«Leggiamo ancora opere vecchie di tremila anni. Forse tutto è diverso da allora ma ciò che non è mai cambiato è la natura umana. La natura dell’uomo è la stessa fin dalle origini. Per questo i miti antichi ci dicono cose che sono vere ancora oggi». Tempo fa ascoltavo un’intervista rivolta a Daniel Mendelsohn, scrittore statunitense e studioso dei miti omerici (suo il romanzo autobiografico Odissea. Un padre, un figlio, un’epopea, Einaudi, Torino 2016, trad. it. di N. Gobetti) e le sue parole, confrontate con la mia esperienza di lettrice e di insegnante, mi parevano al tempo convincenti e stonate, per ragioni molto simili a quelle ritrovate in un recente testo di Johnny L. Bertolio pubblicato su «La ricerca», Cosa fare dei “nostri” miti?: credo anch’io nell’importanza di un’accorta mediazione culturale, affinché si possa spiegare a chi ha meno strumenti e meno conoscenza del contesto «perché quelli che per noi sono valori imprescindibili, in un passato remoto o prossimo non lo erano» e, nello specifico dell’epica antica, affinché sia ben chiaro ciò che separa Achille, l’eroe prototipico, disposto a tutto pur di non perdere la faccia, dall’etica della responsabilità che vorremmo sostanziale alla nostra identità di uomini e donne di questo tempo[1].
Nel suo saggio Itaca. Eroi donne e potere tra vendetta e diritto (Feltrinelli, Milano 2002), Eva Cantarella delinea con precisione le coordinate del mondo inscenato dai poemi omerici: gli eroi sono immersi in una cultura di vergogna, dominati da un impulso di morte che non permette di tollerare le offese ed esige vendetta, sacrificio tribale, con la funzione compensativa di ristabilire numericamente l’equilibrio tra i diversi gruppi di potere, e atto che garantisce al singolo la buona fama: vale per la strage dei Proci e delle ancelle da parte di Ulisse, come per l’abuso necrofilo del corpo di Pentesilea da parte di Achille.
Una violenza reificante domina il primo poema omerico, come osserva Simone Weil nel breve saggio L’Iliade o il poema della forza, non occasionalmente pensato all’alba della seconda guerra mondiale: «Tale è la natura della forza. Il suo potere di trasformare gli uomini in cose è duplice e si esercita su due versanti: essa pietrifica in modo diverso, ma in egual misura, le anime sia di chi la subisce, sia di chi la usa» (ed. Asterios, Trieste 2021, p. 71, a cura di M. Trentadue, trad. it. di G. Baldanzi, V. Paramithiotti). Tra i correlati più interessanti della questione posta da Simone Weil è ciò che succede quando la logica eroica della forza, muscolare e pietrificante, entra nel rapporto tra i sessi e nelle relazioni più intime degli esseri umani. Qual è il paradigma che Omero offre? In che misura ci riguarda ancora? E dunque: può una lettura riflessiva del mito tradursi, per chi li incontra oggi, in una sorta di cura culturale?
Sono temi ineludibili quando si parla dell’Iliade e delle schiave (Briseide e Criseide precedono la sorte che sarà di Andromaca e Cassandra); proverò a estendere l’indagine alla coppia più famosa dell’antichità, Ulisse e Penelope, dedicando un po’ più d’attenzione a colei che nei secoli ha pagato il carisma eccezionale del marito.
I giganti feriti di Igor Mitoraj
Mi trovavo in Sicilia a fine settembre, avevo progettato un percorso che comprendeva Vendicari e Noto, Piazza Armerina e la Villa del Casale, la Valle dei Templi ad Agrigento, e, a sorpresa, alle bellezze attese si sono aggiunte le monumentali sculture di Igor Mitoraj, i suoi “giganti feriti”, dal 24 luglio al 31 ottobre, esposti contemporaneamente in tre siti dichiarati Patrimonio dell’Umanità Unesco: appunto il sagrato della cattedrale di Noto, la Villa Romana del Casale, il centro storico di Piazza Armerina e lo spazio prospiciente il Tempio della Concordia ad Agrigento. Il titolo L’abbraccio ha ben qualificato un progetto che, dopo sedici mesi di emergenza sanitaria, puntava a offrire ai visitatori una rinnovata speranza. La piazza della Cattedrale di Noto, il sagrato e la facciata illuminate da una luce dorata, si popolava di figure metafisiche: la testa di un Eros bendato (1999), la statua di Dedalo (2010), le Gambe alate (2002) e la coppia di Ikaro alato (2000) e Ikaria (1996) – personaggi, questi ultimi, che si trovavano anche alla Villa del Casale, insieme ai due volti della Coppia per l’eternità (2012), una delle sculture più recenti del maestro polacco, scomparso nel 2013.
