“Antologia di Spoon River”, esercizi di lettura #7: Da Masters a De André

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Concludo con questo intervento le mie note sull’ “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters, di cui ho curato la traduzione e il commento per La nave di Teseo nel 2022. Spero di aver fornito qualche spunto di riflessione utile ai lettori e in particolare agli insegnanti che volessero proporre l’opera di Masters nelle scuole.
La copertina del vinile del 1971 per l’etichetta Produttori Associati, copertina di Deanna Galletto.

Antologia, canzoniere, concept album

Nel 1971 Fabrizio De André pubblica un album, il quinto della sua carriera, intitolato Non al denaro non all’amore né al cielo, ispirato all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Il titolo dell’album è tratto da un verso della Collina, la prima poesia della raccolta, che nella traduzione di Fernanda Pivano (l’unica disponibile all’epoca) suona leggermente diverso, e cioè “né al denaro, né all’amore, né al cielo”. Comprende nove canzoni, disposte in base a un progetto che l’autore spiega, invero un po’ frettolosamente, nell’intervista inclusa nell’album, dichiarando di aver voluto affrontare due temi: l’invidia (uno dei vizi capitali) nel lato A e la scienza (il suo uso e il suo significato simbolico) nel lato B.

Su questa impostazione mi sembra necessario fare un qualche approfondimento, prendendo le mosse proprio dall’indice del disco, che riporto con i rimandi alle poesie del libro di Masters, accompagnate dal rispettivo numero d’ordine:

lato A

1 La collina 1 La collina
2 Un matto (Dietro ogni scemo c’è un villaggio) 28 Frank Drummer
3 Un giudice 94 Il giudice Selah Lively
4 Un blasfemo (Dietro ogni blasfemo c’è un giardino incantato) 79 Wendell P. Bloyd
5 Un malato di cuore 80 Francis Turner

 

lato B

6 Un medico 49 Il dr. Siegfried Iseman
7 Un chimico 18 Trainor il farmacista
8 Un ottico 178 Dippold l’ottico
9 Il suonatore Jones 60 Il violinista Jones

 

La prima osservazione interessante è che l’album viene concepito non solo come un dittico (invidia e scienza), ma come un percorso unitario che si chiude circolarmente: il personaggio di Jones compare infatti alla fine della prima canzone, La collina, ed è il protagonista dell’ultima, a lui stesso intitolata. Queste due canzoni hanno chiaramente una funzione introduttiva e conclusiva, giacché in esse non vengono toccati i temi dell’invidia e della scienza.

La seconda osservazione riguarda il modo in cui questi temi vengono affrontati nelle due facciate dell’album. Ognuna delle due serie presenta infatti in ultima posizione una figura positivamente connotata: il malato di cuore avrebbe tutte le ragioni per invidiare i sani, ma muore felice nel momento del primo bacio d’amore; l’ottico stabilisce un rapporto positivo con i suoi clienti, che infatti prendono la parola direttamente, nelle ultime strofe della canzone, dichiarando la propria soddisfazione. Si delineano insomma due percorsi che, a partire da personaggi meschini e/o infelici, si concludono con vicende più ottimistiche e serene (tanto che nell’ottico la morte del protagonista rimane sottintesa, i personaggi parlano al presente, come se fossero ancora vivi).

Un’ultima osservazione sul progetto complessivo. Pur essendo nata a poco a poco, in base a un progetto che veniva definendosi man mano che il libro cresceva tra le mani dell’autore, l’Antologia di Spoon River ha, nella sua forma finale, una struttura basata su una numerologia piuttosto rigorosa: 246 testi con una poesia di introduzione e due di carattere conclusivo che incorniciano 243 “epitaffi”; 243 è tre volte 81 – l’insistenza sul 3 e sui suoi multipli trova una possibile spiegazione in uno dei testi teorici più significativi di Masters, La genesi di Spoon River, laddove l’autore dichiara di aver aspirato a creare un movimento ascendente tripartito analogo a quello della Commedia di Dante, collocando prima le figure di “dannati” infelici e disperati, poi quelle delle persone relativamente serene e realizzate, infine quelle degli “illuminati” – i grandi filosofi e gli spiriti religiosi. Ha poca importanza, ai fini del discorso che stiamo facendo qui, che questo schema risulti rispondente alla realtà dei testi solo a grandissime linee; quello che importa è che l’Antologia, a dispetto del suo nome, si presenta come un “canzoniere”, cioè come un’opera unitaria e conclusa in sé stessa (tant’è vero che, quando Masters scrisse nuovi epitaffi, negli anni successivi, non li inserì nelle nuove edizioni dell’Antologia, ma ne fece un altro libro, The New Spoon River).

De André aveva tra le mani una versione incompleta – la traduzione di Pivano era ed è mancante degli ultimi due testi della raccolta, la doppia conclusione; il numero 9 va quindi considerato casuale, ma quello che certamente non è casuale è la scelta di condurre un discorso unitario, di scegliere i testi in modo da delineare per l’ascoltatore un percorso dotato di senso complessivo – quello che con espressione inglese si chiamava già allora concept album.

