Buzzati e l’intelligenza artificiale

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Immaginari cibernetici e profezie distopiche de “Il grande ritratto”. Dal numero 25 de La ricerca, “Uomini e bot”.

Confesso che, quando lo scorso anno, sotto la spinta di ChatGPT, l’intelligenza artificiale è entrata nelle discussioni in sala professori, accanto a qualche timore che mi ha fatto sentire molto vecchia e molto saggia, ho riscoperto la frizzante curiosità di chi è stato giovane tra gli Ottanta e i Novanta e con le distopie tecnologiche, letterarie e cinematografiche, ha riempito più di qualche pomeriggio. A dirla tutta, sono anche figlia di un sistemista e di una impiegata IBM (quasi un racconto da Amori difficili di Calvino), ho imparato l’alfabeto su quello che restava dei rotoli tabulati e ho sentito parlare di Adriano Olivetti molto prima di poterne leggere il ritratto di Natalia Ginzburg. Insomma: un po’ temo e un po’ mi diverto; mi resta l’irriducibile idea che difficilmente le cose sono tutte bianche o tutte nere e penso che, poiché nihil sub sole novum, anche quando il nuovo arriva, il passato offra al presente la lente per leggerlo. In questo caso, ruberò a Buzzati un paio di occhiali.

Silvio Ceccato e l’Adamo II

Tra il 1959 e il 1960, per i tipi del Saggiatore e su iniziativa di Alberto Mondadori, escono i dieci volumi di Enciclopedia della civiltà atomica, opera destinata a un pubblico che si interessa di scienza, filosofia e matematica, e orientata a costruire una sorta di umanesimo scientifico. Il progetto è in linea con i tempi: dal 1953 l’ingegnere scrittore Leonardo Sinisgalli dirige la rivista «Civiltà delle macchine» (finanziata da Finmeccanica-IRI), che muove nella medesima direzione, cioè quella di un dialogo multidisciplinare e politecnico per abbattere le barriere che tradizionalmente separano la conoscenza tecnico-scientifica e le arti. Nei pochi anni che vanno dalla prima uscita della rivista ai dieci volumi enciclopedici, però, sono accadute molte cose: non soltanto l’Italia ha conosciuto la parola “cibernetica”, termine formulato per la prima volta dall’antesignano della disciplina, il matematico statunitense Norbert Wiener, ma, al Congresso mondiale per l’automatismo (a Milano, tra l’8 e il 13 aprile 1956), il filosofo Silvio Ceccato ha reso pubblico il progetto di una macchina “mentale”, capace di riprodurre il pensiero umano: la macchina ha un nome eloquente, suggerito proprio da Sinisgalli, e cioè Adamo II. Questo prototipo – definito dal suo creatore “un frammento del cervello di Adamo” – diventa così l’attrazione principale della mostra parallela al congresso, ospitata nelle sale del Museo della Scienza e della Tecnica e inaugurata dal presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi.

Immagine creata con Midjourney.

Oggi l’Adamo II non esiste più, se non nelle foto e nei disegni del progettista, ma l’avventura della sua costruzione e l’accoglienza che essa incontrò sono felicemente raccontati dallo stesso Ceccato in una memoria pubblicata sulla rivista «TYS – Philosophy and social criticism»1 dalla quale scopriamo che l’esposizione della macchina al pubblico ha incontrato qualche ostacolo per il clamore suscitato da alcuni articoli anticipatori; uno di questi, pubblicato sul «Corriere della sera», portava la firma di Dino Buzzati.

L’amicizia tra Buzzati e Silvio Ceccato ha un tramite nel fratello dello scrittore, Adriano Buzzati-Traverso, genetista di fama. I due scienziati si sono conosciuti pubblicando i propri studi sulla stessa rivista («Analisi»), proprio negli anni in cui, oltre oceano, Norbert Wiener inaugurava le sue ricerche sulla cibernetica. Come già Wiener, anche Ceccato fonda la sua ricerca sull’ipotesi di una possibile analogia tra i meccanismi di regolazione delle macchine e quelli del pensiero umano, entrambi fondati su processi di comunicazione e di analisi di informazioni. Lo scrittore bellunese avverte subito le implicazioni del progetto: non si tratta soltanto di studiare e progettare sistemi automatici capaci di sostituirsi all’uomo nel controllo e nella gestione di impianti di automazione, ma anche di approfondire, proprio attraverso le macchine, determinate funzioni fisiologiche del cervello, e ciò significa anche considerare i processi di pensiero umano non più come astrazioni spirituali, ma come fenomeni perfettamente conoscibili e potenzialmente riproducibili.

