Entrare nel merito della questione sul merito non è cosa semplice, nonostante almeno in apparenza siamo tutti a favore della diffusione, nel tessuto sociale, ma anche economico e politico, di una rinnovata cultura che incoraggi ciascuno a coltivare le proprie capacità, sapendo di poter contare su di esse invece che su un sistema basato su raccomandazioni o “spintarelle”. In Italia, inoltre, la necessità di portare avanti un discorso sul merito si afferma in maniera direttamente proporzionale al bisogno di correggere le forme di corruzione diffuse nel Paese, che drammaticamente ostacolano il percorso di vita e professionale chi voglia farsi strada con le sole proprie forze. Si avvertono in effetti un malcontento e un affaticamento sempre più diffusi se una persona occupa una posizione che non le spetterebbe – e il senso di ingiustizia corre parallelo all’indignazione dei più combattivi, oppure alla spossatezza di chi inquadra il fenomeno come endemico e si abbandona al luogo comune per cui le cose in fondo non cambieranno mai. Quest’ultimo atteggiamento, oltre che poco produttivo, risulta anche fiaccamente pregiudiziale, per cui ci si dispensa dalla responsabilità di incidere un cambiamento partendo dal principio – storicamente sempre errato – che un certo stato di cose sia assoluto e immodificabile. Questa evidentemente non è una verità, ma una zona mentale di comfort nella quale il discorso si atrofizza, delegando indefinitamente il compito di fare la propria parte, qualunque sia il contesto entro il quale ci si colloca. La cosiddetta meritocrazia, invece, si fonda anche su piccoli gesti di denuncia ovvero di rifiuto di adeguamento alle logiche delle agevolazioni straordinarie ed è illogico oltreché contrario al senso della cultura del merito attendersi che la trasformazione venga calata dall’alto, promossa e concessa ufficialmente dalle istituzioni. Anche nel momento in cui si imponessero nuove e più stringenti regole di ingaggio, infatti, sarebbero comunque i singoli che dovrebbero preoccuparsi di evitare l’aggiramento e la scappatoia dalle stesse e questa trasformazione di mentalità è un compito che ognuno di noi ha il dovere di portare avanti, anche attraverso le piccole azioni apparentemente poco eclatanti. Ciononostante, l’esercizio critico promosso dalla filosofia non soltanto si prefigge di spronare a pratiche virtuose, ma anche di stanare alcune strettoie e paradossi spesso trascurati per ragioni di pigrizia intellettuale, perché rendono il discorso meno lineare o manicheo, quindi meno facilmente trasferibile in uno slogan. Proviamo a prenderne in considerazione alcuni, con lo scopo di entrare appunto il più possibile nel merito della questione.
Una prassi aristocratica?
Quello del merito è oggi un tema di cui i sistemi politici di stampo democratico si fanno vessillo: solo in un regime di libertà individuale e di uguaglianza sembra infatti possibile far emergere le qualità di ciascuno e assegnargli il giusto riconoscimento. Laddove sussistono invece delle forme di limitazione dei diritti o addirittura la loro soppressione la questione del merito viene del tutto sospesa e l’assegnazione della propria parte nel mondo affidata all’arbitrio di chi, governando, decide autoritariamente anche per i propri sottoposti.
