Pensieri lineari

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Dalla finta “Storia dell’assedio di Lisbona” si fa strada una riflessione tutt’altro che lineare. Nel Jardim dos catos bolle, nodi, linee e intrecci mettono in comunicazione umani e non-umani verso nuovi modi di pensare e vivere insieme. 

Il nodo di una centralinista

Chiedo perdono in anticipo, poiché di lineare in questi pensieri v’è ben poco. Perlomeno non nel significato che abitualmente attribuiamo a un simile aggettivo. Si scorge a malapena un rapporto di causalità, una logica fluida, uno scorrere ininterrotto e sciolto. Più che di una superficie liscia, l’immagine che le riflessioni ci propongono è quella di una porosità, ruvidità e alternanza di dislivelli. Prendono forma nella mente sagome disomogenee di cime, declivi, improvvise depressioni e sobbalzi in un terreno accidentato. Si tratta più precisamente di un amalgama di pensieri, un reticolo e una matassa il cui capo e termine non si trovano nemmeno mettendovi le mani per districare il groviglio. Per questo il titolo è proposto al plurale. Per poter asserire di avervi avvertiti e non ingannati, poiché non si preannunciava un unico, singolo pensiero imbellettato e pronto all’uso, ma una moltitudine confusa di ramificazioni che potrebbero portare a un nonnulla. O a qualcosa di inatteso e forse addirittura insperato a un primo sguardo.

La verità è che stavo trascorrendo in solitaria qualche decina di minuti su una panchina di legno, semplice e di vecchio stile, composta unicamente da due travi, una per la seduta e l’altra per poggiare la schiena, in uno dei viali di Parque Eduardo VII, il giardino che guarda dall’alto verso il basso la piazza Marques de Pombal, a Lisbona. Il parco, in salita o in discesa, a seconda di dove volgano i nostri piedi, poiché l’intenzione sarebbe sempre quella di scendere, almeno la mia, si trovava a pochi minuti da dove alloggiavo in un ottobre troppo, pericolosamente, caldo per mantenere fede alle proprie tradizioni e consuetudini. Che sembrava quasi che luglio e agosto avessero pensato di riprendersi la scena senza tanti complimenti.

Dunque stavo seduto sulla panchina, mentre alle mie spalle un folto gruppo di chiassosi pappagalli rumoreggiava con voci stridule, perché la bellezza delle linee e dei colori che li contraddistingue, occorre ammetterlo, non è pareggiata dal suono delle loro conversazioni. Il baccano proveniente dagli alberi disturbava – o accompagnava – a intermittenza la lettura che stavo compiendo: Storia dell’assedio di Lisbona, José Saramago. Il libro racconta la falsa storia dell’assedio con cui i portoghesi cinsero la città di Lisbona nel 1147, al tempo occupata dai mori, e del rapporto tra il revisore Raimundo Benvindo Silva – maschio oltre la cinquantina, contemporaneamente autore della finta storia dell’assedio e indispettito per il doppio gerundio nel proprio nome – e Maria Sara, capo dei redattori della casa editrice per cui da tanti anni Raimundo lavora. Tempo fa mi ero riproposto, un po’ per suggestione e un po’ per inclinazione al romanzesco, che prima o poi sarei tornato a Lisbona e avrei passato del tempo a leggere un libro di Saramago lungo le sponde del fiume Tejo o in uno dei tanti parchi cittadini. Per questo le prime pagine sono scorse nei giardini tra il Mosteiro dos Jerónimos e il Tago, dopo essermi concesso una colazione a base di pasteis de nata, un cliché, ed è proseguita più di una volta nel parco sopracitato.

Prima che il gruppo di pappagalli volasse via al di sopra della mia testa, il chiasso da loro prodotto non ha impedito che una frase del testo catturasse la mia attenzione.