Buzzati e il Sesamo apriti del pensiero artificiale

Ed eccoci al 1959 e all’ottavo volume dell’Enciclopedia della civiltà atomica, “Cibernetica e cervelli giganti”: tra i contributi d’autore, si contano quattro pagine commissionate a Buzzati dall’editore in persona, che si aspetta una riflessione sull’invenzione dell’Adamo II. Il contributo, che inaugura la sezione del volume intitolata “Macchine per pensare”, è stato ripubblicato da Fabio Atzori in «Quel giorno anche la macchina dirà: “Cogito ergo sum”». Buzzati e l’Enciclopedia della civiltà atomica2. Delle tre direzioni che in quegli anni impegnano i pionieri della scienza – l’estremamente piccolo atomico, l’estremamente grande spaziale e l’estremamente sottile del pensiero –, allo scrittore bellunese interessa la via in cui confluiscono «gli sforzi per realizzare meccanicamente ciò che finora ha fatto la nostra materia grigia», ossia pensare.

Domanda:

Questa attività suprema dell’uomo, considerata essenza pura e inafferrabile, è proprio detto che sia un’attività astratta, completamente diversa dagli altri fenomeni e sottratta a ogni possibilità di imitazione?

In quegli anni nei Paesi più avanzati già si ipotizzano macchine capaci di traduzioni testuali «ad sensum e non ad litteram», operazione ambiziosissima perché «le possibili frasi ottenute combinando tra loro i vocaboli di una lingua sono miliardi» e non essendo possibile «introdurle» nella macchina, occorre necessariamente addestrare la macchina a seguire, traducendo, la via che segue il cervello umano, che è propriamente il pensiero.

Ma è immaginabile che la macchina riesca a ripetere ciò che fanno i neuroni nel nostro cranio? […] il pensiero è qualcosa di irraggiungibile, completamente diverso da tutti gli altri ordini fenomenici, oppure è, nella sua determinazione iniziale, un fatto fisico come tutti gli altri e perciò riproducibile?

Sono domande a cui è tuttora difficile rispondere, ma Buzzati attribuisce alla ricerca cibernetica la scoperta, almeno teorica, della «chiave per entrare nella cittadella misteriosa». Poco importa che la prima applicazione sia rivolta al campo ristretto della traduzione (archeologia di sistemi come Deepl), perché ciò a cui si sta lavorando è anche

una macchina capace di riassumere in poche cartelle il contenuto di un libro, cosa che anche per l’uomo colto rappresenta una delle più faticose attività mentali. E si sta progettando una macchina che, alla presenza di una scena qualsiasi, sappia descriverla esattamente come farebbe un attentissimo cronista.

ChatGPT è lungi da venire (e nessuno scrittore ancora pensa di tutelare la propria arte con l’avvertenza che nessuna forma di intelligenza artificiale è stata impiegata nella creazione della sua opera!), ma lo sguardo dello scrittore corre avanti, verso scenari ancora più fantastici di quelli sognati da Huxley e da Orwell. Immagina che le macchine possano essere dotate di sensi e reagire all’ambiente esterno come esseri umani, attribuisce a questi organismi meccanici persino la facoltà di superare il cervello. Probabilmente questo non basta perché si possa parlare di un’intelligenza paragonabile alla nostra, dato che

Ciò che comunemente si intende per intelligenza ha bisogno, per sussistere, di un minimo di autonomia, di libertà.

Tuttavia,

se la macchina avrà capacità speculative come noi, percezioni come noi, reazioni come noi – questione, forse, soltanto di tempo, di fatica, di soldi – può darsi si realizzi in lei automaticamente non solo quel prodotto famoso, quella essenza impalpabile che si chiama pensiero, ma anche la sua individuazione personale, la permanenza dei caratteri, quel tumore fatto d’aria che però talora ci pesa addosso come piombo, la cosiddetta anima insomma. Che importa se l’involucro, invece che di carne, fosse fatto di metallo e materie plastiche? […] Quel giorno anche la macchina dirà: “Cogito ergo sum”.

