Fin dall’infanzia chi vive in Occidente non può sottrarsi ai racconti delle Principesse: che sia attraverso la lettura ad alta voce delle storie dei Grimm o di Perrault, i cartoni animati o i più recenti live action, le serie come gli ormai dimenticati telefilm, bambini e bambine, ragazzi e ragazze subiscono personagge generalmente poco sfaccettate, dal destino segnato. La Principessa nasce, lavora gratis, soffre e si dispera, affronta prove disumane e catfight tra la vita e la morte e, se tutto va bene, si sposa con il Principe. Questo schema fa della Principessa un ruolo, una funzione tanto narratologica quanto sociale, e relega in secondo piano le eventuali sfumature (le passioni e i gusti personali, la lotta contro le imposizioni paterne, le conseguenze di un lutto, la possibilità di esprimersi liberamente con il proprio corpo). Giusi Marchetta, nel suo Principesse, affronta le «eroine del passato» con le consapevolezze delle «femministe di oggi» (così recita il sottotitolo), e lo fa ripercorrendo le tappe della funzione Principessa dalle fiabe, attraverso le produzioni disneyane, fino alle serie contemporanee.
Dietro la sua analisi si sentono le osservazioni del celebre saggio di Elena Gianini Belotti Dalla parte delle bambine (1973), con l’invito ad abbattere la cappa culturale che pesava e ancora in parte pesa sull’educazione dell’infanzia, gravata dalle cose (giochi, vestiti, gusti) «da maschi» o «da femmin(ucc)e», dai pregiudizi familiari, persino da un diverso modo – ebbene sì – di allattare neonati e neonate. Già Gianini Belotti, con la sua esperienza montessoriana, esortava a proporre attività ludiche variegate, allargando le braccia davanti alla lettura delle fiabe: «Le figure femminili delle favole appartengono a due categorie fondamentali: le buone e inette e le malvagie. […] Non esiste, per quanta cura si ponga nel cercarla, una figura femminile intelligente, coraggiosa, attiva, leale» (cap. III).
Le fiabe, però, non nascono bell’e pronte, non sono «universali»; sono piuttosto il frutto di continue riscritture, che ci hanno infine consegnato versioni compatibili con il sistema patriarcale e la morale romanticamente borghese. Le Biancaneve, le Cenerentola, le Aurora immortalate nel canone delle principesse Disney non solo trascurano gli elementi sanguinosi degli originali (la fanciulla sequestrata in una teca, le sorellastre mutilate e accecate, la necrofilia e la violenza sessuale), ma consolidano un paradigma di bambolina che le giovani lettrici o ascoltatrici dovrebbero imitare nella vita. Negli anni Novanta – argomenta Marchetta – c’è stato uno sforzo di modificare l’archetipo, grazie agli slogan e alle esortazioni motivazionali del cosiddetto empowerment femminista: «ce la puoi fare»; «stringi i denti e otterrai il meritato riconoscimento»; «frantuma il soffitto di cristallo» (poi puoi anche tirar su la scala, perché tanto tu hai vinto); fino al più attuale «pensati libera». Il carattere problematico di questi pur incoraggianti messaggi deriva dal fatto che non contemplano il «noi», limitandosi a estendere alle ragazze, alle donne quell’io e quei princìpi individualistici (leggi: egoistici) su cui è nato il liberalismo occidentale, a partire dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Come fecero notare le rivoluzionarie di fine Settecento, il femminismo che libera le Principesse è un altro, intersezionale: quello che mette insieme uomini e donne, non le seconde al posto dei primi; quello che riconosce e combatte tutti i fattori dell’oppressione, non solo il binarismo di genere; quello che lega misoginia, razzismo, omobitransfobia e abilismo; quello che propone alternative alla norma, al modello unico di coppia, alla divisione dei ruoli, allo sfruttamento politico e capitalistico dei corpi.