La centralinista disse, Le passo la comunicazione, è un annuncio abituale delle centraliniste, un luogo comune della professione, e tuttavia sono parole che promettono conseguenze, tanto nel bene quanto nel male, Le passo la comunicazione, ha detto la centralinista, indifferente al destino che si serve dei suoi servizi e non si accorge che sta dicendo, Sto per riunire, stringere, imprigionare, annodare, legare, fissare, unire, avvicinare, vincolare, associare, secondo lei si tratta soltanto di mettere in comunicazione due persone, ma perfino quel semplice gesto, osserviamolo noi, già porta con sé abbozzi più che sufficienti per non farcelo compiere con leggerezza. (Saramago, 2000)

Un mercato di pulci e bolle

Chiuso momentaneamente il libro in corrispondenza di uno dei timidi e sparuti punti che l’autore impiega notoriamente con parsimonia a comporre il testo, mi sono incamminato verso la Feira da ladra, un intrico di banchi, tavolini, accatastamenti e sedie su cui oggetti di ogni sorta tentano di catturare l’attenzione dei passanti. Il mercato delle pulci più celebre della capitale lusitana è una vera e propria esperienza sonora e visiva, ma anche un tuffo nel passato e nel bizzarro. Vecchi vinili, macchine fotografiche a pozzetto, videocassette e abiti vintage si mischiano vorticosamente a creazioni di artisti e artigiani. Un calderone di voci in subbuglio, di gomiti e spalle estranee che entrano in contatto, di lingue straniere che convergono in un’intesa di dialogo nel momento in cui ci si avvicina ai banconi con l’intenzione di acquistare. Il nostro schivo e abitualmente solitario revisore della Storia dell’assedio di Lisbona non so come avrebbe accolto una simile baraonda, una sovrapposizione tale di voci, mani, piedi, teste, idee, lingue, occhi, intenzioni, direzioni, rinunce ed esitazioni. Forse, in quanto revisore navigato, avrebbe colto ogni minimo particolare, i più insoliti dettagli dei poster di un Pessoa vestito di cappello e impermeabile, il cui profilo lascia intravedere sullo sfondo le etichette di ginjinha. E sebbene la carta in questione odori di carta, l’etichetta del liquore disegnata ne fa trasudare i sapori e i colori di amarene dolciastre. Oppure la ridondanza della folla per le strade lo avrebbe convinto a tornare sui propri passi e a voltare i piedi verso casa, passando per le sue vie preferite, evitando consapevolmente quelle che sa di apprezzare meno.

Qui, nel mercato delle pulci, tutto entra in contatto con tutti. Pare quasi una ricostruzione dell’assedio tra portoghesi e mori, autoctoni e stranieri si mischiano, incrociano e convergono, assaltano i banchi, per poi fare ritorno, a fine giornata, al proprio accampamento. Ecco la quiete anelata dopo la battaglia. Qui, per pochi istanti o per sempre, l’umanità viene messa in comunicazione, ma non solo quella presente, poiché attraverso gli oggetti sui banconi storie del passato fanno capolino e si proiettano verso ipotetici futuri. In questo punto, l’umanità e gli oggetti si riuniscono, stringono, imprigionano, annodano, legano, fissano, uniscono, avvicinano, vincolano, associano.

Gli azulejos, ornamenti delle strade portoghesi, sono l’esito in divenire di un intreccio di storie, culture e vite che continua da millenni. Il termine deriva dall’arabo “al-zulayj” che significa “piccola pietra levigata”. (Foto dell’autore)

A me pare, però, che questo continuo intrecciare e annodare non sia una prassi o un capriccio unicamente umano. Anzi, coinvolge tutto e tutti. Oltremodo mi sembra evidente che, benché si sia speso molto tempo a parlare di globalizzazione, reti, social media, mezzi di comunicazione e quant’altro, a teorizzare e concettualizzare, le azioni – forse in barba alle parole spese e alle intenzioni – si siano rivolte a slacciare, indebolire, sfibrare e slegare. Un processo di chiusura in sé stessi, di isolamento, di edificazione di bolle artificiali e virtuali impermeabili alla natura del reale e del naturale (scusate il gioco di parole) è stato messo in moto da tempo. O meglio, poiché di moti intesi come movimenti ve ne sono ben pochi, queste costruzioni impermeabili hanno favorito un certo immobilismo. E non parlo di persone, che con voli low cost tendono a muoversi con maggiore costanza e ampiezza rispetto al passato, ma di idee, pensieri, vite, intenzioni, sogni e salti di immaginazione. In un’epoca in cui tutto entra in contatto con tutto con un solo click, scorgo una certa refrattarietà alla reale ed effettiva comunione. Tutto e tutti rimangono appesi a un velo di ostentata apparenza, che in quanto tale solo in maniera superficiale sembra mettere in comunicazione. Immobili, salde al proprio posto, le bolle hanno perso le linee di movimento che si dipanano dai propri corpi. Masse inerti, imbrigliate o impantanate, attivano i sensi a trecentosessanta gradi in cerca di un appiglio che faticano a individuare.