Se nel tempo contemporaneo questo è un assunto difficilmente controvertibile, non si può non notare che nella Grecia classica le cose stavano in modo parecchio differente. Basti pensare alla celebre posizione di Platone quando si trattava di giudicare quale forma di governo fosse preferibile. Come è noto, il filosofo ha infatti espresso ampie riserve nei riguardi della democrazia, una costituzione ritenuta rischiosa perché in grado di degenerare in anarchia o addirittura tirannide. Il fatto che in questo regime il potere sia nelle mani di un ampio numero di persone non significa per Platone che perciò sia più semplice per ciascuno esprimere e sviluppare le proprie capacità. Al contrario, nella massa le qualità si disperdono in un tutto informe e indifferenziato, nessuno si assume con serietà le responsabilità legate al proprio compito poiché il ruolo di ciascuno si confonde facilmente con quello degli altri, in un caos che conduce al disordine generalizzato e quindi alla negazione stessa di qualsivoglia possibilità di governo. La ricetta per uscire da questa impasse si trova secondo Platone nell’aristocrazia, una forma Stato nella quale egli vede finalmente valorizzato il merito di alcuni che, per l’appunto, valgono il posto di comando che è loro affidato. Al di là delle successive connotazioni e stratificazioni storiche che ha assunto il termine ‘aristocratico’, per il filosofo greco gli aristoi sono infatti “i migliori”, coloro cioè che più di tutti gli altri si distinguono per onestà di intenti da un lato e capacità esecutive dall’altro. È famosa in questo senso l’esternazione, presente nel libro V di Politeia, attraverso la quale Platone identifica costoro con i filosofi, che egli individua come gli unici governanti degni di questa funzione così importante e delicata:
Se nelle città i filosofi non diventeranno re o quelli che ora sono detti re e sovrani non praticheranno la filosofia in modo genuino e adeguato, e potere politico e filosofia non verranno a coincidere, con la necessaria esclusione di quelli che in grande numero ora si dedicano separatamente all’una o all’altra attività, le città non avranno tregua dai mali, Glaucone, e neppure, credo, il genere umano (Plat. Resp. 473d).
Nell’economia del nostro ragionamento non abbiamo bisogno di indagare le infinite sfaccettature di questa dichiarazione, tra le più note dell’intera storia della filosofia occidentale. Ci basta evidenziare il fatto che, per Platone, la filosofia non è una cosa per tutti e che essa viene convocata in ambito politico per evitare la catastrofe democratica, cioè della generalizzazione delle competenze vista come il peggior incubo per la comunità degli uomini. A governare devono essere i migliori, che per forza di cose non possono essere tutti, ma nemmeno la “moltitudine” della gente. Il merito, secondo Platone, non viene favorito da un sistema democratico, che confonde la quantità con la qualità, illudendoci che la massa possa rappresentare il bacino di coltivazione del valore individuale, quando invece ne costituisce l’infallibile deterrente. «La democrazia sarà una forma di governo piacevole, anarchica e variegata, che dispensa una certa qual uguaglianza a ciò che è uguale come a ciò che non lo è» (Plat. Resp. 558c). Questo è il punto e il cuore nevralgico della questione: la democrazia livella e rende uguale ciò che per natura non lo è, ovvero favorisce un sistema di appiattimento delle capacità e delle possibilità individuali, il che è contrario alla valorizzazione delle propensioni del singolo, cioè al perfezionamento di ciascuno, che invece si esprime più facilmente nell’aristocrazia, dove cioè effettivamente i meriti individuali sono riconosciuti e avvalorati.
Quis aestimabit ipsos aestimatores?
Dichiarare che i migliori (incidentalmente, filosofi) devono tenere le redini del potere significherebbe oggi aprire immediatamente il dibattito su chi è effettivamente deputato a stabilire la selezione dei suddetti e sulla base di quali criteri. In verità, la domanda è legittima e applicabile in generale alla questione del merito, al punto che si potrebbe traslare il celebre interrogativo di Giovenale sulla “custodia dei custodi” – «quis custodiet ipsos custodes?» (Giovenale Satire, VI, O31-O32) – sulla scivolosa categoria dei valutatori. Quis aestimabit ipsos aestimatores?, ovvero: chi valuterà l’operato degli stessi valutatori, la loro correttezza oltre che la loro scala di merito? Dopo quello sulla democrazia, necessaria ma al contempo controproducente per l’emersione del merito, ci confrontiamo con un secondo paradosso, concernente la difficoltà nello statuire oggettivamente chi merita cosa, nonché chi è deputato a stabilirlo. Se Platone, nei confronti dei guardiani, si concede di tagliare corto esclamando che sarebbe «ridicolo che un guardiano avesse bisogno di un guardiano» (Plat. Resp. 403e), dopo due millenni e mezzo la domanda è più che mai attuale, anche perché nel frattempo il tentativo di determinare, nei vari campi di