Una figura materna ingombrante, la difficoltà di trovare il proprio posto nella vita, una periferia del mondo fatta di gente di paese, di cose di seconda mano, di mentalità ristretta, sono gli ingredienti principali dell’ultimo libro di Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani 2021, 304 pagine), nella dozzina del Premio Strega 2021 e suo terzo romanzo dopo La Grande A (Giunti 2016) e Un giorno verrà (Bompiani 2019).
Ci sono anche gli anni Novanta e i primi 2000, il percorso di crescita veloce di un fratello e una sorella declinato a seconda del genere e del carattere – lui, indipendente e deciso, prende la via delle proteste e partecipa al G8; lei, cerebrale e sfuggente, assorbe rabbia sino a diventare una specie di mina inesplosa. Ci sono le differenze di classe, tra i ricchi della Roma bene e il proletariato che cerca di sopravvivere lavorando in nero, senza protezioni e senza garanzie, come il padre della protagonista Gaia, precipitato da un ponteggio non a norma e ridotto in sedia a rotelle. E poi c’è il lago, l’oltre, un luogo dove tutto sfuma, dove se non sei “figlio di” nessuno ti calcola, dove le cose arrivano in ritardo, quando in città ce le hanno già tutti. Un luogo di frontiera con i suoi totem, i suoi simboli e le sue regole, dove si possono fare cose innominabili protetti da quella strana intoccabilità che solo il vivere in una zona d’ombra può dare.
Gaia attrae gli squilibrati, come Samuele, Cristiano, e li domina. Si dipinge come difettosa e come perennemente “scartata”, di serie B, in realtà ha una volontà di ferro, magnetica. È una piccola despota affilata come una lama. «Cristia’ mi serve benzina», e lui arriva.
È un personaggio che agisce per «sbalzi di volontà», sulla scorta dell’incolmabile distanza che la separa da una figura materna prorompente, talvolta vessatoria, secondo cui «l’unica figlia femmina deve saper studiare, eccellere, andare all’università, diventare medico, ingegnere, entrare nella finanza, pubblicare romanzi e soprattutto leggere, compulsivamente, senza possibilità di tregua».
Antonia, la madre, è una donna che non si arrende, che lotta contro le ingiustizie, che prevarica e che briga per tirare su quattro figli con un marito disabile, e «pare l’eroina di un fumetto, Anna Magnani al cinema». È una figura di donna combattente che finisce per intimidire la figlia, la quale, di carattere opposto, è oppressa dal timore di «non vincere nessuna battaglia». «Perché sempre si oppone? Si erge come diga. Perché non si fa vicina?», si chiede Gaia, esasperata eppure bisognosa della sua approvazione. Un’approvazione che non arriva mai, e che paradossalmente Antonia, dopo violente discussioni, tributerà a Mariano, il fratello, che sembrava outsider e invece si scopre molto simile a lei.
Antonia ricorda un po’ il personaggio di Adi, la figura materna de La Grande A, rappresentata qui in chiave meno vulcanica e più costrittiva, più ostacolo che elemento risolutivo: una voce capace di deviare le decisioni di Gaia, di farle scegliere «un liceo per ricchi, è un atto punitivo, di taglio in profondità, di soffocamento. […] mi dico che l’ho fatto per le mie amiche, […] ma la verità è che mi porto dentro una cosa piccola piccola, una ghianda, un insetto, che è la voce di mia madre, a cui devo dimostrare di non essere da poco».
Il rapporto tra il fratello di Gaia e Antonia invece è viscerale, quasi violento, parte in simbiosi e poi si complica e incrina a causa della politica e dell’adolescenza: Mariano sta cominciando a fare le proprie scelte, sta diventando un ragazzo, un uomo. Nonostante i loro scontri verbali, alla fine del libro è tra madre e figlio che si scoprono la complicità, l’aiuto, la similitudine, e non tra madre e figlia. Mariano e Antonia sono fatti della stessa pasta, irruenti, concreti, pragmatici. Gaia è dall’altra parte della linea.
Si sviluppa qui l’estrema lucidità della protagonista nel rispondere con la violenza alle sollecitazioni del mondo, ai “torti” che nel corso della crescita subisce, quei guai e quelle sconfitte tipiche della vita degli adolescenti, come un bullo tormentatore, una compagna non tanto fidata, un ragazzo poco fedele.
Sullo sfondo delle vicissitudini di Gaia, trasferita a forza da Roma ad Anguillara, costretta a farsi valere sia tra i compagni di liceo benestanti che tra la sgangherata banda di ragazzi e ragazze del lago di Bracciano, la storia di una famiglia ai margini, di una società sfaccettata, di una periferia che si accresce e si moltiplica alle porte della città.
Gaia si racconta e si sdoppia: una parte immagazzina nozioni, declinazioni, poesie, capitoli di letteratura, di storia e di filosofia, l’altra impara a correre al buio in motorino attaccata a Cristiano, a rigare con una chiave la fiancata delle macchine e a «usare il casco di un motorino per colpire in faccia un cretino che vuole costringermi a bere una birra con lui».
Come in una spirale, la tranquilla apatia del lago nasconde in realtà una serie di eventi tragici a cui i personaggi non sfuggono, e nei quali Gaia è sempre implicata.
È un libro ossessivo, dove la protagonista torna sempre sugli stessi avvenimenti, sugli stessi simboli: l’orso gigante vinto sparando agli autoscontri, la maglietta di Superman, il tuffo dai piloni del lago, cose che ha fatto e con le quali le sembra di aver dato prova di sé, ma come se oltre non ci fosse più nulla, come se la Gaia adulta non avesse altre battaglie da vincere. Una malinconia per le vittorie riportate e ora il nulla, come quegli amici che sono rimasti con la mente a un determinato periodo, quella estate, e dopo non hanno fatto più niente.
