Il tema dell’altro nella Commedia

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Dante ha una visione dell’umanità che possiamo definire onnicomprensiva – nessuno, nella sua opera, è radicalmente “altro”: sull’apertura intellettuale della Commedia, summa della cultura del Medioevo.
Arazzo fiammingo del quattrocento conservato al museo del Bargello di Firenze.

I medievisti sono impegnati da tempo in una nobile battaglia per correggere i più infondati luoghi comuni sull’età di mezzo, apparentemente con poco successo: l’immagine dei “secoli bui” come epoca di fanatismo, superstizione e ignoranza continua a prevalere, e non solo fra gli indotti, così come la convinzione, verificata personalmente più volte parlando con neodiplomati di ogni indirizzo, che sant’Agostino e san Tommaso siano stati più o meno contemporanei (li separano otto secoli e mezzo, uno in più di quelli che separano san Tommaso da noi!). Nelle poche righe che seguono vorrei mostrare come la Commedia di Dante, l’opera che per consenso universale costituisce una summa della cultura del Medioevo, sia fondata invece su un’apertura intellettuale che dovrebbe indurre, se non vergogna, almeno un poco di umiltà, in noi occidentali del XXI secolo.

Noi e gli altri: musulmani e pagani nella Commedia

Jurij Lotman e Boris Uspenskij, nel loro fondamentale Tipologia della cultura (Bompiani 1975), dedicano pagine importanti all’analisi dei sistemi culturali (semiologici) che si fondano sulla distinzione fra “interno” ed “esterno”, fra ciò che appartiene alla cultura stessa (noi) e ciò che è estraneo (l’altro da noi, il diverso, l’estraneo). Una delle interpretazioni più perfette di questa tipologia culturale è espressa nella formula che ricorre più volte nella Chanson de Roland, a riassumere la contrapposizione elementare alla base del cosiddetto spirito di crociata: Paiens unt tort et crestiens unt dreit, cioè «i pagani hanno torto e i cristiani hanno ragione»[1]. Ebbene, meno di due secoli più tardi, all’inizio del Trecento, la Commedia sembra espressione di una cultura opposta. Dante ha una visione dell’umanità che senza timore di smentita possiamo definire onnicomprensiva – nessuno, nella sua opera, è radicalmente “altro”.

Restiamo sull’esempio dei musulmani: come è noto, Dante condanna Maometto e Alì nella nona bolgia dell’VIII cerchio, tra i seminatori di discordia; ma più numerosi degli scismatici sono i musulmani citati fra gli spiriti magni del Limbo (il Saladino fra gli uomini politici, Averroè commentatore di Aristotele, il grande medico Avicenna); e soprattutto Dante non cade nel rozzo fraintendimento dell’Islam che dagli anonimi autori delle chansons de geste verrà trasmesso ai poemi cavallereschi rinascimentali, vale a dire l’attribuzione al più rigoroso fra i monoteismi di una parodia di trinità (Maometto, Tervagante e Apollo) che attinge addirittura al politeismo pagano. Gli studi di Miguel Asín Palacios e di Maria Corti (fra gli altri) hanno ampiamente documentato la serietà e la profondità del rapporto fra Dante e la cultura dell’Islam, che si accetti o meno l’ipotesi che il Libro della scala di Maometto abbia contribuito alla topografia del Purgatorio.

Ancora più clamorosa è l’apertura nei confronti dei pagani. Più che alla collocazione di Traiano in Paradiso, che aveva alle spalle una lunga tradizione (ma Dante affianca al celebre imperatore l’oscuro Rifeo, sulla base di un passo dell’Eneide assai liberamente interpretato), mi sembrano decisive la scelta del poeta di farsi guidare nei primi due regni dell’aldilà cristiano da un poeta pagano come Virgilio, e non da un santo o da un teologo della propria religione; l’invenzione di uno spazio all’interno del Limbo (il «nobile castello») popolato di grandi anime pagane – invenzione tutta dantesca, senza apparente giustificazione teologica e senza precedenti nella cultura medievale; e ancora (il caso forse più suggestivo, tanto da aver sollecitato in sede critica infinite discussioni) la collocazione di Catone (pagano e suicida) a guardia del Purgatorio e la sua destinazione finale al Paradiso quando, con il Giudizio finale, la funzione del Purgatorio stesso verrà meno.

Dante e i dannati: suicidi, sodomiti, eretici

La contrapposizione fra “noi” e “gli altri” non investe neppure i peccatori condannati all’Inferno. E se è facilmente giustificabile la commozione del poeta pellegrino di fronte a Francesca o a Ciacco, peccatori per incontinenza, sorprende l’atteggiamento di Dante nei confronti di un peccato assai più grave come il suicidio, che in alcuni casi (Didone) viene ignorato, in altri (Catone) addirittura esaltato come gesto di libertà.

