Bruno Ciari 1923-2023

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L’intervento di Marcella Bufalini Ciari presentato alla nona edizione de Le storie siamo noi, convegno biennale sull’orientamento narrativo, che si è tenuto a Follonica il 6 e 7 ottobre.
Marcella Bufalini Ciari sul palco de Le storie siamo noi, Follonica 6 ottobre 2023.
Marcella Bufalini Ciari sul palco de Le storie siamo noi, Follonica 6 ottobre 2023.

 

Bruno era un giovane di Certaldo che, nei primi anni di guerra, animava un gruppo eterogeneo di studenti, operai, di classi sociali diverse, di formazione e mentalità diverse, di diversi credi religiosi.

Avevano molti libri, acquistati con sacrificio, che Bruno teneva nella sua piccola casa e occupavano mobili e pavimento, insieme ai quaderni in cui riportava considerazioni personali e quello che riusciva a fare proprio da quanto leggeva e studiava. La sua testa non si saziava mai: più la nutriva e più aveva fame (aveva detto).

Il gruppo discuteva sui più vari argomenti: filosofi antichi e moderni, storia, letteratura, musica, politica, religione, scienze, le più recenti scoperte.

Era stato ripetutamente schiaffeggiato e incarcerato, anche se per poco, e continuamente minacciato dai fascisti che volevano sapere cosa ci facesse lui studente con degli operai. Era uno studente, sì, ma la sua famiglia aveva pochissimi mezzi e lui diventò un ‘ricco autodidatta’. Non si limitava ai programmi delle scuole superiori, che non poteva frequentare, non gli bastavano, ed estendeva i suoi interessi a tutto quanto era in fermento nella cultura italiana e mondiale. Poi seguì delle lezioni all’Università di Firenze.

Fu tra i primi nei gruppi partigiani, e non poteva essere diversamente. Era spiritualmente pronto, e partì con un gruppo di giovani del paese. Il suo nome fu Davide. Mise sé per l’alto mare aperto (per dirla con Dante).

Una pistola in dieci, senza mangiare e vestirsi adeguatamente. Sempre pieni di pidocchi pulci zecche. Però lo spirito e l’età davano anche momenti di divertimento (se si può dire così): la sera c’era la gara a chi si toglieva di dosso più pidocchi, e non so se ci fosse qualche premio per il vincitore.

La metà fu catturata e uccisa nell’inverno. Bruno rimase, disciplinato e serio, con un po’ di libri che si era portato dietro, a fare il più grande dei sacrifici: il suo fisico non era dei più adatti alle boscaglie della Maremma, ma resistette, e vinse, nonostante tutto.

La solita serietà negli studi, la disciplina con la quale operava nelle ricerche non venne meno nella lotta partigiana. Poteva non trovarsi d’accordo su alcune cose, ma non confondeva mai il particolare con l’insieme. Però, se era immerso nelle sue letture niente lo distraeva.

Una volta era di sentinella, la lettura di Lenin lo assorbì talmente da fargli dimenticare tutto: freddo acqua mitra fascismo e guerra, così nell’accampamento si trovò un povero uomo smarrito che lui non aveva visto né sentito passare, nonostante si trovasse dietro una roccia ad un metro dal sentiero dove era. Dopo tante imboscate e tanti partigiani uccisi, in parte proprio a causa di inesperienze iniziali, il fatto era gravissimo, e a nulla gli giovò Lenin. Fu punito: invitato a lasciare la formazione, si rifiutò e preferì riscattare il proprio errore.

La durissima disciplina è dimostrata dal fatto che, dopo l’eccidio di Montemaggio, era fra i fuggitivi, con un piede slogato, in pericolo. Un compagno (Marcello Masini, che è anche chi ha raccontato quell’esperienza) lo portò sulle spalle fino in cima a un monte in un nuovo accampamento che si stava trasferendo altrove. Fu obbligato a lasciarlo in un bosco, da solo. Non si sa come Bruno riuscì a guarire in qualche modo, a mangiare, a ripararsi dalle intemperie e a ritrovare i suoi compagni.

Qualcuno ha raccontato che spesso se l’è cavata perché aveva studiato le armi e i tempi di reazione degli scoppi, consentendosi riparo o fuga.

La forza di Bruno partigiano partiva da lontano: dalla preparazione culturale e civile precedente, profonda, con lo sguardo verso una società libera e democratica in cui credeva. In cui credevano i suoi compagni della brigata ‘Spartaco Lavagnini’, al cui servizio indirizzava le sue conferenze politiche.