Caminito è implacabile nei confronti della sua protagonista. Fa seguire al momento in cui finalmente si sente sicura, bella, apprezzata, invincibile la più grande e umiliante caduta, provocata dall’ingenuità e dalla vanità di valere finalmente qualcosa.
«Bevo un sorso d’acqua di lago e mi viene da ghignare: è dolce, è zuccherina, questa acqua, questo pantano, ha il sapore delle ciliegie, della marmellata di clementine, dei marshmallow, l’acqua del lago è sempre dolce, urlo con tutta la voce che ho». Invece questa momentanea ubriacatura di self-confidence prelude al doppio tradimento di migliore amica e fidanzato, un disastro su tutta la linea.
Questo nuovo tipo di personaggio femminile mi sembra comune ad altre scrittrici contemporanee, come Rooney, Baltasar, Bennet, Navarro, Escoria, Tribuiani: un personaggio colto, pieno di strumenti, di cultura, ma profondamente insicuro, conflittuale. Un personaggio femminile con la sindrome dell’impostore, incisivo, intelligente, volitivo, che non crede in sé stesso e nel proprio reale potenziale, finendo per riscuotere consensi senza accorgersene, senza mai essere soddisfatto di sé, del proprio peso nel mondo.
Alla sua terza prova, l’autrice conferma la propria capacità di condurre un romanzo, di dire una parola nuova, di creare una macchina narrativa funzionante. Lo stile si mantiene originale, benché più spigoloso in confronto all’armonico filato di La Grande A, indulgendo in formule fisse che, innervando l’intero romanzo, danno l’idea di una sorta di tic verbale, alla ricerca di una cifra personale, forse della voce narrante piuttosto che dell’autrice. Sono le similitudini e l’utilizzo di sostantivi senza articolo a saltare all’orecchio, come negli esempi seguenti: «tirata come elastico», «come zanzara punge dove sa che c’è pelle», «mi chiedo se c’entri con l’assenza di mio fratello, se adesso si sia resa evidente la mia insignificanza, se lei voglia a ogni costo imbottirmi, come reggiseno, come quaglia e cappotto», «come salsa scaduta, surgelato sciolto», «ingoio umiliazione come polvere d’amianto», «l’ultima parola mi colpisce come sputo sulla fronte», «avevo studiato, mi ero impegnata, come gufo, come faina, come animale che si aggira nelle ore notturne», oppure «Con gli anni la piscina comunale divenne spettro di se stessa, farsa e scherno», «lei mai me l’avrebbe confessato, alle mie spalle stava compiendo delitto», «sputo sul suo nome quasi fosse ragno o formica», «Andrea è tabù e sipario chiuso», «esponendo al quadrato voglia di guerra e vittoria», «Non ho potuto fare a meno di seguirli, perché fiuto guaio, curiosità, baruffa».
Giulia Caminito scrive senza rielaborare, questa volta, vicende storiche, ma scegliendo di dare voce a una generazione, raccontandola fin nei suoi oggetti di culto: i telefilm su Italia Uno, le mèches bionde ai capelli, le figurine dei calciatori, il Game Boy, la PlayStation, Tomb Raider, le Lelli Kelly luminose, i Chupa Chups, il McDonald’s, le compilation del Festivalbar, i dischi di Britney Spears, le uscite pomeridiane alle discoteche per minorenni, la minicar, il motorino con le luci al neon sotto alla pedana, le Big Babol.
La disturbante protagonista si fa comparsa e portavoce di questa diapositiva, la fotografia già stinta di una giovinezza consumata in fretta per arrivare a un “dopo” senza gloria. «Sono finiti i mesi delle vacanze liceali e degli spruzzi, dei lunghi pomeriggi e delle pigre ore del meriggio, sono ingabbiata in questa nuova villeggiatura, così corta da risultare fulminea, insufficiente. L’estate è diventata breve, al tramonto il lago è una tigre, la luce si spezza in strisce gialle e nere dove il sole sta cadendo mentre dall’altro lato si affaccia la notte».
Gaia, distruttiva e allo stesso tempo autodistruttiva – abbastanza da scegliere per sé i flagelli più gravosi, come la facoltà di Filosofia –, non ha problemi a dichiarare la sua «scarsa autostima, la coriacea voglia di offendere e affondare, come se ognuno fosse un pesce e io la mano stretta intorno al suo corpo liscio dentro la grande fontana che è una vita qualunque». Getta un bicchiere vuoto di plastica in un cestino strapieno di altri bicchieri, di altre vite, di altri pensieri, come a sottolineare la gran confusione e la suprema indifferenza in cui passano e trascolorano le esistenze delle persone.
Nella storia raccontata da Caminito s’insinua il dubbio che lo studio e il rendimento scolastico non bastino più, nel mondo di oggi, a garantire un lavoro accettabile, e che non sia più tanto attuale neanche quella forma di riscatto per cui, tramite la cultura e la fatica, un ragazzo proveniente da una famiglia con scarse prospettive abbia la possibilità di superare la propria condizione conquistando un futuro e uno status migliori. Tratteggiando il percorso di Gaia – un percorso costellato di scelte coerenti dal punto di vista scolastico –, l’autrice sembra anche suggerire come soprattutto le materie umanistiche, un tempo considerate veicolo privilegiato di accesso alle professioni “alte”, abbiano perduto la propria valenza, incapaci di garantire a un’intera generazione, che ha investito su di esse il futuro desiderato, un posto riconosciuto e stabile nella società.