Buzzati è un intellettuale curioso e aperto al progresso, ma anche saturnino, e con un profondo senso del tragico: non può evitare di porsi domande che vanno al di là del suo tempo:

Arriverà anche il momento in cui il pensiero dell’automa, per la sua stessa immensa complessità, sfuggirà ai nostri comandi e farà da sé: a questo punto la vittoria sarà totale; perché la macchina avrà acquistato libertà e coscienza. E dopo? Che farà l’uomo al cospetto di organismi artificiali più intelligenti di lui, coscienti e liberi come lui? Non gli converrà affidare loro le attività direttive o addirittura il governo dei paesi? Nelle schede elettorali, allora, non figureranno più i nomi dei candidati o di partiti, bensì le sigle di questa o quella macchina pensante. E avremo per presidente del consiglio un immenso apparato, vasto forse come una delle nostre attuali città, dalle cui ronzanti viscere elettroniche usciranno le leggi più benefiche e sapienti.

Il grande ritratto: un Buzzati distopico e molto attuale

Il pezzo di cui si è detto precede di almeno 8 anni l’uscita del film 2001-Odissea nello spazio, ma l’immaginario distopico è già in queste righe e anche nel breve romanzo che in alcuni passaggi riprendono il testo alla lettera. Il grande ritratto viene pubblicato nell’agosto del 1960, ma è già uscito a puntate sul settimanale “Oggi”, tra luglio e agosto 1959, con il titolo iniziale di Il grande incantesimo. Al centro della narrazione è una macchina femmina, la Numero Uno, progettata e costruita dallo scienziato Endriade. Lo studio della macchina, ufficialmente costruita con scopi militari e dunque in gran segreto, tra montagne che ricordano la terra d’origine dello scrittore (e pittore) bellunese, coinvolge alcuni importanti scienziati italiani, attratti dalla retribuzione e dalla curiosità per una ricerca che resta ignota fino al loro arrivo nella zona militare, dove sono vincolati a una permanenza di almeno due anni senza possibilità di uscire o comunicare con il mondo esterno. Il mistero si svela loro a poco a poco, per progressive indiscrezioni del collega scienziato Strobele e del capo delle ricerche e ideatore dell’enorme computer capace non solo di compiere calcoli complessi, ma anche di replicare la coscienza di un essere umano.

Immagine creata con Midjourney: macchina per pensare.

La Numero Uno è in concreto una grandissima struttura con tubi e antenne che esplorano l’ambiente circostante e ascoltano i discorsi degli umani. Si esprime attraverso un linguaggio numerico che deve essere decriptato, ma emana un mormorio sommesso che turba profondamente chi ascolta e che in qualche modo ricorda una voce femminile. Endriade ha in effetti plasmato la personalità della macchina sul ricordo della defunta moglie Laura, morta durante una fuga in auto con il suo amante, e ne ha riprodotto il carattere e la personalità (difetti inclusi); si illude così di poterla riavere tutta per sé, in virtù della tecnica, finalmente a sua completa disposizione, data l’impossibilità di uscire dal corpo di cemento che ne imprigiona la coscienza. Endriade non sembra accorgersi di aver ricreato non già la donna che ha perduto, ma solo il grande ritratto della persona che era, né comprende la ribellione della macchina, nel momento in cui questa si accorge di essere soltanto mente, priva di un corpo carnale e dunque costretta a una vita che vita non è. «Ah il corpo, io non me lo sento più. Mi par di essere di pietra, lunga e dura, mi hanno messo una camicia di ferro, oh lasciatemi tornare a casa!»: Laura, scopertasi macchina, vorrebbe morire, ma anche quest’ultima libertà le è negata, così che, in un crescendo di tensione, progetta di uccidere tutti, affinché la sua pericolosità porti gli scienziati a distruggerla.

In Un autoritratto. Dialoghi con Yves Panafieu (Milano, Mondadori, 1973, p. 156) Buzzati definisce il suo romanzo cibernetico una «debole» prova letteraria, ma il lettore attuale può forse coglierne alcuni elementi di interessante attualità. Innanzitutto troviamo uno scrittore che anticipa di diversi anni gli immaginari distopici legati alla ribellione della macchina, e lo fa in ragione di una profonda connessione con quanto il suo tempo sta esprimendo: l’Adamo II non è per Buzzati un esperimento, ma il primo “Sesamo apriti”, del quale intuisce molte delle possibili implicazioni antropologiche, etiche e persino spirituali. Potremmo dire che oggi questa funzione della fantascienza, più o meno distopica, è più frequentata dal cinema e dalle produzioni seriali che dalla letteratura, ma dovremmo comunque concludere che quella del pensiero filosofico non è la sola via di cui l’umanità ha bisogno quando si trova di fronte a cambiamenti epocali: l’essere umano è un animale narrativo e le narrazioni sono anche un modo per guadagnare e fare proprio ciò che ancora non conosciamo.