Le Principesse in cui Marchetta individua la spinta decisiva verso la liberazione sono, non a caso, tre donne che si ribellano agli stereotipi e, nonostante i tentennamenti della sceneggiatura nelle varie stagioni, hanno suscitato nelle spettatrici (e anche in alcuni spettatori) domande su di sé: la cacciatrice di vampiri Buffy; la «guerriera» Xena; la matrocinatrice di studentesse stem Dana Scully. Nemmeno loro sfuggono, in alcuni punti, alla tirannia dello sguardo maschilista, eppure con la loro capacità di agire e reagire (l’agency), con la loro adesione a ruoli impensabili per una «vera» Principessa, con il loro affiancarsi a partner che non sono il classico Principe con cui accoppiarsi hanno riscritto tante regole della fiaba tradizionale. Xena, in particolare, nella versione originale, non quella doppiata dai soloni nostrani, intrattiene una relazione queer con la compagna Gabrielle, rivoluzionando non solo lo stereotipo della Principessa inattiva e acchittata, ma anche quello della brava moglie del futuro re e brava madre di principini. Xena rivisita così il personaggio dell’amazzone, da Pentesilea a Giovanna d’Arco, fino alla rivoluzionaria francese Théroigne de Méricourt, che aveva invocato la virilizzazione del proprio ruolo di combattente per prendere parte alla vita della nazione, sottraendosi a tutte le griglie culturali che allora confinavano anche le donne della repubblica nel silenzio e nel recinto della casa. Le guerriere come Xena non sono la brutta copia del maschile, ma un momento di rottura per un altro femminile.
E sono le principesse in transizione, tra ruoli, tra generi, tra spazi, che secondo Marchetta suscitano le riflessioni più interessanti: Lady Oscar, che cresce e vive «da maschio» al servizio di una regina straniera e bisessuale e poi si converte alla causa del popolo in rivolta; Sailor Moon, che da studentessa lavativa e ritardataria salva il mondo sacrificando la propria stessa vita, insieme con compagne lesbiche o transgender contro nemici queer (tutti puntualmente ridimensionati nelle versioni tradotte); Ariel, che rinuncia alla natura piscatoria per quella umana (e pare che Andersen l’avesse immaginata pensando al proprio amore infelice per il ballerino Harald Scharff); e potremmo aggiungere L’incantevole Creamy, Magica Emi, la cantante Jem, da quel mondo cartoon pop caro ai «cuori non conformi» meravigliosamente descritti da Jonathan Bazzi. La prospettiva dell’andare oltre e poi del ritornare al di qua, il posizionarsi in un territorio sfuggente o decisamente marginale consente a queste Principesse di confondere i confini, inaugurando esistenze diverse e tentando, non sempre con successo, di scuotersi di dosso le aspettative e le imposizioni del sistema. Per una Elsa che vive da sola per coltivare le proprie passioni serve una Elsa vestita da Principessa, che rassicuri il pubblico della sua genealogia; per una Belle che consulta avidamente i volumi della biblioteca della Bestia serve una Belle incastrata in un corsetto giallo, pronta a soddisfare fantasie zoofiliche con il suo irsuto ospite; per una Mercoledì che vive tra outcast senza paura del giudizio altrui serve una Mercoledì attraente ed eterosessuale, per non farci dimenticare che anche lei, sotto la cipria e il broncio, ha la sostanza della Principessa.
Proprio questi residui omaggi allo stereotipo, secondo Marchetta, rendono difficoltoso, per le emule delle Principesse, trasformare gli spunti controcanonici, le fughe immaginifiche in azioni reali, se non a prezzi personali altissimi. Eppure gli sforzi vanno fatti e qualche risultato c’è stato, come l’aumento di iscrizioni delle giovani alle facoltà scientifiche negli Stati Uniti, sull’onda della laurea in Fisica dell’agente Scully. Il linguaggio, anche quello delle sceneggiature e delle fiabe, dei giochi e dei film d’animazione, non si limita a descrivere la realtà, ma può plasmarla, riformarla, ribaltarla.
Servono quindi immaginari diversi, servono scritture responsabili e non gigionesche, servono libri come quello di Giusi Marchetta per far evacuare i palazzi principeschi e costruirne di nuovi, meno claustrofobici e più accoglienti. E se il lieto fine nuziale non ci sarà, pazienza; ci si accontenterà di un’unione civile.