Ora, che questo entrare in comunicazione non debba essere preso alla leggera, come ci insegna Raimundo Benvindo Silva, mi pare sintomo di saggezza, tanto siamo allarmati dalle molteplici e sfaccettate conseguenze che ne potrebbero derivare. Poiché nessuno vorrebbe trovarsi annodato, associato, vincolato e fissato a qualcosa o qualcuno che non si desidera, ma mi sembra anche che, con le dovute precauzioni, questo entrare in comunicazione, annodare e produrre linee di movimento sia la premessa fondante la vita. Nulla può sussistere a lungo slegato, slacciato, disunito da tutto e tutti. Anzi, sovente questo entrare in comunicazione ha portato qualche soddisfacente vantaggio.

In una volta di linee

Nei giorni che hanno preceduto il vagabondaggio alla Feira da Ladra, mi sono recato in visita al Jardim botânico tropical di Lisbona. Vi ero già stato qualche anno prima, si tratta di un luogo di quiete e meraviglia. Ho notato con piacere che gli alberi si erano mantenuti in salute, così come il numero di pavoni era decisamente aumentato. All’interno del giardino tropicale si trova un luogo che l’ultima volta era sfuggito alle mie attenzioni, il Jardim dos catos. Qui una collezione di cactacee e altre succulente crescono in orizzontale lungo la superficie del terreno e in verticale, penetrando nel suolo e arrampicandosi su tronchi e rami di alberi di latifoglie. Il paesaggio e lo spettacolo che emergono sono unici. Una volta naturale e vivente di linee e nodi, di reti spinose, sinuose e legnose, di rami, tronchi, foglie e radici. Una stanza che respira, fatta di pareti e soffitti intrecciati, di materiale in movimento e in divenire che affonda le proprie estremità nella terra e nel cielo. Linee e filamenti che si allacciano e si legano gli uni agli altri per sostenersi, per catturare la luce e crescere. Una volta sacra, vegetale, che si muove e comunica, in un campo di esperienza condivisa.

Il Jardim dos catos di Lisbona. Linee umane e non-umane si annodano in movimenti continui. Veduta laterale (foto dell’autore).

Qui, in un giardino di cactus della città di Lisbona, sono forse entrato in contatto e ho fatto esperienza di quel fenomeno che l’antropologo Tim Ingold descrive come il continuo tentativo dei viventi di aggrapparsi gli uni agli altri, di produrre linee che si intrecciano con altre linee (Ingold, 2020). Un fenomeno e un’intenzione che sarebbero alla base della vita e divengono oggetto di una nuova e provocatoria disciplina che è la linealogia. Una disciplina che, in verità, sarebbe propria di chiunque abbia mai vissuto.

Come vi preannunciavo, questi pensieri sono lineari non per la sequenzialità o causalità che faticano a srotolare nel farsi del discorso, ma in quanto raccontano di linee di vita, di azioni e di pensiero. Linee e nodi che sono immagini di un nuovo modo di pensare e di vivere insieme.

Hylocereus undatus (Pitaya) è una pianta che rientra nell’ampia famiglia delle Cactaceae. Cresce fino a otto metri di altezza e le sue diramazioni carnose tipiche di una pianta succulenta si inerpicano dal suolo ombroso verso il cielo, lungo altre linee che fungono da appiglio, quelle di Enterolobium contortisiliquum e Tipuana tipu. Intanto lo spinoso Cereus uruguayanus sonda l’intorno, i suoi fusti crescono con movenze da danzatore nell’intrico di rami e spine, con-divenendo insieme agli abitanti del giardino. Il paesaggio che si forma è una corrispondenza di movimenti e intenzioni, di bolle e linee, di volumi, masse, tensioni e vita. Piante che comunicano con altre piante, ma non solo. È un vortice di sinuosità, contorsioni e annodature tra vegetale e animale, suolo e cielo, terra e aria, umano e non-umano. Uno spazio in cui l’esito non è mai raggiunto, poiché non vi è fissità e immobilismo, tutto e tutti sono in costante divenire perché esiste il movimento, alla continua ricerca di una linea da produrre, di un appiglio a cui aggrapparsi, di un nodo da stringere. È in quanto persiste questo slancio e tensione relazionale che esiste la vita. Il Jardim dos catos è un luogo in cui umani e non-umani si intrecciano e in cui la vita si esprime nella maniera in cui la descrive Tim Ingold, come una combinazione di bolle e linee:

