Realismo si dice in molti modi

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Con un titolo impegnativo, “Realtà” (Boringhieri, Torino 2020), è uscito l’ultimo libro di Mario De Caro, professore di Filosofia morale a Roma Tre e visiting professor alla Tufts University.
Edward Hopper, American Locomotive, 1944

Il libro continua, almeno in parte, una discussione che ha visto contrapposti tra loro, da un lato, i fautori del nuovo realismo (qui il pensiero non può che andare in primis a Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012), e dall’altro gli antirealisti. Del resto, a tale dibattito, De Caro aveva contribuito, curando, proprio con Ferraris, Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione (Torino, Einaudi 2012).
Sarebbe però riduttivo considerare Realtà come un nuovo episodio del dibattito italiano. Infatti, il testo guarda soprattutto al, si radica sul e riprende il dibattito anglofono di area analitica. Con prosa chiara, efficace e a tratti brillante, il libro presenta e discute il realismo ordinario e il realismo scientifico, dopo avere illustrato le radici storiche del conflitto sul realismo. Vi sarebbe poi un terzo tipo di realismo, nota De Caro, quello che riguarda le entità astratte e che consiste in una forma di platonismo, dato che si impegna circa l’esistenza di universali, numeri, insiemi, specie e significati (p. 19). Questo terzo realismo ha però un suo dibattito a sé che resta a lato rispetto a battaglie riprese centralmente da De Caro in Realtà, come quelle condotte sul ruolo della scienza nel fissare i limiti dell’ontologia, o sul rapporto tra scienza e filosofia.
Ai realismi ordinario e scientifico, De Caro contrappone il «realismo pluralistico» di cui egli è uno dei principali esponenti. Con tale espressione, nel titolo del terzo capitolo, egli designa infatti le tesi del naturalismo liberalizzato (cfr. M. De Caro, D. Macarthur (a cura di), La mente e la natura. Per un naturalismo liberalizzato, Fazi, Roma 2005; l’edizione originale inglese risale al 2004).
Ma andiamo per gradi e vediamo più in dettaglio in cosa consistano il realismo ordinario, quello scientifico e quello pluralistico, e come si distinguano fra di loro.

Il realismo ordinario, scrive De Caro, attribuisce realtà esclusivamente alle cose di cui possiamo avere esperienza, sia essa diretta (con introspezione o mediante i sensi), sia indiretta (attraverso strumenti, come microscopi o telescopi). Si tratta di una concezione tipica del senso comune, pronta ad attribuire oggettività ai giudizi morali, perché e in quanto colgono alcuni aspetti reali del mondo (cfr. p. 34). De Caro attribuisce questa concezione a Husserl: l’operazione è un po’ sbrigativa, perché l’autore avrebbe dovuto fare i conti con l’epoché fenomenologica e con le finezze metodologiche della fenomenologia che portano a parlare semmai di idealismo fenomenologico. Nel complesso però non mi pare che la tesi di De Caro sia priva di punti di forza. Husserl, infatti, prende le mosse dall’orizzonte esperienziale e lo fa, a dire il vero, perfino con una punta di orgoglio: «Se positivismo è la fondazione assolutamente spregiudicata di tutte le scienze sul “positivo”, cioè su quello che si afferma originariamente, noi siamo i veri positivisti» (E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, trad. it. a cura di E. Filippini, Einaudi, Torino 1981-19822, p. 42).

L’impianto Husserliano, afferma De Caro, avrebbe poi influenzato autori come Heidegger, Gadamer, Ricoeur e Derrida, che si sono tenuti lontani dalle forme del realismo scientifico (cfr. p. 36). Quest’ultimo, per parte sua, ritiene che il mondo contenga solo le entità e gli eventi che le scienze naturali possono descrivere e spiegare. Nella sua versione fisicalista, le scienze sono riducibili alla fisica e perciò è questa a fissare l’estensione dell’ontologia (pp. 18-19). Il realismo scientifico viene discusso in tre varianti, che qui posso solo menzionare: il riduzionismo, l’eliminazionismo e il misterianismo. Il grave limite di questo tipo di naturalismo, in tutte le sue forme, è che in un mondo costituito da atomi e vuoto (o se si preferisce di particelle subatomiche), non c’è spazio per obblighi sociali e doveri morali, per atti liberi e responsabili. Ciò significa che l’ontologia di riferimento adottata da questo tipo di realisti non è in grado di supportare né di spiegare il momento normativo proprio del comportamento umano e della struttura sociale.