applicazione, la scala di volta in volta più adeguata alla valutazione ha dato i suoi frutti, e non per forza sempre positivi. Dalla valutazione (in decimi, centesimi, quindicesimi, giudizi, stelline dorate e quant’altro) del rendimento scolastico degli studenti fino ad arrivare alle tanto criticate prove Invalsi, stabilire merito o demerito di qualcuno non è impresa semplice e spesso ci troviamo a fare i conti con risultati che non soddisfano le nostre aspettative, che non fotografano in modo esaustivo la realtà dei fatti o che risultano addirittura controproducenti rispetto alla determinazione dell’effettiva qualità del servizio erogato. Il gruppo di lavoro Eduscopio, per esempio, stila ogni anno la classifica dei “migliori” istituti di istruzione secondaria ed è inevitabile, per le famiglie, tenere conto almeno in parte di questa graduatoria, senza però magari porre attenzione al fatto che
L’idea di fondo del progetto eduscopio.it è proprio quella di valutare gli esiti successivi della formazione secondaria – i risultati universitari e lavorativi dei diplomati – per trarne delle indicazioni di qualità sull’offerta formativa delle scuole da cui essi provengono.1
L’iniziativa è volta a comprendere quali sono le scuole migliori sulla base dei susseguenti successi dei loro iscritti: la scelta del team statistico è quindi quella di valutare un percorso di formazione sulla base delle sue conseguenze, con ciò sottoscrivendo la tesi, tutt’altro che unanime, per cui la qualità di un’offerta formativa è commisurata ai profitti futuri che da essa si realizzano. Gli impliciti di questa impostazione, di per sé legittima quanto qualunque altra visione prospettica su un fenomeno, sono molti, andrebbero discussi e invece vengono sostanzialmente trascurati nel momento in cui, semplicemente, si consulta la classifica alla ricerca del liceo o dell’istituto “migliore”. Dal sito ricaviamo anche un altro dato su cui vale la pena soffermarsi perché si connette alla valutazione degli atenei, perlopiù fondata su criteri analoghi:
In particolare, per i percorsi universitari dei diplomati, eduscopio.it guarda agli esami sostenuti, ai crediti acquisiti e ai voti ottenuti dagli studenti al primo anno di università.
Basare il merito di un’istituzione formativa superiore sul numero degli esami sostenuti e sui voti è un’operazione non per forza “rigorosa”, come invece dichiarano i suoi promotori, ma apparentemente abbastanza lineare. Sulla base di dati analoghi vengono compilati anche i ranking accademici mondiali, quelli, per capirci, in base ai quali ogni anno veniamo a scoprire quali sono le più prestigiose università al mondo e quanti punti hanno perso o guadagnato nel campionato i nostri atenei, inorgogliendoci se scorgiamo l’Alma mater bolognese, la Sapienza o l’antica università patavina “appena” qualche decina di righe più in basso rispetto ai colossi americani della inarrivabile Ivy League. Eppure, non serve essere addentellati del sistema accademico per registrare le macroscopiche trasformazioni occorse nell’ambiente connesse proprio alla diffusione di tali meccanismi di valutazione. Possiamo riassumere le più evidenti in una catena causale abbastanza semplice: se l’università viene reputata migliore nel momento in cui i suoi iscritti hanno voti più alti e ottengono più crediti nel minor tempo, la preoccupazione dei rettori sarà quella di tenere il più possibile alti i punteggi alle prove scritte e orali, nonché di permettere ai discenti una carriera che sia il più lineare e agevole possibile. In un quadro così abbozzato, quello che conta non è la qualità del servizio erogato, ma, anche in questo caso, i risultati di performance quantitativa. Chi promuove questo genere di valutazioni sottolinea che si tratta dell’unica via possibile perché spostarsi dai dati oggettivi per entrare nel merito della qualità didattica significherebbe addentrarsi in un terreno accidentato, che di fatto limiterebbe la libertà dei docenti di scegliere come impostare le proprie lezioni, andando a imporre un protocollo uniformato che non corrisponde alla pluralità di voci che invece è proficuo incoraggiare. Quello che si tende a trascurare, tuttavia, è che anche la valutazione quantitativa entra in verità prepotentemente nel merito della questione e sortisce degli effetti tutt’altro che secondari, incidendo sullo sviluppo del fenomeno che, quindi, essa non si limita a giudicare sine ira et studio. Ma, se l’oggettività e l’imparzialità nella valutazione sono chimere destinate giocoforza a rimanere tali, ci si chiede cosa effettivamente rimane del merito, una volta mostrato che esso è tecnicamente impossibile da definire in modo unanime e neutrale. A quanto pare, infatti, non si tratta soltanto di denunciare il favoritismo nei confronti di una certa visione di una situazione, ma di arrivare ad ammettere che non è possibile stabilire il merito di qualcosa o di qualcuno senza aver pregiudizialmente abbracciato una posizione ideologica o comunque condizionata sul fenomeno.