le bolle hanno volume, massa, densità: ci forniscono materiali. Le linee non hanno nulla di tutto questo. Ciò che hanno, a differenza delle bolle, è la capacità di torcersi e flettersi, unita alla vivacità. Ci danno vita. La vita è iniziata quando le linee hanno cominciato a emergere e a sfuggire al monopolio delle bolle. (Ingold, 2020) 

Possiamo ben comprendere come ridurre il mondo a un’operazione per somma o sottrazione di singole bolle, slegate tra loro, immobili e atomizzate, prive della capacità di spostarsi, comunicare e muoversi, considerate unicamente per le qualità e caratteristiche di cui dispongono in forma individuale, non possa restituirci la complessità e il funzionamento della vita. Per questo lasciare spazio al movimento, ossia alla capacità di divenire e di produrre linee di incontro, diventa fondamentale nell’epoca in cui viviamo e che contribuiamo a forgiare. Comprendere i modi grazie ai quali comunicare con gli altri, umani e non, così come imparare come pensano e si relazionano tra loro alberi, animali, batteri, virus, montagne, nuvole, fiumi, mari e qualsiasi bolla capace di produrre linee in questo mondo, diventa di primaria importanza. Non esiste vita se non c’è movimento, che non significa capacità di spostarsi – poiché si potrebbe essere tentati di supporre che, dal momento che le piante non si spostano esse non siano vive – ma mi riferisco alla possibilità e alla tensione che mira a legare, annodare, vincolare, unire, associare gli uni agli altri. Insomma a tutte quelle pratiche che il revisore del finto assedio di Lisbona enumerava e inglobava nell’azione della centralinista lusitana di mettere in comunicazione e che appartengono a tutti gli esseri viventi, elementi naturali e oggetti in grado di mettere in atto questa “produzione lineare”.

Jardim dos catos, Lisbona. Veduta dal basso (foto dell’autore).

Pensieri di una rosa

Il giardino dei cactus di Lisbona non è uno spazio naturale, inteso come un luogo esente dall’intervento umano, ma è una commistione di bolle e linee, di movimento e nodi, in cui sono coinvolti tanto le piante, quanto il suolo a cui le radici si aggrappano e da cui traggono nutrimento, il cielo attraverso cui le succulente e le fabacee crescono e si modificano, gli animali che vi abitano e interagiscono, e gli esseri umani che curano – nel significato di porre attenzione, ma anche di aiutare – le piante nel loro divenire. Sarebbe, però, pretenziosamente antropocentrico affermare che solo gli esseri umani curino il Jardim dos catos e siano artefici dei suoi mutamenti. Se sostenessimo ciò, tradiremmo tutto ciò che abbiamo detto fin qui. Il giardino in questione, come in realtà accade in molti giardini, è un vortice reticolare (un meshwork lo definirebbe forse Ingold) in cui tutti comunicano con tutti, in cui le linee si stringono vicendevolmente e producono musiche e danze di corrispondenza. Tutto è modificato da tutti e viceversa. Gli umani, così come gli animali, le piante, il suolo e cielo con-divengono all’interno di questa relazione. Si tratta di una danza, così come è la vita, di un costante divenire. Si faticherebbe a stabilire, se mai ce ne fosse bisogno, riprendendo la scena della centralinista della Storia dell’assedio di Lisbona, chi tra tutti questi attori del giardino dei cactus ricopra proprio il ruolo di centralinista. Ovvero chi sia l’artefice, il demiurgo, il burattinaio addetto al compito di mettere in comunicazione. Probabilmente tutti adempiono a turno a questo onore e onere, coinvolti costantemente in un interscambio di responsabilità e iniziative. Del resto non intendo sminuire il ruolo di noi esseri umani, come accaduto in molti luoghi la presenza umana non deve essere percepita come ostacolo alla vita e alla sua prosperità (vedi le popolazioni autoctone dell’Amazzonia). Il processo che alcuni di noi stanno cercando di compiere è, piuttosto, quello di reintrodurre l’umano all’interno dell’equazione e ricondurlo nel mondo naturale. Corpo e mente, mani e piedi, occhi e lingua devono tornare a vivere nella terra e nell’aria, con essi e insieme agli altri esseri viventi. Serve instaurare un dialogo, reintrodurre quel movimento che è andato perso a favore di un intorpidimento dei sensi e dello spirito e mettere in comunicazione ciò che oggi appare slegato, nonostante l’agitazione che noi, così come Raimundo Benvindo Silva, potremmo provare nel momento in cui stiamo per essere messi in contatto. Come affermano Eduardo Kohn e il leader sapara Manari Ushigua, il dialogo è una medicina che ci offriamo a vicenda in un mondo caratterizzato da crisi e frammentazioni di ogni sorta; un tempo, l’Antropocene, in cui occorre giungere a nuovi modi di pensare e vivere. Pensare «con i concetti che nascono dal mondo vivente», per esempio dalla foresta, prestando «attenzione alle singolari proprietà e qualità della vita stessa per trovarvi un modo di vivere bene» (Kohn, 2021).

