Trans-letteratura #4: Ricciardetto e Fiordispina

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Nella favola ariostesca di Ricciardetto e Fiordispina, amore omosessuale e transessualità, anche se solo immaginata, si intrecciano. Concludiamo qui il nostro percorso e tracciamo un piccolo bilancio.

Nell’articolatissima trama dell’Orlando furioso Ludovico Ariosto inserisce una chicca queer che coinvolge come in un gioco di specchi sia due dei protagonisti del poema (Ruggiero e Bradamante) sia una coppia di personaggi secondari (Ricciardetto e Fiordispina). Tutto ha inizio, nel canto XXV, con Ruggiero (lo stesso travestitosi da donna alla corte della maga Alcina) che si imbatte in un giovane condannato a morte identico alla sua amata: è Ricciardetto, fratello gemello di Bradamante, così punito perché innamorato di Fiordispina, figlia del potente Marsilio, re dei saraceni in Spagna. Ruggiero lo salva, facendo strage dei soldati che lo avevano legato, e quando gli chiede di presentarsi si accorge che, nonostante la forte somiglianza con la donna da lui amata, qualcosa non torna: la bellezza è la stessa, ma «la suavità de la favella» e «la relazion di grazie» mancano (ott. 20). Oltretutto il bel giovane mostra di non ricordarsi il nome del suo salvatore – cosa impossibile se si fosse trattato della vera Bradamante. Il ragazzo scioglie presto ogni dubbio, non lasciando il tempo per manifestazioni d’affetto più ravvicinate. È appunto Ricciardetto, le cui fattezze sono sovrapponibili a quelle della sorella gemella anche perché ormai portano entrambi i capelli corti (unica differenza utile in passato a distinguerli agli occhi dei loro stessi parenti e servitori).

È quindi il momento di una digressione (una «istoria» più bella di qualunque «fabula», proclama Ricciardetto con consapevolezza metaletteraria, ott. 27) sul motivo della condanna a morte a cui è scampato. Pochi giorni prima, Fiordispina, a caccia, aveva incontrato per caso, in un bosco, la vera Bradamante ferita ed essendo costei tutta armata e con i capelli corti l’aveva presa per un cavaliere: «avea la spada in luogo di conocchia» (ott. 28; Bradamante, come poi Clorinda in Tasso, «sdegna ai femminili uffici / chinar la destra» di tessitrice, avrebbe scritto la poetessa arcadica Petronilla Paolini).

Guido Reni, Bradamante e Fiordispina, 1635, olio su tela (Firenze, Palazzo Pitti, Deposito degli Occhi).

È un colpo di fulmine. Fiordispina si innamora all’istante del misterioso cavaliere e lo/a trascina in una radura solitaria per confessare la propria passione lontano da occhi e orecchie indiscrete: «con gli occhi ardenti e coi sospir di fuoco / le mostra l’alma di disio consunta» (ott. 29). In ottave che trasudano erotismo (piene «di dolce e di nettareo succo», ott. 31: altro che petrarchismo canonico!), Fiordispina, senza saperlo, fa coming out e bacia Bradamante. Quest’ultima, trovandosi in territorio nemico, non può reagire brutalmente e così opta per un discorso cortese, in modo da risolvere l’equivoco comportandosi da «femina gentile» anziché da «uomo vile» (ott. 30). Si presenta come cavaliera, sul modello di Ippolita, regina delle Amazzoni, e di Camilla, guerriera virgiliana nel Lazio, ma la rivelazione non spegne l’amore di Fiordispina, anzi lo conferma. Il cuore di costei è diviso in frammenti, uno in sede, l’altro negli occhi di Bradamante, secondo una fenomenologia di tradizione, e le due metà non sono più ricomponibili. Fiordispina si scioglie allora in un lamento, frutto di «doglia immensa» (ott. 33), che ricorda quello di Ifi in Ovidio:

Se pur volevi, Amor, darmi tormento

che t’increscesse il mio felice stato,

d’alcun martìr dovevi star contento

che fosse ancor negli altri amanti usato.

Né tra gli uomini mai né tra l’armento,

che femina ami femina ho trovato:

non par la donna all’altre donne bella,

né a cervie cervia, né all’agnelle agnella.