Le opere di Igor Mitoraj hanno una cifra inconfondibile: monumentalità, riproposizione e misteriosa risemantizzazione dell’antico. Viene spontaneo domandarsi cosa ferisca Eros, potenza teogonica da Esiodo in poi e motore del mondo, o come interpretare la posa del grande Ikaro caduto, ai piedi del tempio della Concordia di Agrigento – le ali integre nonostante il suo precipitare, il corpo teso, come pronto a rialzarsi, l’espressione intensamente compresa in se stesso.
La figura più sorprendente è però Ikaria, perché Ikaria non è una reinterpretazione del mito, ma una creatura nuova, che con la statua di Ikaro, che quasi sempre la accompagna, è nominalmente imparentata. Le sue numerose e diverse esecuzioni hanno alcuni tratti ricorrenti e inconfondibili: la statua è acefala (il suo volto non può esprimere nessuna emozione), il sesso è coperto da una testa di Gorgone, il corpo adolescenziale è proiettato verso l’alto, le ali sono intatte e pronte al volo, ma le braccia tese al cielo sono mozzate e una mano maschile la trattiena alla caviglia destra. Il particolare ritorna quasi ossessivo: alla Galleria Contini di Venezia (Stefano Contini è tra i più impegnati conoscitori e divulgatori del maestro) ho ritrovato una enorme scultura che si concentra sul piede trattenuto a terra.
Chi conosce la vita e la poetica di Igor Mitoraj può intuire quanto la rappresentazione di questa coppia ricorrente rifletta la tormentata interiorità dell’artista, ma sappiamo che il valore comunicativo dell’opera può talvolta trascendere l’intenzione originaria: allora quel nome, Ikaria, a qualcuno ricorderà che anche Penelope è spesso identificata dal patronimico di figlia di Icario. Suggestioni paraetimologiche? Probabilmente sì, ma sarà interessante capire se (pur nella casuale assonanza) l’Ikaria di Mitoraj può illuminare qualcosa della donna Penelope. È certo, per esempio, che il volo trattenuto ricorda molto la condizione della donna nella società greca non solo arcaica, ridotta nella possibilità di movimento e di espressione.
Parlo delle donne come Penelope e Andromaca, naturalmente, ma si potrebbe dire lo stesso anche delle meno esemplari Elena e Clitemnestra, spose infedeli, il cui movimento, e il cui assenso, è strappato dalla forza di Paride e di Egisto. Inoltre, all’origine della letteratura (e a ben vedere per molti secoli), le nostre antenate hanno avuto poca o nessuna voce: escluse, se non dal canto, almeno dal canone della trasmissione poetica (con poche eccezioni alle quali si dovrà dare valore statistico), sono state tuttavia molto cantate. Di loro si è ragionato e si ragiona, per così dire, in contumacia. Per larga parte della letteratura occidentale le donne tacciono e il loro tacere è molto più che un suono mancante, è una storia delle aspirazioni e dei desideri umani raccontata a metà.
In generale, se il canone delle nostre discipline ci porta a identificare e proporre soprattutto i padri e i maestri della letteratura, dell’arte e del pensiero, dobbiamo alle madri silenziose almeno il riconoscimento del silenzio in cui la storia le ha lungamente collocate[2]. È proprio in quel silenzio che Penelope, la buona moglie di Ulisse, la figlia di Icario, ha più di una blanda parentela con la statuaria creatura di Mitoraj a cui è impedito il volo. Per misurare la tenuta dell’ipotesi, partiamo da Itaca.