 

Opera nuova o traduzione?

Proviamo ora a entrare nel dettaglio del lavoro effettuato da De André (uso il suo nome per brevità, ma si tratta di un lavoro in certa misura collettivo, come rivelano i documenti) a partire dalla traduzione di Pivano.

I titoli, innanzitutto: Masters spesso chiarisce fin dal titolo la professione dei suoi personaggi (medico, dentista, farmacista, giudice, ottico, guardia, reverendo, pescatore, capitano ecc.) o qualche altra caratteristica importante (vedova, cieco ecc.); solo in casi rarissimi il nome proprio viene omesso: per esempio, ovviamente, quando la tomba è anonima (Lo sconosciuto, n. 121), o quando si tratta di una tomba collettiva (Molti soldati, n. 196). De André, viceversa, priva i personaggi del loro nome proprio e li indica solo con la professione/caratteristica: matto, giudice, blasfemo, medico, chimico, ottico. È un cambiamento decisivo: Masters racconta vicende individuali, De André fa dei suoi individui dei “tipi”, dei personaggi-categoria.

L’eccezione rappresentata dal suonatore Jones è appunto un’eccezione; ma anche in questo caso, complice la discutibile traduzione di Pivano, il «fiddler» (violinista) dell’originale inglese diventa un più generico «suonatore» (che nella canzone si rivela poi un flautista). Tuttavia l’eccezione resta: Jones è l’unico personaggio dotato di un nome, a sottolineare la sua eccezionalità di artista – di controfigura del cantautore, possiamo forse azzardare – già evidenziata dal fatto che la sua figura come si diceva compare nella prima e nell’ultima canzone dell’album e assume quindi un rilievo particolare.

Ma per comprendere meglio il lavoro di De André è necessario entrare nel vivo dell’analisi e confrontare i versi di Masters con quelli delle canzoni che li hanno ispirati. Non potendo svolgere integralmente questo lavoro, ci accontenteremo di un esempio, analizzando un testo di De André dopo aver letto la relativa poesia di Masters:

 

Il giudice Selah Lively (traduzione mia)

 

Immaginate di essere alto solo uno e cinquantotto

E di aver cominciato come garzone di droghiere,

Studiando legge al lume di candela

Fino a diventare avvocato?

E poi immaginate che, grazie alla vostra diligenza

E alla regolare frequentazione della chiesa,

Siate diventato il legale di Thomas Rhodes,

Quello che incassava fatture e cambiali

E rappresentava tutte le vedove

Nelle cause di successione? E intanto, sempre,

Vi prendevano in giro per la statura e vi deridevano per i vestiti

E gli stivali tirati a lucido? E poi immaginate

di essere diventato Giudice della Contea?

E Jefferson Howard, e Kinsey Keene,

E Harmon Whitney, e tutti i giganti

Che prima sogghignavano, costretti a stare in piedi

Alla sbarra e a dire “Vostro Onore” –

Be’, non è naturale, secondo voi,

Che gli abbia reso la vita difficile?

 

***

Un giudice

Cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura
ve lo rivelan gli occhi e le battute della gente,
o la curiosità d’una ragazza irriverente
che vi avvicina solo per un suo dubbio impertinente:
vuole scoprir se è vero quanto si dice intorno ai nani,
che siano i più forniti della virtù meno apparente,
fra tutte le virtù la più indecente.

Passano gli anni, i mesi, e se li conti anche i minuti.
È triste trovarsi adulti senza essere cresciuti.
La maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo,
fino a dire che un nano è una carogna di sicuro
perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo.

Fu nelle notti insonni vegliate al lume del rancore
che preparai gli esami, diventai procuratore,
per imboccar la strada che dalle panche d’una cattedrale
porta alla sacrestia quindi alla cattedra d’un tribunale,
giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male.

E allora la mia statura non dispensò più buon umore
a chi alla sbarra in piedi mi diceva “Vostro Onore”
e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio,
prima di genuflettermi nell’ora dell’addio,
non conoscendo affatto la statura di Dio.

 

Il primo e più evidente lavoro del cantautore è consistito nel creare strutture strofiche, introducendo un sistema di rime, non privo di qualche irregolarità (la prima strofa ha due versi in più delle altre e due versi irrelati, nella seconda strofa l’ultima rima è sostituita da un’assonanza), laddove l’originale presenta versi liberi e privi di rime. Un secondo tipo di intervento riguarda l’estremizzazione dei toni: il giudice di Masters è alto un metro e cinquantotto, quello di De André è “un nano”; il primo si vendica rendendo la vita difficile ai suoi persecutori, il secondo li condanna addirittura a morte; il resoconto di Selah Lively non contiene alcuna allusione sessuale e non ricorre mai al registro stilistico volgare, al contrario dell’anonimo giudice di De André (vedi la conclusione delle strofe 1 e 2). Siamo di fronte in questi casi, mi sembra, a scelte che rispondono alla necessità di adeguare un testo poetico del 1916 ai modi espressivi propri della canzone d’autore degli anni Sessanta e Settanta.