Anche la sodomia (che Dante colloca, come il suicidio, fra i peccati di violenza) suscita atteggiamenti difficilmente spiegabili alla luce del presunto oscurantismo medioevale: non possiamo dimenticare infatti che il “famoso saggio” Virgilio, soprattutto nelle Bucoliche, ma anche nell’Eneide, canta apertamente l’amore omosessuale, e ciò non impedisce a Dante di farne il suo maestro e la sua guida; né Dante nasconde ai suoi lettori che Cesare, il fondatore dell’Impero provvidenziale, virilmente «armato con gli occhi grifagni» nel IV dell’Inferno, nel XXVI del Purgatorio compare fra gli esempi di lussuria punita, colto nel momento in cui, nel pieno del trionfo, si sente chiamare “Regina” per i suoi trascorsi giovanili; ma soprattutto, nell’incontro decisivo con Brunetto Latini, Dante ha parole dure, sì, nei confronti di chi si è «lerciato» del peccato di sodomia, ma per poter parlare con il vecchio maestro, che si trova più in basso di lui, nel sabbione infuocato, procede a capo chino «com’uom che reverente vada», cioè con un atteggiamento che, nel corso del viaggio, non trova altri esempi prima dell’incontro con Catone.

Un altro esempio: se numerose fonti confermano che, pur essendo condannata in teoria, l’omosessualità era assai più tollerata nel Duecento e nel Trecento di quanto non sia stata in epoche più vicine a noi, non c’è dubbio che l’eresia fosse invece oggetto di una fiera condanna; gli eretici sono “l’altro” per antonomasia e Tommaso d’Aquino spiega nella Summa teologica che «da essi proviene un peccato, per il quale hanno meritato non solo di essere separati dalla Chiesa con la scomunica, ma di essere tolti dal mondo con la morte». Dante, come è noto, instaura con Farinata e con Cavalcante un dialogo che, per quanto difficile e aspro e pieno di malintesi, non lascia affatto intendere che gli epicurei (oggi diremmo gli atei) siano esclusi dall’appartenenza alla medesima umanità cui appartiene il poeta con i suoi lettori, anzi: con Farinata l’autore condivide l’amore per la propria città, con Cavalcante l’affetto per Guido. La condanna per il peccato non comporta la separazione radicale, l’annientamento della comune appartenenza al consesso umano.

Un’ultima osservazione, a conferma di quanto profondamente il poema dantesco contraddica l’immagine vulgata del Medioevo: nel canto XX, dove descrive la bolgia degli indovini, Dante dedica solo tre versi alle «triste che lasciaron l’ago, / la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine; / fecer malie con erbe e con imago» – cioè alle streghe che affollano il Medioevo dell’immaginario popolare, ma che evidentemente non ossessionavano affatto quello del poeta.

La paura dell’altro: il diabolico

A rischio di apparire didascalico, credo che sia utile per i colleghi insegnanti avere, accanto alle riflessioni teoriche, qualche indicazione pratica frutto di esperienza personale. È possibile leggere il canto di Pier delle Vigne, se in classe per qualche ragione c’è una particolare sensibilità sul tema del suicidio? È possibile leggere il canto di Brunetto a giovani che prendono parte alle manifestazioni del Gay Pride? È possibile leggere il canto di Maometto senza offendere chi aderisce alla religione islamica? La risposta, a mio avviso, è sì in tutti questi casi e in altri consimili: tale è l’apertura che la Divina Commedia rivela nei confronti di tutti gli esseri umani.
La condanna del peccato (di ciò che all’epoca era universalmente ritenuto peccato nell’Europa cristiana) è nel poema sempre netta e tratti severa; ma la concretezza della poesia dantesca fa sì che, di fronte al caso singolo, al peccatore individuale, la profondità dell’analisi porti a una ricchezza di sentimenti e a una varietà di riflessioni che stemperano ogni schematicità e fanno emergere l’infinita sfaccettatura delle esperienze umane.
Il viaggio di Dante, del resto, ha anche una funzione di purificazione individuale: il poeta incontra le anime dannate, e poi quelle del Purgatorio, perché ogni incontro costituisce una tappa nel processo di liberazione dal male e di ascesa verso Dio che Dante come individuo e l’umanità tutta attraverso di lui devono compiere. Dante non è quindi chiamato a riconoscere l’alterità del peccato, ma al contrario il proprio coinvolgimento personale – e quello dell’umanità intera che Dante stesso simboleggia all’interno della narrazione.