Quanto al realismo pluralistico, esso può aprire a ontologie più ricche di quelle di matrice scientista e consiste in un naturalismo liberalizzato secondo cui, come scrive De Caro in prima battuta, «disponiamo di una pluralità di chiavi di accesso alla realtà e la realtà stessa è molto variegata» (p. 69). Il lettore può farsi un’idea più articolata di quali siano le tesi fondamentali dei naturalisti liberalizzati attraverso il seguente elenco illuminante.
In primo luogo, la tesi ontologica liberalizzata, secondo cui è razionale credere che, oltre alle entità ammesse dalle scienze naturali, ne esistono altre irriducibili alle prime, ma che non sono soprannaturali.
In secondo luogo, la tesi epistemologica liberalizzata secondo cui, oltre alle scienze naturali, esistono altre fonti genuine di conoscenza irriducibili alla comprensione propria della scienza naturale e però non incompatibili con essa.
Infine, la tesi metafilosofica liberalizzata ritiene che ci siano problemi filosofici che vanno affrontati con modalità che non sono in continuità con le scienze naturali (pp. 73-74). I naturalisti liberalizzati, afferma De Caro, cercano di conciliare le scienze naturali con quelle umane e lo fanno adottando tre strategie fondamentali. La prima consiste nell’ammettere una differenza categoriale tra i due ambiti, così da renderli «logicamente compatibili, ma del tutto indipendenti» (p. 89). La seconda consiste nell’utilizzo della nozione di emergenza, secondo cui vi sono proprietà di livello superiore che non possono essere predette né spiegate e che emergono sul livello inferiore, secondo il principio che il tutto è maggiore della somma delle parti (pp. 89-90). La terza strategia consiste nel ricorso alla nozione di sopravvenienza che riguarda le relazioni tra proprietà subvenienti e sopravvenienti, così che al modificarsi delle seconde deve necessariamente darsi una modifica delle prime, senza che ciò autorizzi poi a concludere che questo comporti la possibilità di una riduzione (pp. 90-91). De Caro sembra preferire questa terza strategia, anche se le critiche che muove alla seconda si potrebbero applicare altrettanto bene alla terza e i motivi che presenta a favore di quest’ultima potrebbero essere addotti anche per difendere l’emergentismo.
Il libro si chiude con un capitolo dedicato al libero arbitrio, così da mostrare come il naturalismo liberalizzato offra un contributo alla discussione filosofica, evitando sia le secche dello scientismo riduzionistico, sia le avventure del soprannaturalismo metafisico.

La lettura mi ha suscitato due perplessità che vorrei segnalare.
In primo luogo, c’è da chiedersi se l’etichetta di “naturalismo liberalizzato” sia un’operazione di design concettuale ben riuscita. Il fatto di ammettere entità irriducibili a quelle riconosciute dalla scienza naturale, sia pur non soprannaturali, mi pare un gesto decisivo che comporta l’uscita dal naturalismo. In questo senso, trovo convincente la riformulazione della critica al naturalismo liberalizzato di Ram Neta presentata da De Caro (p. 82), secondo la quale o il naturalista liberalizzato non è abbastanza liberalizzato e allora non differisce dal naturalista radicale (ma abbiamo visto che non è così), oppure non è una vera forma di naturalismo (pp. 82-83) e qui mi pare si colga il segno. Per escludere il secondo corno del dilemma, infatti, non basta dire che tale concezione esclude il ricorso al sovrannaturale. Per metterla in maniera positiva e in considerazione del fatto che il termine “metafisica” sta vivendo una sua nuova stagione fortunata, potrebbe essere preferibile parlare piuttosto di “metafisica dell’immanenza”, indicando con ciò, al contempo, l’ulteriorità rispetto al momento strettamente fisico/naturalistico, pur termine di riferimento, e la presa di posizione non soprannaturalista.
La seconda perplessità riguarda il titolo stesso del lavoro: poiché, come si è visto, il testo si occupa soprattutto di realismi, ossia di modelli concettuali per riconoscere/esprimere/dare conto della realtà (o dell’essere), forse Realismo, o ancora meglio Naturalismo, sarebbe stato un titolo più preciso. Altrimenti, il lettore potrebbe ricavarne l’impressione che si operi uno spostamento dal piano dell’essere a quello dei modelli concettuali – passaggio che non ci stupirebbe nei fautori di un’ermeneutica postmoderna, costruzionista, magari di stampo nietzscheano. Un esito certo non inteso dal realista pluralista De Caro.

Nel complesso, il testo è utile per le concettualizzazioni che propone ed è interessante per la proposta teoretica che lancia, aprendo a prospettive non riduzioniste e non eliminativiste in ontologia.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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