Di tutt’altro tipo è l’intervento che emerge nel finale della canzone: il giudice di Masters non racconta la propria morte, ferma la narrazione nel momento del trionfo (che tale trionfo sia effimero e amaro possiamo ipotizzarlo, ma non ci viene detto); De André ci mostra invece il suo giudice, ossessionato dalla bassa statura, nel momento in cui si trova di fronte a un giudice infinitamente più grande di lui e prende coscienza della propria meschinità… In qualche modo, De André introduce un elemento didascalico, aiuta l’ascoltatore a giudicare il personaggio, laddove Masters, più oggettivo, più distaccato, lascia che sia il lettore a elaborare un’eventuale riflessione (come del resto richiede il personaggio stesso, con le sue continue domande – ma De André ignora questo elemento, seguendo in questo la traduzione di Pivano, che elimina tutti i punti interrogativi tranne l’ultimo).

Questa conclusione a me pare di estremo interesse, perché De André ricava le sue canzoni, con una sola eccezione, dalle prime cento poesie dell’Antologia – quelle in cui la dimensione sociologica, di denuncia dell’ipocrisia e dell’infelicità, prevale nettamente sulla riflessione religiosa e spirituale che emerge invece in seguito e diventa dominante nella parte conclusiva della raccolta. Tale riflessione viene in qualche modo recuperata negli ultimi versi della canzone, sia pure all’interno di una concettualizzazione più semplice, dove a prevalere sulla riflessione metafisica è il contrasto un po’ meccanico fra piccolezza del giudice umano e immensità del giudice divino.

Che conclusione possiamo trarre da questa velocissima analisi? Sul piano teorico, si distinguono la traduzione interlinguistica (per esempio dall’italiano antico a quello moderno, che scolasticamente si pratica facendo la parafrasi di un canto di Dante o di una pagina di Machiavelli); quella intralinguistica (per esempio dall’inglese all’italiano); e quella intersemiotica, cioè da un codice all’altro (per esempio dal romanzo al film, o come in questo caso dalla poesia alla canzone). Quella di De André si può quindi considerare una traduzione, anche se il risultato è un’opera autonoma, ispirata certo dalla lettura dell’opera originale (o, se vogliamo essere precisi, della sua traduzione italiana), ma proposta al pubblico come un’opera nuova, diversa, che è possibile fruire senza fare riferimento all’originale – così come il Gattopardo di Visconti o La ciociara di De Sica possono essere visti, e sono pensati per essere visti, senza metterli a confronto con i romanzi di Tomasi o di Moravia da cui pure sono esplicitamente tratti.

Come in questi casi, peraltro, il successo del testo derivato si riverbera su quello originale – la scena del ballo non ha, nel romanzo, tutta l’importanza che le ha attribuito Visconti nel film, ma la “traduzione” di Visconti ne ha sottolineato il valore, è diventata una interpretazione critica che indirizza anche la lettura del romanzo. Così il disco di De André ha reso famose alcune poesie a scapito di altre e ne ha fornito una chiave interpretativa sia sui singoli testi, sia sull’opera complessiva – che infatti è ancora molto più letta nella prima parte, quella “infernale”, da cui sono tratte quasi tutte le canzoni dell’LP, che nell’ultima, quella “paradisiaca”, più difficile e tendenzialmente più trascurata.

L’importanza storica della versione di De André

L’LP di De André è senza dubbio uno dei più significativi della sua produzione, ma la sua importanza non riguarda solo il campo della musica leggera. Al successo del disco va infatti attribuita buona parte della fama che l’Antologia di Spoon River ha avuto e continua ad avere in Italia – una fama superiore a quella che l’opera ha in tutti gli altri paesi del mondo, compreso quello di origine. Non a caso, poco dopo la pubblicazione di Non al denaro non all’amore né al cielo esce la seconda traduzione italiana dell’Antologia, quella ottima di Luisa Ciotti Miller, datata 1974, seguita a breve distanza (1979) dalla prima e unica versione a tutt’oggi disponibile del Nuovo Spoon River, firmata da Umberto Capra e Attilia Lavagno, anch’essa per l’editore Newton Compton. Grazie a De André il libro tanto apprezzato da Pavese fin dagli anni del fascismo è così diventato una delle pochissime opere di poesia a cui nel nostro paese sia relativamente possibile (si tratta pur sempre di versi…) attribuire l’aggettivo di popolare. Non è un risultato da poco, anzi.

(fine)

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Alberto Cristofori

ha organizzato nel 2015 “Milano per Dante”, una lettura integrale della Commedia affidata a 100 esponenti della società civile milanese. È autore di manuali scolastici e traduttore. Ha pubblicato con Bompiani un romanzo e una raccolta di racconti, e dirige una casa editrice per bambini e ragazzi (Albe
Edizioni).

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