L’Autore Anonimo tra Cervantes e Manzoni

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La figura dell’Anonimo è la finzione di un autore “senza nome” a cui un autore “reale” si attribuisce il libro che lui stesso dichiara di tradurre o modernizzare, e che il lettore ha sott’occhio in questa forma finale. In sostituzione di un Anonimo può presentarsi la figura del tutto fittizia di uno scrittore inesistente, inventato proprio per assumere questo ruolo autoriale “primario”. Gli esempi di Manzoni e, dietro di lui, di Cervantes, sono fondamentali: si veda l’influsso che il Don Chisciotte esercitò sui Promessi Sposi, sia sul piano dell’ispirazione testuale, sia su quello della tradizione iconografica. Il caso di Pierre Menard, autore del Don Chisciotte ideato da Borges costituisce uno degli ingressi principali nel cosiddetto postmoderno[1].

Fermerò l’attenzione sulla decisiva metamorfosi del testo dei Promessi Sposi fra la Ventisettana e la Quarantana. I due testi sono sostanzialmente identici: mentre è palese a colpo d’occhio che i due libri sono molto diversi fra di loro. Il primo libro è un normale romanzo di stampo ancora settecentesco, pensato in un’articolazione in “tomi” fin dal Fermo e Lucia, e stampato, nel 1827, appunto in tre piccoli tomi, al modo in cui, per portare solo un esempio di grande rilievo, fra 1759 e 1767 era apparso in Inghilterra, in 9 volumi, uno fra i più importanti romanzi europei, il Tristram Shandy di Laurence Sterne. Manzoni (come ha dimostrato Salvatore Silvano Nigro) lesse questo romanzo nella traduzione francese uscita fra 1776 e 1785 Il secondo libro, invece, è uno strumento culturale modernissimo, una straordinaria macchina multimediale, uno spazio dinamico in cui testo e immagini si condizionano reciprocamente, manipolando l’attenzione, la lettura, le emozioni di chi vi entra. E poi, con sagacia modernissima, Manzoni pubblicò il testo a puntate, in ampi fascicoli con lieve copertina azzurra, creando e calibrando con cura l’attenzione dei lettori.

Fig. 1. La struttura della doppia pagina del 1840 (a sinistra) e la dimensione delle illustrazioni sulle due facciate opposte sono state accuratamente calcolate da Manzoni in collaborazione con l’illustratore e il tipografo. La differenza rispetto alla stessa pagina nell’edizione 1827 (a destra) è impressionante: corrisponde a una differente visione del libro aperto e sull’effetto che esso induce nel lettore, dalle sole pagine di testo (1827) a quelle illustrate, centrate con precisione (1840).

 

Fig. 2. A sinistra, l’edizione del 1827, un normale romanzo di stampo settecentesco. A destra l’edizione del 1840: uno spazio testuale dinamico: una macchina multimediale di testo.

 

Dicevo che i due testi sono stanzialmente identici, mentre i due libri sono molto diversi (Figg. 1-2). Per capir meglio, restiamo sui dettagli. Francesco Gonin, l’incisore che guidò l’équipe degli illustratori, gioca con la L maiuscola di «L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo…», disegnandola nell’incisione, strettamente legata al testo, come una poltrona su cui qualcuno sta leggendo un libro (Fig. 3).

Fig. 3.

E questo libro è appunto L’historia scritta dall’Anonimo, che Manzoni finge di leggere e di tradurre in italiano moderno. Ma Gonin fu a sua volta indirizzato da Manzoni stesso, come dimostrano i biglietti e le lettere su cui ha richiamato l’attenzione Salvatore S. Nigro ristampando nel 2002 in edizione anastatica la Quarantana quale terzo volume di un trittico provocatoriamente intitolato: Alessandro Manzoni, I romanzi.

La prima idea geniale di Manzoni per la Quarantana è dunque di far illustrare sé stesso da Francesco Gonin come personaggio-lettore del manoscritto dell’Anonimo Lombardo che noi lettori “autentici” (agentes) stiamo incominciando a percorrere. L’imbricarsi reciproco di testo verbale e testo figurativo, a cui ho fatto cenno, si evidenzia in sommo grado in questo luogo, in cui l’immagine si trasforma in figura verbale, cioè in un ircocervo semiotico-semantico che è nel contempo l’articolo grammaticale e la rappresentazione di un sedile.