«Devi cambiare la tua vita!»
Le strade senza uscita nelle quali ci si imbatte parlando del merito sono diverse; l’ultima che abbiamo preso in considerazione, quella relativa all’impossibilità di stilare criteri oggettivi per la valutazione, apre a sua volta la strada a un’ulteriore considerazione, ancora più generale, che riguarda le derive che la cultura del merito trascina con sé. Al di là infatti dell’impossibilità di poter parametrare in modo esatto la realtà, va detto che l’idea stessa di valutazione sottende una logica che è quella della produttività e del profitto esponenziali. L’esistenza di una scala, a prescindere da quali siano i suoi gradini, spinge a percorrerla in termini ascendenti, nella speranza di poter arrivare al vertice che, una volta conquistato, si deve ugualmente ambire a non abbandonare. Introdurre un voto significa quindi incitare il candidato a fare sempre meglio e sempre di più, in una spirale di massimizzazione performativa che, applicata al piano economico e politico, è la stessa che sta conducendo al collasso il sistema-mondo. Lo spiega con incisiva semplicità Harari:
La modernità […] si basa sulla convinzione che la crescita economica non sia solo possibile, ma assolutamente essenziale. […] Questo dogma fondamentale può essere riassunto in una semplice idea: “se hai un problema, forse hai bisogno di acquistare qualcosa; e se vuoi acquistare più cose, devi produrne di più”.2
Il paragrafo nel quale è inserita questa considerazione non a caso si intitola La torta miracolosa e l’allusione è al fatto che, al di là delle proiezioni dei nostri auspici, è sempre una torta dalle dimensioni finite quella che dobbiamo spartirci: né le risorse né le materie prime, ma nemmeno le energie individuali sono illimitate ed è ingenuo pensare di potervi attingere indefinitamente, come se si trattasse di fonti inestinguibili. Il risultato è un esaurimento ad ampio spettro, che comprende le catastrofiche crisi ambientali sul piano collettivo, ma anche le drammatiche crisi di presenza a livello individuale, i burn-out che, secondo Han, rappresentano gli endemici effetti collaterali di vite dopate che non stanno più al passo di ritmi umanamente sostenibili: «Come suo rovescio, la società dell’azione e della prestazione genera stanchezza eccessiva ed esaurimento»3.