Concludo queste riflessioni caotiche riportando ancora una volta un estratto da Tim Ingold, per tentare di dare maggiore “linearità” a questi pensieri.

La verità è che, in un mondo più-che-umano, nulla è isolato. Gli umani possono condividere questo mondo con i non-umani ma, per lo stesso motivo, le pietre lo condividono con le non-pietre, gli alberi con i non-alberi e le montagne con le non-montagne. Tuttavia, non si può accertare in modo definitivo dove finisca la pietra e dove cominci il suo contrario. Lo stesso dicasi per l’albero, per la montagna e anche per l’umano. È una condizione della vita: tutto filtra e nulla è chiuso in sé. Ovviamente, le cose si possono distinguere. Chiedetemi di indicare un altro essere umano, una pietra, un albero o una montagna e lo farò senza difficoltà. Ma ciò che indico è un’entità che non è affatto contenuta in sé stessa. La mia attenzione, piuttosto, si dirige in un luogo dal quale vedo accadere qualcosa, un movimento che si riversa nel suo ambiente circostante, me incluso. Vedo la pietra nel suo pietreggiare, l’albero nella sua arborescenza, la montagna nel suo innalzarsi e discendere. Anche un mio simile umano lo vedo nel suo umanare.  Dovremmo usare verbi al posto di nomi per chiamare le cose: “pietreggiare”, “alberare”, “montanare”, “umanare”. (Ingold, 2021)

Verbi, nel loro divenire, nell’atto di produrre linee di incontro e scontro, coinvolti in un continuo movimento. Verbi aperti a ciò che verrà, all’esperienza in comune, a un dialogo che mette in comunicazione. Quando Raiumundo Silva, il revisore lusitano, scorge la rosa sulla scrivania di Maria Sara, un pensiero si forma e prende a muoversi nella propria mente: «non sono soltanto le persone a non sapere per che cosa sono nate». Forse non il fine o la motivazione, ma l’atto che suggella una comunanza tra Raimundo Silva, Maria Sara e la rosa è proprio quello di entrare in comunicazione, nel momento in cui essi si percepiscono bolle che mutano in linee e si stringono in nodi di relazione.


BIBLIOGRAFIA

T. Ingold, Siamo linee. Per un’ecologia delle relazioni sociali, trad. it. D. Cavallini, Treccani, Roma 2020.

T. Ingold, Corrispondenze, trad. it. N. Perullo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2021.

E. Kohn, Come pensano le foreste, trad. it. A. Lucera, A. Palmieri, Nottetempo, Milano 2021.

J. Saramago, Storia dell’assedio di Lisbona, trad. it. RCS libri s.p.a., Einaudi, Torino 2000.

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Andrea Nocera

è laureato in Storia e in Antropologia. Negli ultimi anni, anche grazie al Master “Futuro Vegetale”, si è avvicinato al mondo delle piante, da cui trae ispirazione per indagare i rapporti umano-non umano e immaginare modi di abitare più integrati.

Oggi lavora nel gruppo di ricerca della Fondazione Futuro delle Città di Firenze, collabora come autore e revisore di testi per Lœscher Editore e altre case editrici ed è co-fondatore dell’Associazione Fungi CollectIF.

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