Quindi fu Manzoni in persona a voler aprire il suo “nuovo” romanzo con quel gioco fra il testo e l’illustrazione: un gioco intenzionale, e perciò importante, ma in qualche modo rimasto finora “invisibile”, soprattutto nella lettura scolastica. Chi ha mai letto I Promessi Sposi con le immagini di Gonin? La prima edizione scolastica completa di tutte le immagini l’abbiamo offerta, con Loescher, Paola Rocchi ed io. La risposta è stata molto soddisfacente. Tutti i professori hanno constatato che, sottraendo le immagini dal testo seguendo una lunga, ininterrotta e desolatamente totalitaria tradizione (della quale un giorno bisognerà riuscire a comprendere l’origine e il senso), si è alterata la prima e fondamentale regola di posta a Manzoni ai suoi venticinque ascoltatori: ossia leggere contemporaneamente il testo verbale e il testo iconico, da lui architettati in una mise en livre originalissima, di innovatività assoluta. Primo risultato di questo accostamento iniziale al celeberrimo romanzo: I Promessi Sposi del 1840, quelli che ancora oggi leggiamo come “ultima volontà d’autore”, non sono solo un “romanzo”, ma un libro “misto” di parole e immagini, che per questo motivo definisco macchina multimediale. L’autore, per la prima volta nella storia della letteratura italiana, e credo europea, manipola e indirizza le emozioni del lettore attraverso una precisa sequenza testuale-figurativa, da lui creata con strategia da regista cinematografico!

Fig. 4. A sinistra, L’ingénieux hidalgo Don Quichotte de la Manche, ed. Dubochet 1836, p. 1; a destra, L’ingegnoso idalgo Don Chisciotte della Mancia, ed. Ubicini (Guglielmini e Redaelli), 1840, p. V.

Un paragone di straordinaria efficacia iconografica (ma anche ideologica e poetologica) si può proporre, a questo punto, fra l’apertura dei Promessi Sposi e quella del cap. II della traduzione francese del Don Chisciotte, uscita a Parigi nel 1836 presso Dubochet, con le illustrazioni di Tony Johannot. Con tutta probabilità Manzoni lesse il grande romanzo proprio in questa edizione, la quale (mi domando se per suo intervento diretto) nel 1840-41 fu pubblicata in italiano dai tipografi Guglielmini e Redaelli, gli stessi che nel 1840 avevano impresso la Quarantana dei Promessi Sposi. Che questa traduzione italiana del Don Chisciotte sia stata tratta dall’edizione francese Dubochet è evidente: le coincidenze tipografiche parlano chiaro; i due Don Chisciotte sono legati da una derivazione genetica (Fig. 4). E sarà allora da approfondire, con ricerche anche documentarie, l’eventuale ruolo di mediatore svolto da Manzoni in questa edizione italiana. In modo particolare è la funzione sotterranea dell’Anonimo “tradotto” che emerge carsicamente e collega i due libri.

Fig. 5. A sinistra, A. Manzoni, I Promessi Sposi, Milano 1840, Introduzione; a destra, M. De Cervantes, Don Quichotte, tr. fr., Dubochet, Parigi 1836, cap. II.

Il dettaglio paragonabile nei due libri, a cui accennavo, è l’inserimento (Fig. 5) della figura di un personaggio poggiato su o inserito in una lettera maiuscola: la L nel caso manzoniano, la A in quello del Don Chisciotte francese. Sintetizziamo. Di qua c’è qualcuno (cioè Manzoni, l’Autore del libro che noi stiamo leggendo), che, seduto su una poltrona-L maiuscola, legge l’Anonimo che sta per trascrivere (ma il cui libro è interamente inventato). Di là c’è qualcuno (cioè Cide Hamete Benengeli, il finto autore del Don Chisciotte originario in arabo) che scrive, con il suo bel turbante in testa, sotto una tenda-A maiuscola, il libro che Cervantes dichiara di stare traducendo dall’arabo, e di cui racconta addirittura la scoperta.