L’opacità di Penelope omerica
Si arriva quasi sempre al testo omerico conoscendone la trama per sommi capi; il mito, in un certo senso, resta oggi ciò che era ieri, uno straordinario nucleo generativo: le storie degli eroi circolano in molti linguaggi, dunque si sanno, e la trama epica non teme dello spoiler, poiché il finale è quasi sempre già noto. Per godere del testo originario, occorre dunque innanzitutto sgomberare un immaginario carico di tutto ciò che è venuto dopo: l’idea che Ulisse rappresenti l’essere umano tout court, che il suo viaggio sia emblema della vita stessa, come vuole la bella poesia di Kavafis, ma anche la tenace fedeltà della sua sposa, silenziosamente compresa nel gesto di filare e aspettare – tutte immagini che hanno ovviamente un senso o una legittimazione originaria nel modello, ma che rischiano di soffocare con il pregiudizio il piacere della lettura.
Se partiamo dalla Penelope filologicamente consegnataci dal testo omerico, il primo pregiudizio da scardinare è proprio lo stereotipo della saggia e prudente fedeltà. La sposa omerica è, a dispetto della funzione esemplare del testo (che punta a trasmettere modelli valoriali), un personaggio opaco, non esente da contraddizioni in gran parte dipendenti alla particolare storia del testo.
I testi omerici sono testi storici che testimoniano il crollo della civiltà micenea, l’ingresso in un medioevo ellenico essenzialmente orale e da ultimo i primi segni di quella che sarà la polis classica. Nella vicenda raccontata agiscono e parlano personalità stratificate: contraddizioni, incertezze, pronunciamenti incoerenti, a pensarci bene, sono proprio gli ingredienti che rendono i personaggi meno stereotipati e più vicini a noi, nascono talvolta da una combinazione filologica in cui anche il caso ha la sua parte selettiva. I poemi sono insomma luogo di convergenza di strutture narrative orali (si pensi agli epiteti formulari, non sempre coerenti o giustificati dai versi in cui compaiono) e il punto di vista che definiamo omerico, ossia la tendenza a organizzare il materiale vario in una narrazione unitaria, il più possibile compatta e coerente. Si potrà dire perciò che Penelope è quella che è per molte ragioni, non tutte legate alla volontà del suo autore, condizione che la rende ancora più interessante, a mio avviso.
E dunque, quanto ad affidabilità e fedeltà della sposa, alcuni passaggi non tornano, a partire dal dato più evidente che essa sia l’ultima a cui il protagonista rivela la sua identità. Inoltre, nel libro XVII dell’Odissea, la vediamo scendere agghindata e splendente nel megaron (sia pure sotto la pressione di Atena) per invitare i Proci a portare doni: dopo vent’anni di assenza del marito e quattro di assedio serrato da parte dei pretendenti, si dichiara pronta alle nozze proprio mentre da ogni parte arrivano segnali del prossimo ritorno dello sposo. Si pensi poi al sogno che Penelope confida al falso mendico Ulisse (Od. XIX): non la consola l’interpretazione ottimistica per cui le oche sarebbero i pretendenti che usurpano il palazzo e l’aquila che le assale lo sposo che torna ed esercita la sua vendetta; la spiegazione dell’ospite non placa affatto il turbamento di Penelope come invece ci aspetteremmo. E ancora, sul finale: perché la sposa di Ulisse non crede a Euriclea quando l’anziana nutrice le offre la prova provata dell’identità del marito (la ferita, il corpo), meritandosi anche il rimprovero di Telemaco? Basta la funzione narrativa (la suspance dell’ultimo stratagemma, il talamo) a giustificare la durezza della donna?
La coppia Ulisse e Penelope riproduce un’antica tradizione folklorica: il racconto del felice ritorno dello sposo partito per la guerra, plot narrativo che, ci dicono gli specialisti, precede Omero, e che sopravvive fino a tempi recenti (si pensi al film Brothers del 2009, dove la protagonista si è nel frattempo infatuata del fratello dello sposo marines in Afghanistan).
Per molti versi Ulisse e Penelope si direbbero l’uno specchio dell’altra: l’uomo dal multiforme ingegno ha il suo corrispettivo nella donna saggia, che eccelle nel conoscere astuzie; entrambi hanno un’intelligenza pratica, connessa all’azione, che rende il loro operare efficace, è metis. Ma se la metis di Ulisse va sempre a buon segno, perché associata alla forza, quella muliebre ha un suo limite nell’essere qualità di chi non ha altre armi al suo arco e qui è il primo limite della sua condizione.