C’era da tempo la stoffa dell’educatore. C’era il sentirsi obbligato a costruire una comunità nuova e responsabile.

Riuscì a sopportare quel periodo, breve ma infinito e duro, per una grande forza morale, la concreta convinzione della giustezza delle proprie azioni, una volontà enorme, capacità di sacrificio, senza cedimenti, né allora né dopo.

Al ritorno fu assessore all’istruzione e vice sindaco di Certaldo. Il Masini sindaco. La liberazione lo trovò sempre in prima fila per la ricostruzione del suo paese distrutto dai bombardamenti. Organizzò spettacoli teatrali con ‘non attori’  locali, e serate sull’arte. Fondò la Biblioteca Comunale, che ora porta il suo nome. Fu dirigente della sezione del partito, il PCI, con indipendenza di giudizio, ed ebbe spesso difficoltà e richiami politici.

Fu incompreso per le sue visioni di novità anche nella scuola elementare in cui insegnò, unico maestro partigiano.

Intelligenza critica e coerenza lo fecero resistente sempre.

Oggi, col sufficiente distacco temporale, è doverosa, nella società e nella scuola, una riflessione, attenta e senza retorica, sulla Resistenza di allora. Sulle scelte, le azioni, gli strumenti usati. Quanti fecero qualcosa per ribellarsi a fascismo e nazismo per riscattare il proprio paese? I partigiani sì. Altri, anche se capirono, non ebbero coraggio, vinse la paura per gli orrori, le aggressioni, le morti, il carcere, il confino. In altri vinse il senso di potere che faceva identificare con le parole della dittatura. Ma non si poteva restare cittadini in attesa degli eventi gestiti da altri, e poi, eventualmente esprimere scontento.

C’è il rischio di sottovalutare l’impegno partigiano e relegarlo a breve exploit, oppure di accomunare le morti degli uni con quelle di chi fece altre scelte. Non si deve confondere pacificazione con parificazione. Il ricordo e l’analisi predispongono a difendere la democrazia per impedire ritorni autoritari che si devono saper riconoscere anche nelle piccole situazioni. Oggi il pericolo si può presentare con volto nuovo, poco riconoscibile, adattato alle nuove realtà, con maschere più rispettabili.

“Chi è tornato come me dalla montagna, reduce dalla lotta partigiana, reduce da una lunga lotta antifascista, è pieno di ideali. Quando questi li si è voluti portare nella scuola come un contenuto da trasmettere in forma diretta e immediata, con tutto l’entusiasmo possibile, l’esito non è stato soddisfacente. Da questa esperienza è derivato che certi contenuti debbano essere pedagogicamente elaborati e diventare sostanza educativa e patrimonio dei nostri ragazzi. La democrazia si impara praticandola, così come la libertà. Sono valori che non si insegnano a parole, ma si costruiscono lavorando. Non basta cambiare i contenuti, occorre cambiare i modi dell’insegnare, dell’imparare, dello stare insieme”.  Dichiarava Bruno. “L’attività conoscitiva è una prassi, un fare. C’è un’intima fusione tra contenuto e metodo. Metodo scientifico. Per la formazione, nella scuola, dello spirito scientifico.” Diceva.

Entrare in classe non è lasciare il mondo esterno per uno interno protetto, ideale, giusto. Il bambino deve essere aiutato a capire il suo mondo, che è vasto e sfaccettato: la famiglia, il lavoro, le nuove tecnologie…Bruno diceva: “Il processo formativo dell’alunno, in una scuola calata nella realtà, dipende, in modo determinante, dal rapporto con l’ambiente naturale e sociale esterno, che va fatto entrare nella propria comunità classe, rivissuto, analizzato, approfondito, raccontato”.

Raccontare perché? Non per imparare a usare correttamente la lingua italiana  (anche per questo, ma non come motivazione principale). Una classe che sia una piccola società, inserita in una società più ampia, sente il bisogno di comunicare con l’ambiente vicino e lontano per far conoscere la vita, le ricerche, le scoperte, le espressioni teatrali, grafo-pittoriche, musicali, in uno scambio reciproco. La corrispondenza con classi parallele e di realtà diverse permetteva confronti e conoscenze impreviste.

Sul rapporto con la società esterna faccio qualche esempio. Un ex alunno di Bruno, oggi 75nne, ricorda quando la sua classe entrò nella ‘propria era spaziale’, dopo aver saputo del volo dello sputnik. Dagli esperimenti con gli aquiloni e con gli aerei di balza ad elica ed elastici i ragazzi arrivarono a far volare il loro modellino di razzo a reazione. Degni ‘competitors’ di russi e americani.

