Nietzsche ha sviluppato un’ampia riflessione che, dallo studio dell’antichità greca classica fino all’epoca a lui contemporanea, ha permesso di tracciare una sorta di parabola complessiva della cultura occidentale. Una delle tematiche che hanno occupato maggiormente la sua filosofia riguarda, come è noto, la religione: Nietzsche getta da un lato lo sguardo al suo tempo, nel quale rileva l’assenza – anzi la morte – di Dio: con questa espressione, forte e provocatoria, egli indica la diffusione sempre più capillare di uno stile di vita lontano dalla spiritualità e dal complesso dei valori cristiani di cui si continua a parlare senza alcuna aderenza al reale stato delle cose e delle effettive condotte individuali. D’altro canto, il filosofo risale il flusso del tempo e dedica ampio spazio all’analisi del politeismo greco: Apollo e Dioniso rappresentano la sintesi dello spirito greco più riuscito, perché combinano le forme (apollinee) della razionalità con le espressioni incontrollate di eccesso e sfrenatezza proprie dei rituali bacchici, durante i quali i partecipanti si lasciavano andare a danze sregolate e canti liberatori degli istinti meno compatibili con la vita ordinaria e comunitaria di tutti i giorni.
La scomparsa dei riti
Oggi, Byung-Chul Han riprende il tema dei riti e quello della simbologia spirituale, riconoscendo a entrambi un valore fondamentale: «I riti sono azioni simboliche. Tramandano e rappresentano quei valori e quegli ordinamenti che sorreggono una comunità. Creano una comunità senza comunicazione» (Vom Verschwinden der Rituale. Eine Topologie der Gegenwart, Berlin 2019, tr. it. di S. Aglan-Buttazzi, La scomparsa dei riti. Una topologia del presente, nottetempo, Milano 2021, ed. dig.).
Tuttavia, evidenzia Han, l’epoca contemporanea si è progressivamente sbarazzata della ritualità. Il suo ragionamento intreccia così i fili della “percezione simbolica”, alla base della formazione dei riti, con i disagi legati alla cosiddetta rivoluzione digitale:
Nell’epoca attuale la percezione simbolica scompare sempre più a favore di una percezione seriale incapace di esperire la durata. La percezione seriale, quale presa di coscienza avanzata del nuovo, non indugia. Anzi, si affretta da un’informazione all’altra, da un evento all’altro, da una sensazione all’altra senza mai giungere a una conclusione. Oggi le serie sono così amate probabilmente perché corrispondono all’abitudine della percezione seriale che, sul piano del consumo mediale, conduce al binge watching, al guardare fino a cadere in coma. Mentre la percezione simbolica è intensiva, la percezione seriale è estensiva, e per via della sua estensità porta con sé un’attenzione piatta. L’intensità, al giorno d’oggi, cede ovunque il passo all’estensità. La comunicazione digitale è una comunicazione estensiva: non produce relazioni, solo connessioni. (ivi)
Con queste parole Han suggerisce che, nell’epoca contemporanea, oltre che per Dio, non c’è più posto nemmeno per i riti, svaniti assieme all’intensità delle esperienze, trasformate in azioni ripetitive che rendono l’individuo passivo, inerte, un guscio vuoto e inconsistente riempito di volta in volta dalle superficiali lusinghe del marketing consumistico.
O la loro trasformazione?
Siamo proprio sicuri che le cose stiano in questo modo e che dobbiamo rassegnarci a vivere in un’epoca scarica e inaridita? Oppure possiamo immaginare che, come ogni altro fenomeno, anche i riti e la spiritualità possano essersi trasformati in qualcosa di diverso da ciò che erano nell’antichità e anche nel tempo cristiano, in cui i precetti religiosi si facevano sentire in modo più imperativo, ma che non per questo siano stati completamente cancellati dalla scena del mondo?
Proviamo ad analizzare un caso specifico, quello della musica techno e dei raduni collettivi (discoteche o festival che siano) presso i quali viene eseguita. Si tratta di un fenomeno per nulla marginale, e non solo perché coinvolge milioni di (più o meno) giovani che popolano questi eventi. Pensiamo, per fare un esempio, al “Burning man”, festival di musica elettronica che dura una settimana, ha un biglietto di ingresso dal costo proibitivo, si svolge sperduto nel nulla del deserto Black Rock dello stato americano del Nevada, ma che, ciononostante, dal 1986 conta, alla fine di ogni estate, sulla partecipazione di decine di migliaia di persone.