Le malattie psichiche come il burn-out o la depressione – le malattie tipiche del XXI secolo – presentano tutte dei tratti autoaggressivi. Si fa violenza a sé stessi e ci si sfrutta. Al posto della violenza causata da estranei subentra una violenza autogenerata, che è ben più fatale della prima, perché la vittima di questa violenza si crede libera.4
Un discorso critico a proposito del merito non può evitare di confrontarsi con questi aspetti, anche per cercare di porvi rimedio in un modo che sia sensato e in vari sensi sostenibile. Per far ciò, all’ampio movimento di decostruzione bisogna forse affiancare una strada che riparte dalle origini della questione, e che considera il significato primordiale del termine al centro della nostra riflessione. Spiega infatti il vocabolario etimologico che ‘merito’ ha una radice latina nel verbo mereri, che significa acquistare, guadagnare, ottenere. Fin qui tutto in linea con il significato moderno di conseguimento di un risultato rispondente agli sforzi profusi per ottenerlo. Più interessante è invece risalire ancora più su la catena linguistica, per giungere alla radice greca mer-, il cui spettro semantico copre accezioni quali porzione, partizione, distribuzione e parte. Famosa è la sua declinazione in moira, che assume il senso di destino come fatalità, ovvero “parte che è capitata in sorte”. Vivere pienamente vuol dire per gli antichi greci innanzitutto conoscere e accogliere la parte che ci è stata affidata. Questo è dunque il nostro primo e più grande merito: comprendere e accettare la nostra natura, senza volerne ostacolare gli sviluppi o forzarla in una direzione che non le appartiene, costringendola cioè verso vie che non le sono proprie. Gli eroi tragici, Edipo in primis, raccontano ex negativo le nefaste conseguenze nelle quali ineluttabilmente incorre chi si rifiuta di allinearsi alle leggi della vita e del cosmo. Che lezione possiamo trarre da questo breve excursus? In che modo queste parole ci aiutano ad approfondire il tema del merito? Credo che ascoltare l’antica eco di questo termine ci aiuti a trovare una via alternativa di riflessione e ci faccia capire che il merito non è forse soltanto quello quantificabile in una scala di valutazione, ma che esso descrive anche e sperabilmente un approccio diverso alla vita, che parte dalla consapevolezza di ciò che ciascuno di noi è. L’introduzione del concetto di graduatoria nell’ambito semantico del merito impedisce in effetti lo scavo interiore, diverso e unico per ognuno di noi, che permette di sintonizzarci con la natura profonda del sé individuale. Nel 2009 Sloterdijk ha pubblicato un volume che il cui titolo è il calco di un celebre verso di Rilke: «Devi cambiare la tua vita». Sulla scorta di questo ammonimento, il filosofo articola un ragionamento che parte dall’atletismo fino a giungere all’antropotecnica, cioè all’insieme di esercizi che gli uomini mettono in pratica su di sé per tracciare il solco di un cambiamento nella propria natura e in quella dell’habitat socio-culturale di cui sono parte:
Con questo termine [antropotecniche] intendo le condotte mentali e fisiche basate sull’esercizio, con le quali gli esseri umani delle culture più svariate hanno tentato di ottimizzare il loro status immunitario sia cosmico sia sociale, dinnanzi a vaghi rischi per la propria vita e a profonde certezze di morire.5
Senza scendere nei dettagli dell’argomentazione, ci interessa notare che la verticalità alla quale il filosofo si riferisce concerne il merito più sul piano della realizzazione personale che su quello dell’accertamento pubblico dello stesso. L’uomo di Sloterdijk è in un costante processo di miglioramento di sé che parte dalla profonda coscienza delle proprie potenzialità, così come dei propri limiti. Per il filosofo tedesco questi ultimi sono più incidenti di percorso che ostacoli invalicabili e, attraverso l’uso della tecnica, ci sarà possibile in futuro correggere queste imprecisioni. Io non posso prevedere gli sviluppi della rivoluzione tecnologica, ma pare oggi evidente che il benessere dell’individuo si gioca sul filo sottile dell’equilibrio tra lo slancio a mantenersi psico-fisicamente in salute e il consapevole riconoscimento della propria connaturata imperfezione: in un’epoca nella quale siamo sottoposti alla costante pressione di un’accelerazione generalizzata, per non soccombervi né ignorare le sfide che essa porta con sé dobbiamo forse ridefinire il nostro merito, che non sembra essere tanto quello di sentirsi perennemente in gara con sé e con gli altri, ma di impegnarsi a tenersi in costate allenamento, allo scopo di trovare sé stessi e la propria parte nel mondo.
NOTE
1. Reperibile all’indirizzo https://eduscopio.it/il-progetto, consultato il 6 marzo 2023.
2. Y.N. Harari, Homo deus. Breve storia del futuro, 2015, tr. it. M. Piani, Bompiani, Milano 2017, p. 254.
3. B.-C. Han, La società della stanchezza, 2010, tr. it. F. Buongiorno, nottetempo, Roma 2012, p. 66.
4. Ivi, p. 97.
5. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, 2009, tr. it. S. Franchini, Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 50.