Ce n’è abbastanza per riconoscere immediatamente un meraviglioso gioco di specchi, un’allusione sottile e davvero allegorica al gesto della scrittura, della composizione del libro che noi stessi, lettori reali, stiamo incominciando a sfogliare. In questa luce la modernità di Manzoni trapela proprio dal meccanismo narrativo multimediale da lui inventato con la Quarantana.

Qui si rende necessaria una breve digressione all’interno del Don Chisciotte, per cogliere il momento di straordinaria potenza ideologica e poetologica in cui Cervantes introduce la figura di Cide Hamete Benengeli come “autore” del romanzo. Non si tratta, dunque, esattamente di un “anonimo”, ma certo di un Nome a cui non corrisponde alcuna realtà biografica, né documentaria. Cide Hamete Benengeli è il personaggio-autore che viaggia segretamente nel libro, nascosto nei primi otto capitoli, e poi d’improvviso chiamato in causa con un coup de théâtre di fondamentale importanza per la storia dell’intera letteratura moderna. E come si vedrà, le cose sono ancora più complesse.

Leggiamo il passaggio dal capitolo VIII al IX del primo Chisciotte (1605), con il duello fra l’hidalgo e il Biscaglino (che ha una coda nel X), su cui in altra occasione insisterei per la sua natura di “fonte” del duello fra Ludovico e il «signor tale, arrogante e soverchiatore di professione», nel IV capitolo dei Promessi Sposi (se ne potrà parlare nella discussione). Questo passaggio a me pare decisivo non solo per lo sviluppo della storia, quanto per il formarsi d’una teoria delle potenzialità narrative che dà vita anche a una pratica della narrazione delle potenzialità, su cui il Novecento vedrà sbocciare i Borges, i Queneau, Oulipo, film come Rashomon di Akira Kurosawa (1950), Destino cieco di Krzysztof Kieślowski (1981), Smoking/No Smoking di Alain Resnais (1993), Sliding doors di Peter Howitt (1998):

Don Chisciotte, come si è detto, si slanciava contro il prudente biscaglino con la spada in alto e l’idea di spaccarlo in due [de abrirle por medio], e il biscaglino parimenti lo attendeva con la spada alzata e ben imbottito col suo guanciale. Tutti i presenti spaventati aspettavano con ansietà quel che sarebbe successo con quei gran colpi che i due guerrieri di minacciavano […]. Il male è che l’autore di questa storia [el autor desta historia] a questo punto lascia sospesa questa battaglia, scusandosi col dire che non ha trovato scritto dell’imprese di Don Chisciotte altro che quelle già raccontate. Ma il secondo autore di questa opera [el segundo autor desta obra] non volle credere che una storia così curiosa potesse star sottoposta alle leggi dell’oblìo, né che i begli ingegni della Mancia fossero così poco curiosi, da non aver nei loro archivi e nei loro scrittoi delle carte che trattassero di questo famoso cavaliere. E perciò con questa opinione non disperò di trovare la fine di questa interessante storia e col favore del cielo la trovò; nel modo che si racconterà nella seconda parte.

I due contendenti, dunque, rimangono con le spade sospese per il colpo fatale, proprio sulla soglia di conclusione del primo volume. Libro e testo interferiscono, a questo livello. A una tecnica del genere ricorreranno Laurence Sterne con il Tristram Shandy e lo stesso Manzoni nel Fermo e Lucia, libro cervantino e sterniano per una dislocazione strategica delle digressioni in luoghi del testo strutturalmente decisivi. Cervantes aveva previsto che la “seconda parte” del primo Don Chisciotte del 1605 dovesse cominciare proprio a questo punto, con quelle spade levate, in un duello feroce e comicissimo, che rischiava però di eliminare lo stesso protagonista. È una logica narrativa che dipende ancora da quella delle chansons de geste, composte da sabios al corrente delle strategie di racconto tipiche dell’epica; ma il lettore moderno non può trattenersi dal vedervi l’origine di una logica diversa, quella del montaggio e del serial cinematografico. Cambiata idea, l’autore eliminerà poi le divisioni in tomi, ricomponendo un solo, compatto volume di 52 capitoli. Ma una traccia fossile anche testuale dell’originaria ripartizione si manifesta all’inizio del capitolo IX:

