nella stessa matrice, nonostante l’apparente mutazione di segno) ogni volta che si paventa l’idea di una “sostituzione etnica” a opera di stranieri. La storia però insegna che, se mai una sostituzione fu immaginata, fu proprio quella ad opera dei bianchi italici, che puntavano a fare del Corno d’Africa un’estensione della patria lunga e stretta, insufficiente alle esigenze di un popolo virilmente “proletario”. Coerentemente con quest’idea, l’articolo pone al centro della questione il discorso sul colore.

Al razzismo cromatico Federico Faloppa ha dedicato un saggio eloquente sin dal titolo, che riproduce un’espressione proverbiale diffusa in Italia sin dall’epoca medievale, Sbiancare un etiope (Utet, Torino 2022). Anche per Lattes il colore è il dato cruciale, e forse egli immagina che a quello possa fermarsi la distinzione razziale (di ebrei qui non si parla). Sappiamo però che in quegli anni esisteva una più ampia gerarchia del colore, e che di dubbia bianchezza erano considerati anche gli immigrati italiani approdati ad Ellis Island, in particolare i meridionali, segnati anche in Italia da pregiudizi lombrosiani[3].

Un esempio di public history: la riflessione multidisciplinare tra storia e letteratura

Nella sua brevità, il pezzo di Lattes è un perfetto saggio di come la presunta neutralità della scienza sia una stella polare a cui tendere, con metodo e onestà intellettuale, piuttosto che una certezza da cui partire. Gioverà agli studenti, per quest’ordine di riflessioni, l’applicazione diretta sulle fonti storiche come quella illustrata; tuttavia, da letterata, vorrei chiamare in causa Primo Levi, il più titolato dei nostri scrittori, perché fu scienziato e sperimentò l’inferno concentrazionario che pure è esempio di una scienza (male) applicata.

Primo Levi e Sandro Delmastro.

Levi ci offre una diversa idea di scienza nel bellissimo racconto Ferro (Il sistema periodico, 1975) che ricorda l’amicizia con il compagno d’università Sandro Delmastro, «il primo caduto del Comando Militare Piemontese del Partito d’Azione», nell’aprile del 1944. Nel ricordo sopravvive intatta la fiducia nella scienza che segnò quei primi anni universitari:

Incominciammo a studiare fisica insieme, e Sandro fu stupito quando cercai di spiegargli alcune delle idee che a quel tempo confusamente coltivavo. Che la nobiltà dell’Uomo, acquisita in cento secoli di prove e di errori, era consistita nel farsi signore della materia, e che io mi ero iscritto a Chimica perché a questa nobiltà mi volevo mantenere fedele. Che vincere la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere l’universo e noi stessi: e che quindi il Sistema Periodico di Mendeleev, che proprio in quelle settimane imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, più alta e più solenne di tutte le poesie digerite in liceo: a pensarci bene, aveva perfino le rime! […] E infine, e fondamentalmente: lui, ragazzo onesto ed aperto, non sentiva il puzzo delle verità fasciste che ammorbava il cielo, non percepiva come un’ignominia che ad un uomo pensante venisse richiesto di credere senza pensare? Non provava ribrezzo per tutti i dogmi, per tutte le affermazioni non dimostrate, per tutti gli imperativi? Lo provava: ed allora, come poteva non sentire nel nostro studio una dignità e una maestà nuove, come poteva ignorare che la chimica e la fisica di cui ci nutrivamo, oltre che alimenti di per sé vitali, erano l’antidoto al fascismo che lui ed io cercavamo, perché erano chiare e distinte e ad ogni passo verificabili, e non tessuti di menzogne e di vanità, come la radio e i giornali?

Il racconto testimonia il sentire del giovane Levi, descritto prima di scoprire la scienza alleata di progetti spaventosi, dallo sterminio nazista alla bomba atomica, e dunque ancora fiducioso nel monito dell’Ulisse dantesco «fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». Non v’è traccia del pessimismo che si coglie invece nella poesia Sidereus nuncius (Ad ora incerta, Einaudi, Torino 1984), nella quale l’io lirico, scrittore e scienziato, trincera sé stesso sotto la maschera di un malinconico Galileo, quasi pentito della propria deriva prometeica.

Ho visto Venere bicorne
Navigare soave nel sereno.
Ho visto valli e monti sulla Luna
E Saturno trigemino
Io Galileo, primo fra gli umani;                                            5
Quattro stelle aggirarsi intorno a Giove,
E la Via Lattea scindersi
In legioni infinite di mondi nuovi.
Ho visto, non creduto, macchie presaghe
Inquinare la faccia del Sole.                                                 10
Quest’occhiale l’ho costruito io,
Uomo dotto ma di mani sagaci:
Io ne ho pulito i vetri, io l’ho puntato al Cielo
Come si punterebbe una bombarda.
Io sono stato che ho sfondato il Cielo                                               15
Prima che il Sole mi bruciasse gli occhi.
Prima che il Sole mi bruciasse gli occhi
Ho dovuto piegarmi a dire
Che non vedevo quello che vedevo.
Colui che m’ha avvinto alla terra                                         20
Non scatenava terremoti né folgori,
Era di voce dimessa e piana,
Aveva la faccia di ognuno.
L’avvoltoio che mi rode ogni sera
Ha la faccia di ognuno.                                                         25

Chi è questo Galileo postmoderno? Qual è il potere che lo ha avvinto con voce dimessa e piana, con la faccia di ognuno? E, a volerlo ascoltare, quali antidoti adottare per dare un peso stabile in ogni tempo al prezioso binomio di virtù e conoscenza? Sono domande che potrebbero trovare pratica applicazione in un dibattito in classe sulla neutralità della scienza.

Le testimonianze di cui si è parlato dicono in fondo che la scienza al pari di ogni altro prodotto dell’ingegno umano non è mai neutrale, perché gli scienziati si muovono in un tempo storico preciso e perché ciò che studiano è destinato a performare la realtà in cui vivono e quella di coloro che verranno. Allora non sarà mai abbastanza ascoltato il monito che ci arriva dagli errori del passato, e questo è proprio uno dei compiti che affidiamo alla didattica della storia.


Note

[1] De Martis è stato consulente e revisore storico per Marco Paolini, coautore ufficiale dello stesso per l’opera Ausmerzen, la pièce incentrata sull’eugenetica nazista che diede luogo a “Operation T4”; lo spettacolo ispirò anche una mostra itinerante dal titolo Eutanasia. Sterminate i disabili!, prefazione a Il genocidio. Declinazioni e risposte di inizio secolo, a c. di Lauso Zagato e Laura Candlotto, Giappichelli Editore, 2018, pp. XX-XXII).

[2]Si veda anche per l’ampia digressione su Morselli: “A better and more perfect humanity”. The italian eugenicists and the First International Eugenics Congress (London, 1912), in «Asclepio. Revista de Historia de la Medicina y de la Ciencia», 74 (2), julio-diciembre 2022, 613 (qui nella traduzione italiana https://asclepio.revistas.csic.es/index.php/asclepio/article/view/1149/1993).

[3] B. Staples, How Italians became white, «New York Times», consultabile all’indirizzo https://www.nytimes.com/interactive/2019/10/12/opinion/columbus-day-italian-american-racism.html?searchResultPosition=1).

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Elena Rausa

Docente di Lettere nei Licei e Dottoressa di Ricerca in Italianistica. Ha pubblicato tre romanzi: “Le invisibili” (Neri Pozza, dal 9 febbraio 2024), “Ognuno riconosce i suoi” (Neri Pozza, 2018), “Marta nella corrente” (Neri Pozza, 2014).

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