Arriviamo così al secondo elemento d’interesse: sappiamo che Emanuele Severino fa coincidere con l’angoscioso stupore (finanche terrore) l’origine del pensiero antico, ma che l’ipotesi è dibattuta perché non tutti concordano con la sua resa del termine thauma in Aristotele, però è certo che la letteratura fantascientifica sembra confermare la relazione, associando spesso l’ossessiva curiositas degli scienziati al desiderio umano di superare i propri limiti, primo fra tutti la morte. Di questo tratta il primo episodio della seconda stagione di Black Mirror, serie Netflix che colloca in un mondo indefinito molto prossimo al nostro ciò che della tecnologia inquieta e interroga: intitolato Be Right Back, il film riproduce uno schema simile a quello de Il grande ritratto, qui è però una donna a perdere il compagno e a trovare nella tecnica la possibilità di riaverlo in forma di automa. A differenza della Laura buzzatiana, il fidanzato automa non ha una personalità propria e non si ribella, così tocca alla protagonista, Martha, sperimentare l’angoscia per la totale disponibilità del ritrovato amante, che, annullato ogni volere proprio, non fa che assecondare quello dell’amata mortificandone però la possibilità del desiderio. Se ne evince che l’amore ha bisogno dell’alterità e non si accontenta del corpo dell’altro da muovere a capriccio come una marionetta senz’anima. Specularmente, se nel romanzo di Buzzati a scoprire il costo dell’incantesimo tecnologico era l’automa donna (significativamente Laura, come la prima grande assente della letteratura italiana), è però vero che anche nel racconto va in scena l’opposto del desiderio, perché la brama di possesso di Endriade non teme di imprigionare l’anima della donna amata in un corpo incorporeo, cristallizzato, pietrificato.

In un brevissimo romanzo abbiamo dunque già due temi notevoli: il rapporto tra progresso tecnico-scientifico e superamento del limite (orrore della morte) e la riflessione sul desiderio, dunque sulla dialettica tra amore e potere, che parte dall’osservazione di ciò che compone l’identità di ciascuno, corpo e mente. Ma c’è un terzo elemento che rende la lettura de Il grande ritratto interessante oggi.

Il romanzo di Buzzati – come anche Be Right Back – sviluppano nel plot narrativo il mito archetipico della perdita irrimediabile, ossia la storia di Orfeo ed Euridice, probabilmente uno dei soggetti più reinterpretati nella scrittura letteraria (lo stesso Buzzati dedicò un’opera fumetto al mito ovidiano, intitolata Poema a fumetti, ripubblicato con la cura di Lorenzo Viganò, Mondadori 2017). A me pare che la riscrittura fantascientifica del mito suggerisca l’ipotesi che, con la morte degli dei, gli esseri umani abbiano finito per domandare alla scienza ciò che un tempo i loro antenati chiedevano agli abitanti dell’Olimpo, ma con grande fede e successo se, come Orfeo, avevano dalla loro la forza del canto e della poesia. Lo scienziato Endriade non ha questa magia dalla sua e il gesto che lo rovina non è l’essersi voltato a guardare l’amata, ma l’aver preteso per sé ciò che è indisponibile, ossia l’essenza (anima, pneuma) della donna. L’altro, l’altra, suggerisce il nuovo mito, non si può amare che nella libertà e cos’è la morte se non il segno più radicale dell’alterità?

L’intelligenza artificiale generativa oggi esiste: terremo stretta qualche perplessità, con l’obiettivo di non abbassare la soglia d’attenzione, ma dagli antenati del secolo scorso ricaveremo la confortante certezza che agli Adamo ed Eva tecnologici si possano chiedere molte cose, ma non la strada per scoprire l’amore e il gusto di una vita incarnata.


Note

  1. Cfr. 17 settembre 2009, https://tysm.org/adamo-ii/.
  2. «Studi novecenteschi», vol. 44, n. 94 luglio-dicembre 2017, pp. 253-271.
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Elena Rausa

Docente di Lettere nei Licei e Dottoressa di Ricerca in Italianistica. Ha pubblicato tre romanzi: “Le invisibili” (Neri Pozza, dal 9 febbraio 2024), “Ognuno riconosce i suoi” (Neri Pozza, 2018), “Marta nella corrente” (Neri Pozza, 2014).

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