Cap. IX. Dove si conclude e si dà termine alla meravigliosa battaglia che fecero il gagliardo biscaglino e il valoroso Mancego.
Nella prima parte di questa storia abbiamo lasciato il valoroso biscaglino e il famoso Don Chisciotte con le spade snudate per aria e pronte a calare due furibondi fendenti; tanto che, se si fossero presi in pieno, si sarebbero spaccati da cima a fondo e aperti come due melegrane; ma in quel punto così critico rimase interrotta una storia tanto interessante, senza che l’autore [su autor] ci dicesse dove trovare la parte che mancava. Ciò mi rincrebbe parecchio, perché il piacere di aver letto così poco si mutava nel dispiacere di pensare alla difficoltà di rintracciare il molto, che, secondo il mio parere, doveva mancare di quel racconto così divertente. Tuttavia mi parve impossibile e contro ogni buona consuetudine, che a un così bravo cavaliere fosse mancato un saggio [sabio] che si fosse presa la cura di scrivere [escribir] le sue straordinarie imprese; cosa che non mancò mai ad alcuno dei cavalieri erranti, di quelli, come dice la gente, che «a lor venture van».

Dunque esiste uno «scrittore» diverso da chi scrive, ossia da Cervantes: un «autore» senza nome, che Cervantes “legge”. Ed è lui, questo «autore» ancora senza nome, che lascia interrotta sul più bello l’azione, costringendo il “secondo autore”, ovvero Cervantes stesso (si immagina), a mettersi in cerca della «parte che mancava» (e si noterà che nel brano il verbo «mancare» ritorna ossessivamente tre o quattro volte, non solo per sottolineare l’incompiutezza ipotizzata per il testo, ma per creare un’attesa, un’aspettativa nel lettore).

Chi è l’autore che ha lasciato incompiuta la storia sospendendola in un fermo-immagine di carattere pre-cinematografico di alta drammaticità e comicità? Fin qui si tratta, appunto, di un Autore Anonimo. Una pagina dopo, con un colpo di genio di sconvolgente modernità, Cervantes inventa di aver trovato «la parte che mancava», quando scova al mercato delle pulci di Toledo il manoscritto “originale” di Cide Hamete Benengeli; e fingendo di farsi leggere la versione dall’arabo, riannoderà il filo spezzato della trama con un’altra formidabile giunzione metaletteraria:

Essendo io un giorno a Toledo nel mercato dell’Alcanà, venne un ragazzo a vendere a un setaiuolo degli scartafacci e dei vecchi manoscritti, e siccome io son tanto appassionato per la lettura che leggo perfino i fogli stracciati che si trovan per la strada, spinto da questa mia inclinazione presi una di quelle scartoffie, e la vidi scritta in caratteri che riconobbi per arabi. Ma benché li conosca, non li so leggere, e perciò mi misi a guardare se si vedeva giù di lì qualche arabo convertito che me li leggesse, e non mi fu difficile trovare un tale interprete; perché anche se l’avessi cercato per un’altra lingua, migliore e più antica, l’avrei trovato subito.

Gli dissi il mio desiderio e gli posi il libro in mano, ed egli apertolo a metà e lettavi dentro qualche parola, cominciò a ridere. Allora gli chiesi di che cosa rideva, ed egli mi rispose, che rideva di una nota scritta in margine.

Lo pregai di leggermela, ed egli, senza smettere di ridere, disse:

Come ho detto, qui in margine sta scritto così: “Questa Dulcinea del Toboso rammentata tante volte in questa storia, voglion dire che per salare i maiali avesse la mano felice più di qualsiasi altra ragazza della Mancia.”

Quando sentii dire “Dulcinea del Toboso” rimasi molto sorpreso, perché subito m’immaginai che quegli scartafacci contenessero la storia di Don Chisciotte. Con quest’idea lo pregai di leggermi il titolo ed egli, traducendo ex tempore l’arabo in castigliano, lesse: Storia di Don Chisciotte della Mancia, scritta da Cide Hamete Benengeli, storico arabo.