La bellissima sposa di Ulisse è infatti la donna ideale anche perché la sua qualità si concentra in uno spazio ridotto: vive in stanze separate dell’oikos, intenta ad opere tipicamente femminili come la tessitura; lì la rimanda Telemaco quando in pubblico prova a lamentare la tristezza dei lutti cantati dall’aedo Femio e lei si compiace del limite impostole dal figlio, segno di piena adesione al ruolo che la sorte le ha assegnato. Eppure, nei quasi vent’anni di solitudine, Penelope ha governato Itaca e fatto in modo che un equilibrio pur precario impedisse il collasso di un sistema che attendeva il ritorno dell’uomo di casa.
La drammaticità della vicenda che colpisce Itaca nel mito traduce almeno in parte la realtà: un recente podcast del giornalista Luca Misculin, intitolato La fine del mondo, descrive efficacemente quel periodo che, tra 1200 e 800 a.C., segnò il cosiddetto Medioevo ellenico, la dark age in cui, pur nell’assenza di documenti scritti, possiamo immaginare che la storia di Itaca fosse comune a molte comunità; ed è lo stesso Ulisse, in veste di mendico, a confessare al porcaro Eumeo, poco prima di ritrovare il cane Argo, che non teme le reazioni dei Proci perché ha molto subito, come chiunque, mosso dalla fame, sia stato costretto a scappare, a cercare ospitalità e a portare guerra. In un contesto di tal genere Penelope governa, ad interim, per assenza dello sposo, ma così finisce per sconfinare dal paradigma della buona moglie, misurandosi con qualità non comuni a una donna del suo tempo e del suo rango: qualità “virili”, e qualità che un po’ la associano alle donne altre, quelle di cui è bene diffidare. Come Circe e Calipso, infatti, vive sola e comanda sulla servitù, benché la sua casa sia l’oikos di famiglia e non uno spazio naturale; come Circe e Calipso tessendo canta, anche se il suo canto è un lamento; come loro impiega in pubblico la sua voce, rivolgendosi con autorità ai pretendenti e confessandosi ben oltre l’opportuno con l’ospite che non ha ancora riconosciuto. Ma con Circe e Calipso Penelope condivide qualcosa di ancora più ambiguo, la magia del tempo: l’astuzia della tela, quel procrastinare la scelta, facendo e disfacendo, crea per incanto un tempo sospeso, impaluda i pretendenti lontano dalle loro incombenze, li distrae nell’attesa di un verdetto che sembra non arrivare mai, ed essi imbestialiscono nell’abuso di vino e vivande altrui, mettendo in atto la hybris che il ritornato vendicherà.
L’ambiguità dell’archetipo della buona moglie è ben indagato in uno scritto fresco di stampa nel quale Giorgio Ieranò mette a confronto la sposa modello con la cugina Elena: Elena e Penelope. Infedeltà e matrimonio (Einaudi 2021). Le due cugine acquistano nell’indagine di Ieranò tratti meno scontati; ne escono una Elena con molte attenuanti e una Penelope con parecchie ombre. Al centro della ricognizione di Ieranò è l’ipotesi che l’adulterio sia non già un accidente ma il tema centrale del secondo poema omerico, come già l’ira era il tema del primo. Aleggia fin dai primi versi dell’Odissea il fantasma di Agamennone e l’ossessiva ripetizione del suo tragico nostos: Clitemnestra è la vera antitesi di Penelope e l’infedeltà che evolve nella morte violenta dello sposo il leit motiv del poema.
Insomma, sono molteplici le ragioni che, fin dalla prima ricezione dell’opera omerica, produrranno dubbi sulla fedele sposa di Ulisse. Ma l’indeterminatezza di Penelope è anche la ragione che la rende interessante e duttile. Il seguito di questo intervento esplorerà come la sua figura si presti a continue riscritture.
[continua]
Note
[1] Quanto segue è il cuore di una lezione proposta al corso insegnanti di Opera Prima, un percorso sul femminile silenzioso e svelato dell’epica omerica e sulla persistenza del modello fino a noi. Mi ha guidata nel percorso la ricca indagine di Maria Raffaella Cornacchia, La traccia del modello. Ricezione della figura di Penelope nella letteratura contemporanea (tesi di dottorato in lingua e letteratura greca, Università di Bologna 200).
[2] I saggi di Eva Cantarella ci guidano nel ricostruire (e riproporre alle classi) i capisaldi della misoginia greca, sin dall’esordio omerico, ne citerò due: il primo è appunto il già citato Itaca; il secondo l’ancora più celebre, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana (Feltrinelli, Milano 2010).