E gli alunni vendemmiatori in campagna e vinificatori in classe erano spinti a saperne di più del lavoro dei loro familiari, del loro paese produttore di vino speciale.

Dopo il piacere (psicomotorio direi) dello schiacciamento con le mani dei chicchi d’uva, la scoperta dello zucchero che c’è e non si vede, l’incontro con la forza del mosto, i saccaromiceti e le grafie delle molecole, legando la propria esperienza diretta alle pubblicazioni della scienza ufficiale: il vino. E la danza del vino.

La scienza è sperimentale ed è opportuno mettere i ragazzi in condizione di aggiustare le proprie conoscenze, disponendoli ad accettare verità momentanee, perché non ci sono tappe definitive nella ricerca.

Oppure: le visite dei bambini della prima classe al fiume Elsa la cui forza aveva rotto la diga. E l’incontro con renaioli e pescatori. A coronamento di tante osservazioni sul fiume, lo spunto per l’invenzione di piccole storie. Ad esempio: dalla vista di un pesce boccheggiante appeso all’amo, nell’indifferenza del pescatore, il controllo dell’emozione, poi, verbalizzata in un racconto, dove la paura e la salvezza dei personaggi-pesciolini erano rivendicate con empatia da intelligenza e furbizia liberatorie. Solo più tardi, in un altro racconto, parlarono di un pesciolino morto.

L’dentificazione coi piccoli personaggi, il bisogno d’impresa, le regole familiari, la paura e la vittoria sul grande nemico-antagonista, apparentemente invincibile, nel primo racconto. Nel secondo, la fantasia ancora, il gioco, ma anche la morte (il pesce grosso mangia il piccolo). Senza troppo indugiarvi. Le parole, le parole scritte, favorirono una elaborazione, una accettazione della realtà?

Le esperienze erano suffragate dall’uso di macchina fotografica, cinepresa, proiettore, microscopio, registratore, limografo, pressa e altro. Materiali acquistati dal maestro con proprio impegno economico. Ma si vuol mettere la sostanza e la gratificazione che quella tecnologia all’avanguardia, utile se non indispensabile, poteva dare all’insegnamento, a costo di qualche sacrificio?

E anche la necessità di approntare in aula mini ambienti con animali e piante, per ulteriori e continue osservazioni, diventava imprescindibile, con la conseguente educazione alla responsabilità e alla cura.

Questa non è una scuola utopica. Se si è obbligati a vivere insieme, si devono trovare criteri da condividere. Significa sentirsi comunità, interna ed esterna, cooperante e in ricerca. Dove, partendo dagli interessi degli alunni, costruire un itinerario, una direzione di marcia che l’insegnante sa vedere, ma che costruisce coi ragazzi crescendo insieme a loro, aiutandoli ad esprimersi, a cogliere i problemi e a impostare bene i ragionamenti, incoraggiandoli e portandoli alle loro conclusioni.

In una classe così organizzata, secondo una vita cooperativa e ricca di interessi, si può pensare che abbiano posto i voti? voto-profitto (diceva Bruno) è obbligatorio in una prassi in cui è assente la motivazione reale, cioè la partecipazione profonda dei ragazzi alle decisioni, il sentirsi dentro. Ove c’è motivazione reale non c’è voto, e viceversa. Il voto è segno di una scuola non democratica”.

Bruno fu tra i primi membri del Movimento di Cooperazione Educativa.

Negli ultimi anni diresse i vasti complessi servizi scolastici del Comune di Bologna. Si occupò in particolare della scuola per l’infanzia e dei nidi, con grande apertura collaborativa verso la Società di riferimento, l’Università, e dove pose le basi per l’esperienza della scuola a Tempo Pieno.

Abbiamo di Bruno una eredità morale, politica, pedagogica, e la speranza di un utilizzo adeguato della sua eredità.

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Marcella Bufalini Ciari

Ha insegnato in diverse scuole elementari nel Lazio, in Toscana, a Bologna. In seguito è stata distaccata nell’Istituto di Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale Mauriziano di Torino. Ha poi lavorato nella scuola “Pacchiotti” di Torino, dove ha condotto laboratori di attività multimediali, e al CIDISS (Centro interistituzionale di documentazione per l’inserimento scolastico degli stranieri). È autrice di materiali per l’apprendimento dell’italiano L2 e fa parte del Movimento di Cooperazione Educativa.

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