Mi ci volle una gran presenza di spirito per dissimulare la gioia che provai quando giunse ai miei orecchi il titolo del libro! Subito comprai dal ragazzo tutti gli scartafacci e manoscritti, togliendoli al setaiuolo, per mezzo reale; ma se il ragazzo fosse stato più furbo, e avesse conosciuto il mio desiderio, mi avrebbe potuto spillare più di sei reali.

Mi allontanai subito insieme coll’arabo e lo menai nel chiostro della Cattedrale, dove lo pregai che mi traducesse in lingua castigliana tutti gli scartafacci che trattavano di Don Chisciotte, senza lasciare né aggiunger nulla, offrendogli per il suo lavoro quanto voleva. Si contentò di cinquanta libbre d’uva passa e di due staia di grano, e promise di tradurli bene, fedelmente e semplicemente; ma io per render più facile la cosa e non lasciarmi sfuggire una così bella occasione, lo menai a casa mia, dove in poco più di un mese e mezzo finì tutta la traduzione, così com’è qui riportata integralmente.

Per riassumere questo groviglio intenzionalmente paradossale di attribuzioni d’autorialità: Cervantes finge di interrompere la narrazione mentre don Chisciotte sta per essere tagliato in due dal Biscaglino, alla fine del cap. VIII, e dichiara che «el autor desta historia» lascia in sospeso la battaglia, con la scusa di non avere trovato scritto, delle imprese di Don Chisciotte, «altro che quelle già raccontate». Raccontate da chi, Cervantes non lo precisa. Ad ogni modo, dunque, anche l’ancora anonimo «autor desta historia» ha avuto delle fonti, da cui ha attinto le vicende narrate. «El segundo autor desta obra» (si immagina Cervantes stesso: ma lui resta sul vago), rifiutandosi di credere che «una storia così curiosa potesse star sottoposta alle leggi dell’oblìo», fa cenno all’ipotesi che un archivio o scrittoio di qualche «bell’ingegno della Mancia» possa conservare «delle carte che trattassero di questo famoso cavaliere».

Credo che non vada trascurato un dettaglio ancora più intrigante: il “vero” traduttore del testo risulta l’anonimo arabo che chi dice “io” nel romanzo, cioè Miguel de Cervantes, dichiara di avere assoldato: «in poco più di un mese e mezzo finì tutta la traduzione, così com’è qui riportata integralmente». Dunque Cervantes si propone come semplice reportator, trascrittore di un testo tradotto da altri, e scritto e narrato da altri ancora. Come in un gioco di specchi, o in un caleidoscopio, gli Autori si moltiplicano, fra anonimato e nominazione fittizia.

Tuttavia l’acme di questa invenzione straordinaria è nascosta nell’ultimo capitolo del primo Don Chisciotte, il 52°, una pagina prima della fine del libro. Ritorna la chiamata in causa dell’autore di questa storia, senza precisazioni (Cervantes stesso? Cide Hamete Benengeli? la sua fonte?):

Ma l’autore di questa storia, sebbene abbia cercato con ogni cura e diligenza di ricostruire le imprese compiute da Don Chisciotte nella sua terza sortita, non ha potuto trovare alcuna notizia almeno in documenti autentici. Soltanto fra gli abitanti della Mancia si è conservata la tradizione che Don Chisciotte, la terza volta che uscì di casa, andò a Saragozza, dove si trovò a dei celebri tornei che si fecero in quella città, e dove gli successero cose degne del suo valore e della sua bella intelligenza.

L’autore non potè arrivare a saper nulla nemmeno della sua fine, né mai vi sarebbe arrivato, se per fortuna non si fosse imbattuto in un vecchio medico che possedeva una cassetta di piombo, trovata, com’egli raccontava, nel buttare all’aria le fondamenta d’un antico santuario che si stava ricostruendo.

In quella cassetta s’erano trovate delle pergamene scritte in caratteri gotici ma in versi castigliani, che contenevano il ricordo di molte delle sue prodezze, e davan notizie sulla bellezza di Dulcinea del Toboso, sulla figura di Ronzinante, sulla fedeltà di Sancio Panza, e sulla sepoltura di Don Chisciotte stesso, con diversi epitaffi ed elogi della sua vita e dei suoi costumi; e quelli che si poteron decifrare e leggere son quelli riportati qui sotto dall’autore, storico fedele di questi nuovi e inauditi avvenimenti.