Se la politica adotta un atteggiamento tendenzialmente repressivo nei confronti di queste manifestazioni, la filosofia può concedersi di osservarle con occhio critico e comparativo, senza liquidare la faccenda, derubricandola come marginale oppure come segno inequivocabile del disfacimento cognitivo delle nuove generazioni.
La cosa andrebbe in effetti presa più seriamente e c’è chi ipotizza (Simon Reynolds, in primis, nell’ormai classico Energy Flash. A Journey Through Rave Music and Dance Culture, Faber and Faber, London 2013, tr. it. di C. Mapelli e D. Cianfriglia, Energy Flash. Viaggio nella cultura rave, Arcana, Roma 2010) che in gioco ci sia molto di più. Il soggetto che prende parte a queste manifestazioni fa esperienza di una musica che non è davvero tale, e che riproduce, nel ritmo e per la sostanziale assenza di armonia, il battito cardiaco primigenio, quello cioè che tutti noi abbiamo sentito “rimbombare” nello spazio uterino prenatale. Si tratta, potremmo dire, di un ritorno alle origini, di una rinnovata connessione con strati di sé che sono stati via via sommersi dall’insorgere delle successive epoche di vita. Ma non solo.
Invasamento elettronico
In quella che potremmo definire “immersione elettrica”, il soggetto smette di sentire in modo determinato, e partecipa invece a una sorta di sensazione generale, desoggettivata e onnipervasiva, che si estende tra i corpi convenuti come un tessuto animico condiviso. Possono sembrare considerazioni eccessive, ma superare e dissolvere la determinatezza è un compito che la filosofia si è sempre posta, basti pensare al movimento dialettico hegeliano, che nelle determinazioni dell’intelletto scorge ciò che deve essere superato nel movimento di sintesi, oppure ai percorsi tracciati dalla mistica ai fini del trascendimento della coscienza che, se ingabbiata nella sua forma prettamente intellettuale, costringe, dunque limita e depotenzia la vita del pensiero.
Ancora più interessanti, nell’economia del nostro ragionamento, sono le analogie che possono essere tracciate con gli stati maniacali che venivano raggiunti durante i riti dionisiaci nella Grecia del VII secolo a.C.: la spersonalizzazione, la presenza di fenomeni di invasamento e all’abbandono del corpo ai ritmi di una danza forsennata e praticata collettivamente sono elementi che Henri Jeanmaire ha messo in luce per il fenomeno del culto di Bacco (in Dionysus. Histoire du culte de Bacchus, Paris 1951, tr. it. di L. Salvatore, Dioniso. Storia del culto di Bacco, Saecula, Montorso Vicentino 2012), ma che potrebbero essere attualizzabili, cioè riferibili anche ai moderni ritrovi danzanti organizzati, come i riti bacchici, al limite della legalità.
Allo stesso modo, Gilbert Rouget offre un importante inquadramento etnologico del legame tra musica e trance, dispiegando un esauriente ventaglio di come i due fenomeni siano intimamente correlati in un vastissimo catalogo di culture, che annovera i contesti storicamente e geograficamente più disparati: dal candomblé afrobrasiliano alla civiltà cilena dei Mapuche, al culto del vudù nel Benin (di cui Rouget era il massimo esperto), dai Boscimani al sufismo ecc. (G. Rouget, La musique et la transe. Esquisse d’une théorie générale des relations de la musique et de la possession, Gallimard, Paris 1980, tr. it. a cura di G. Mongelli, Musica e trance. I rapporti fra la musica e i fenomeni di possessione, Einaudi, Torino 1980).
Sembra quindi che le pulsioni, che si manifestano nel dionisismo arcaico, non costituiscano un unicum culturale legato al mondo della Grecia antica e al suo contesto storico-religioso; viceversa, si tratterebbe di un nucleo di istinti, insopprimibili e sempre attivi, quindi intrinseci all’essere umano, tanto che ogni cultura, al netto delle contingenze storiche, trova il modo di dar loro sfogo. Allora può essere affrettato associare la morte di Dio alla fine della spiritualità e della ritualità più in particolare. Si tratta invece di riconoscere che, nonostante il vuoto creatosi al cuore dei valori religiosi tradizionali, esistono forze incontenibili che nemmeno l’abulia, sempre più diffusa nella nostra epoca, riesce ad anestetizzare – forze che richiedono una canalizzazione e una condivisione che presenta ancora le caratteristiche di un rito, ripetitivo e intensamente caricato sul piano simbolico, come quelli che si celebravano 2.500 anni fa.