Questo non significa naturalmente che la Weltanschauung dantesca non contempli l’esistenza dell’altro, del radicalmente diverso da sé, di un “loro” collettivo contrapposto a un altrettanto collettivo “noi”. Tuttavia, l’altro è concretamente rappresentato dalle manifestazioni del Male (fiere, mostri, diavoli), e non dall’umanità peccatrice. Il sintomo più inconfondibile che Dante si trovi di fronte all’alterità è la paura – il sentimento che per l’appunto è suscitato dall’apparizione non dei singoli dannati, che possono suscitare pena, orrore, compassione, disprezzo, ma mai timore, bensì del diabolico nelle sue varie forme: Dante prova paura di fronte alle fiere, e in particolare alla lupa; di fronte alle presenze minacciose che scandiscono il viaggio nell’Alto Inferno (la porta, Caronte e gli altri demoni dall’aspetto sempre più mostruoso); prova un vero e proprio terrore di fronte ai diavoli che gli impediscono l’accesso al Basso Inferno, poi agli sguaiati Malebranche dei canti XXI e XXII; e il terrore raggiungerà il massimo dell’intensità possibile quando, nel canto XXXIV, Virgilio gli svelerà l’immensa figura di Lucifero, colui da cui ogni male procede, l’incarnazione stessa dell’alterità.

Esilio, esclusione, alterità

Attribuire alla grandezza umana di un poeta o di uno scrittore l’impostazione ideologica della sua opera è sempre assai rischioso: sia perché si potrebbe cadere in un biografismo ingenuo e sul piano metodologico assai poco proficuo; sia perché nessuna opera, e tanto meno i grandi capolavori universalmente riconosciuti, merita di essere giudicata in base ai nostri criteri di moralità e ai valori più o meno ufficialmente condivisi nella nostra epoca. La questione deve porsi in altri termini, anche laddove si chiami in causa (e il testo lo autorizza, ovviamente) l’esperienza biografica dell’autore.

Dante, come è noto, scrive la Commedia negli anni dell’esilio, e l’esiliato, nel Trecento come oggi, è l’escluso per definizione, colui che si trova al di fuori (della propria città, del proprio contesto di riferimento, della propria cultura e dei propri legami affettivi, intellettuali, professionali). Ma, come sappiamo, nel corso del poema Dante capovolge la situazione: l’exul inmeritus Dante Alighieri diventa coscienza critica della società, la sua condizione di estraneità, per quanto se ne ribadisca in continuazione il carattere doloroso, permette al poeta di meglio comprendere la realtà e di giudicare da una posizione di superiorità morale. Superiorità a prima vista paradossale, ma confermata dagli esempi emblematici, che Dante propone al suo lettore nel Paradiso: prima Romeo di Villanova (canto VI), che in vita è stato ingiustamente condannato all’esilio e ora viene elogiato come “giusto” dalla massima autorità terrena, l’imperatore (Giustiniano); poi Francesco d’Assisi (canto XI), che in vita si è escluso dalla famiglia e dal ceto mercantile a cui apparteneva per nascita per diventare alter Christus grazie all’amore per la Povertà (la reietta da cui tutti fuggono come dalla morte); e infine, naturalmente, Cristo stesso, che, secondo le parole del Vangelo «non ha dove posare il capo», figlio di Dio esule sulla terra.

La condizione di esule di Dante assume quindi un valore universale in rapporto a questi esempi. L’estraneità al sistema dominante, l’alterità rispetto al “mondo” (l’essere esclusi, costretti a fare “parte per sé stessi” – “perdenti”, secondo l’orribile gergo del nostro tempo) diventa in qualche misura la garanzia di una più profonda e sofferta partecipazione al divino e quindi di uno sguardo più vasto e penetrante sulle vicende individuali e su quelle della storia collettiva.


NOTE

[1] Lo stesso atteggiamento, si badi bene, è all’origine di uno dei testi fondativi della modernità, e cioè la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (siamo come è noto nei dintorni della Battaglia di Lepanto), ribadendo con maggiore sottigliezza, ma con uguale schematismo ideologico, l’opposizione radicale fra mondo cristiano (idealmente unitario, compatto, armonioso) e mondo musulmano (il «popol misto» degli asiatici e degli africani, il «multiforme pagano», per riprendere la fortunata formula di Sergio Zatti: disarmonico, caotico, in ultima istanza diabolico).

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Alberto Cristofori

ha organizzato nel 2015 “Milano per Dante”, una lettura integrale della Commedia affidata a 100 esponenti della società civile milanese. È autore di manuali scolastici e traduttore. Ha pubblicato con Bompiani un romanzo e una raccolta di racconti, e dirige una casa editrice per bambini e ragazzi (Albe
Edizioni).

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