Il quale autore, in premio dell’immensa fatica che gli costaron le ricerche negli archivi della Mancia per portarli alla luce, altro non domanda a coloro che leggeranno la sua opera, se non che gli prestino la medesima fede che le persone di giudizio soglion prestare ai libri cavallereschi, che vanno pel mondo con tanto successo.

E con questo si terrà ben pagato e soddisfatto, e prenderà coraggio a cercare e pubblicare altre storie, se non proprio così vere, per lo meno altrettanto eguali nell’invenzione e utili per passare il tempo.

Qui potrei chiudere questa parte del mio ragionamento, se non ci fosse un ultimo dettaglio, a mio parere stupefacente, che mi piacerebbe sottoporre alla vostra attenzione, sotto il segno del gioco letterario che ho scelto come base del discorso, ossia la moltiplicazione-cancellazione dell’autorialità. E questo dettaglio si impernia, ancora una volta, sul Don Chisciotte, epicentro di una rivoluzione nel rapporto moderno fra letteratura e visione del mondo. Dicevo poco fa che fra i capitoli VIII e IX del romanzo cervantino fiorisce uno fra gli snodi di potenzialità decisivi per il genere-romanzo e per tutta la moderna teoria e pratica della narrazione. Questo romanzo antico è modernissimo: il don Chisciotte ha insegnato che la letteratura contiene la letteratura, che contiene la letteratura, che contiene la letteratura…

Ecco perché Jorge Luis Borges inventò, inserendolo nel suo capolavoro assoluto, Ficciones (Finzioni), apparso nel 1944 e poi nel 1955, un Pierre Menard, autore del Don Chisciotte. Chi è Pierre Menard, sconosciuto a qualsiasi storia letteraria, autore fictus al pari di Cide Hamete Benengeli? Borges fornisce una lunga lista di sue opere, che potrebbe ricordare il finto catalogo della finta Biblioteca di San Vittore, nel VII capitolo del Pantagruel di François Rabelais (1532). Poi conclude: «il punto cruciale dell’opera «sotterranea, l’infinitamente eroica, l’impareggiabile», di Menard (oltre a quella «visibile» minuziosamente elencata poco prima): «Quest’opera, forse la più significativa del nostro tempo, consta dei capitoli IX e XXXVIII della prima parte del Don Chisciotte, e di un frammento del capitolo XXII».

Insomma: il capitolo IX del Don Chisciotte, dice Borges, è una delle opere di Pierre Menard. La critica non lo ha mai sospettato; ma io lo propongo con fermezza, visto che Borges è l’inventore dell’idea contemporanea della Letteratura come Finzione: il numero del capitolo non è scelto per caso, ma proprio perché in quel capitolo IX si cela il “trucco” della molteplice autorialità del Don Chisciotte. La «parte che mancava» nella storia, come si è detto, Cervantes la troverà nel suo stesso romanzo una pagina più tardi, nascosta nel manoscritto “originale” scovato al mercato di Toledo, composto in arabo da Cide Hamete Benengeli. O forse, chissà, come suggerisce il grande postillatore Borges, proprio da Pierre Menard. Pierre Menard “è” Cide Hamete Benengeli, “è” Cervantes, “è” Borges stesso. E sarà anche l’Anonimo Lombardo di Manzoni?

La letteratura scrive e riscrive, si cita, fiorisce in quei collegamenti che chiamiamo intertestuali, o nelle fantasmagoriche mises en abyme di sé stessa.


Nota

[1] Questo testo costituisce parte del mio intervento, dal titolo L’Anonimo, al Convegno Biografia e biografismo: il peso della vita di un autore nella presentazione dell’opera letteraria e scientifica, organizzato a Milano nei giorni 16 e 17 febbraio 2023 dall’Istituto Gonzaga e da Loescher Editore, con il patrocinio dell’Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Studi letterari, filologici e linguistici.

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Corrado Bologna

è stato Professore Ordinario di Letterature romanze medioevali e moderne presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ora insegna Letterature comparate.

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