Esattamente come Ifi, Fiordispina si sente sola al mondo, vittima di un dio d’Amore che ha voluto fornire attraverso di lei un esempio estremo di passione non conforme, ancora più difficile da appagare degli incesti di Semiramide e di Mirra o della zooerastia di Pasifae (ossia le storie di amori fuori dai canoni cristallizzatesi nel tempo). L’eventuale relazione tra le due giovani è priva di modelli, è «folle» (ott. 36), eppur reale, non può ricorrere a nessun espediente per realizzarsi, visto che la potenza di «Natura» sembra vincere su tutto (ott. 37). Al riconoscimento di un’eccezionalità irregolare seguono manifestazioni di autolesionismo, volte ad annullare i tratti femminili, soprattutto il viso e i capelli, per una forma di crudele contrappasso; a nulla valgono le parole di Bradamante che, donna di mondo ma in questo caso disarmata, tenta di alleviare i sintomi dell’amore. Fiordispina cerca «aiuto», non «conforto» (ott. 39); quando invita Bradamante a ricoverarsi nel suo palazzo per non rimanere di notte sole nel bosco, la fa rivestire di abiti femminili e proclama ai quattro venti che sì, stava ospitando una donna. Questa sottolineatura apparentemente accessoria è ricondotta dall’acuto Ariosto a una precisa funzione difensiva in un contesto omofobico: Fiordispina – scrive il poeta – vuole da un lato ridimensionare il proprio desiderio, incrementato dalla vista di Bradamante vestita da guerriero; dall’altro intende scongiurare qualsiasi «biasmo di sé» da parte dei castellani (ott. 41), ovvero i pettegolezzi dei malpensanti su una principessa che si accompagni a una Barbie cavaliere. Nonostante queste precauzioni, le due finiscono a letto insieme, in teoria per riposare, in realtà, nel caso di Fiordispina, per continuare ad alimentare una passione ardentissima e quasi pronta per essere consumata. Anche i sogni sono attraversati dal desiderio: Fiordispina immagina infatti che Bradamante si trasformi in uomo per prodigio e Ariosto le fa invocare Macone, una divinità confusa con il Profeta Maometto nei racconti cristiani (quando in realtà le confessioni abramitiche condividono gran parte della morale sessuale). Nulla però accade e Bradamante non vede l’ora di partire. Al momento di congedarla, Fiordispina le regala un cavallo e una sopravveste da lei cucita. Fu vero addio? Non proprio.

Bradamante torna a casa, ritrova la madre e i fratelli (Ricciardetto e Rinaldo), e racconta loro la storia con Fiordispina, che suscita in tutti «pietade» (ott. 48). Ricciardetto non resta indifferente perché già in passato aveva ammirato Fiordispina, ma aveva poi deposto il proprio amore senza speranza; a quelle parole, si risveglia «l’antiqua fiamma» (ott. 49) di didoniana memoria e inizia la seconda fase del racconto. Ricciardetto intende approfittare della propria somiglianza con Bradamante per riprendere e portare a buon fine il corteggiamento. Ruba le armi e il cavallo della sorella e parte per il castello di Fiordispina, che, al colmo della gioia, ricopre di abbracci e di baci quella che crede essere la sua amante tornata; la invita in camera da letto, slaccia le sue armi e la riveste con abiti femminili (di nuovo una veste da lei tessuta e cucita a marcare la transizione di genere). Quindi lo/a accompagna davanti a tutta la corte, che accoglie le due dame come se fossero regine o «gran madonne»; anche altri cavalieri presenti, poveri maschi illusi, desiderano «con lascivo sguardo» la nuova arrivata (ott. 56). Al sopraggiungere delle tenebre, Fiordispina reinvita l’ospite in camera da letto, evidentemente credendo che sia tornata per compiere quello che il giorno precedente era rimasto interrotto. A questo punto Ricciardetto travestito integra nell’ordita finzione le motivazioni che l’avrebbero spinto/a a lasciarla, ovvero il tentativo di far smorzare l’amore impossibile di Fiordispina; partito da lei – continua – aveva incontrato una ninfa catturata da un fauno che avrebbe voluto divorarla; Ricciardetto-Bradamante aveva ucciso l’aggressore e, come premio, aveva ottenuto dalla ninfa (capace di «sforzar gli elementi e la natura», ott. 62, di scatenare terremoti, di fermare il corso del Sole) di poter essere trasformato in uomo. La ninfa, evidentemente più potente di Macone, avrebbe spruzzato addosso alla finta Bradamante dell’acqua miracolosa e così la donna, come Tiresia in Dante, «sento in maschio, di femina, mutarmi» (ott. 64). Fiordispina intende accertarsi personalmente dell’avvenuta metamorfosi e, come san Tommaso, vede, sente e crede «la veritade espressa» (ott. 65); ciononostante, si trova in un grande turbamento, come chi – scrive Ariosto – pensi di sognare e non voglia destarsi, dopo aver finalmente visto compiersi ciò per cui aveva tanto penato. Torna l’impeto dei baci, compaiono le metafore belliche per gli assalti erotici, insomma finalmente Fiordispina fa l’amore – crede lei – con Bradamante: sarà una notte di «risi, feste, gioir, giochi soavi», di contorcimenti e di unioni che alle fronde e alle aure di Petrarca sostituiscono ben più carnali «e colli e fianchi e braccia e gambe e petti» (ott. 69). L’affare va avanti qualche mese, finché il re Marsilio lo scopre dai pettegoli di corte e fa condannare a morte Ricciardetto, che oltretutto è nemico politico e religioso del sovrano. E qui Ruggiero era intervenuto per difenderlo e portarlo con sé.

È un peccato che Ariosto lasci spezzato, nel seguito del poema, il discorso su Fiordispina, la quale non riappare più. Convinta dalla bella menzogna di Ricciardetto, sembra fare la parte dell’ennesima sedotta e abbandonata. Qualcuno le avrà riferito che il cristiano era stato liberato e non condannato a morte, poi chissà. Quel che è certo è che Ariosto ci ha consegnato sia un racconto di amore omosessuale senza falsi pudori, nei suoi snodi ricorrenti (la coscienza dell’emarginazione, la difficile accettazione del corpo e delle sue pulsioni, il percorso dentro e fuori l’armadio per antonomasia), sia la descrizione di una metamorfosi transessuale (pur soltanto immaginata), in questo caso non di chi ama ma di chi è amato.

Ritroviamo un Ricciardetto più moderno e consapevole in uno degli splendidi racconti di Altri libertini (1980) di Pier Vittorio Tondelli. Protagoniste di Mimi e istrioni sono le Splash, un gruppo di quattro ragazze che nella boiardesca Reggio Emilia scorrazzano tra un abboccamento amoroso e una radio femminista su biciclette transessuali («prima dell’operazione era un Solex, ora invece una leggiadra Graziella»). Sono la Nanni, la Sylvia, la Pia (l’io narrante) e la Benny, già Benedetto, che così, in una scrittura trascinante, è presentata da Vicky:

Benny si chiama Benedetto ed era un uomo o meglio un ragazzo ma ora fa la checca con noi ed è il quarto asso del nostro Poker Godereccio e succede alle volte che qualcuna di noi ci fa all’amore, perché è molto dolce, ma bisogna farlo fumare un casino, sei sette spini per metterlo in tiro, a patto naturalmente di tenergli un dito infilato per di là, sennò care mie, nemmeno provarci.

Con un linguaggio che ricorda i dialoghi delle cortigiane di Pietro Aretino, in cui termini considerati insultanti si trovano a proprio agio nel contesto provocatorio e solidale di una comunità di escluse, Tondelli ci descrive un degno erede del transessuale Ricciardetto (anche se di transizione opposta si tratta, da Benedetto a Benny) e un timido seguace del pansessualismo di Mario Mieli. Aperta a entrambi i piaceri disponibili in momenti diversi, la Benny manifesta una dolcezza tipicamente femminile, ricorre a risorse extrafisiche e, quando costretta alla parte del maschio, cerca anche lei di piantare «lo stendardo» come Ricciardetto in Ariosto (ott. 68).

L’attore Nicola Di Benedetto interpreta Mario Mieli nel film “Gli anni amari” (2020).

Conclusioni

Dal mito all’epica, dalle novelle ai racconti contemporanei, dalla poesia antica a quella moderna, la transessualità ha trovato in letteratura quella piena cittadinanza che la società e la politica hanno a lungo negato ai suoi rappresentanti. Grazie alle potenzialità narrative e stilistiche dei racconti di transgender, gli scrittori e le scrittrici hanno immaginato ciò che non è più solo una fantasia letteraria, anche se appellarsi alle istituzioni e agli organismi pubblici, in certi Stati, oggi è meno fruttuoso che invocare Iside o Macone. Prima che la scienza, la medicina, la psicoanalisi occidentali affrontassero senza più pregiudizi l’incongruenza di genere, i racconti di Tiresia, di Ifi, di Zinevra, di Ricciardetto ci consegnano un nucleo di «sapere», con tutti i suoi corollari di non sapere, di fingere di sapere, di credere che altri sappia, di non voler sapere, che in contesti più o meno transfobici segnano la vita delle persone transessuali, bollate a lungo come fenomeni da irridere, macchiette, individui da ignorare o marginalizzare. I testi di Ovidio, Boccaccio, Ariosto ci mostrano invece come il travestitismo se non la transessualità, l’essere-in-divenire, la metamorfosi del genere siano non solo una possibilità immaginifica, ma una chiave di lettura per comprendere la realtà.

Letterature e lingue intere sono nate nel segno del prefisso trans-, grazie alle tra-duzioni di opere considerate capolavori, come l’Odissea latina di Livio Andronico o la Bibbia tedesca di Martin Lutero, che hanno inaugurato il fecondo passaggio tra mondi diversi. Dopo secoli in cui è stata esplorata ampiamente la sponda cis– del fiume letterario, a strapiombo sulla norma, è arrivato il momento di valorizzare anche la riva trans-, dalla morfologia più flessuosa e accogliente. E chissà che non vi ritroveremo la Benny senza più spini, la Fiordi senza più spina.


Leggi anche il primo articolo, su Tiresia, il secondo, su Ifi, e il terzo, su Zinevra/Sicurano.

L’11 giugno alle ore 18 Johnny L. Bertolio presenta il Controcanone alla libreria Borgopo (via Luigi Ornato 10, a Torino) insieme alla docente Erminia Ardissino.

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Johnny L. Bertolio

Si è diplomato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha conseguito il PhD alla University of Toronto, dove ha maturato una variegata esperienza nella didattica dell’italiano. Attualmente collabora con Loescher come autore e redattore nell’ambito umanistico.

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