Parlare di Dante in un anno in cui tutti parlano di Dante. Tentare di farlo con qualche spunto di originalità. Mica facile! Per fortuna, gli autori e le autrici che rispondono all’appello sono quanto di meglio potremmo richiedere alle nostre relazioni personali e professionali. A loro ci affidiamo con animo rasserenato. Ma non del tutto.
Diciamocelo: Dante per la maggior parte di noi è un florilegio di citazioni («lasciate ogni speranza», «le vene e i polsi», «amor ch’a nullo amato», «fatti non foste», «ed elli avea del cul fatto trombetta»…) estrapolate spesso a sproposito e ricollocate con disinvolta googlatura nel loro contesto. Il timore di dar vita a una celebrazione d’occasione, stereotipata e fredda, permane fino alla fine. Fino al momento della rilettura finale.
Sospiro di sollievo: il numero è bellissimo (me lo dico da solo, e non temo smentite). Molto coerente, soprattutto; coeso e completo. Il Dante che ne emerge è indagato per ciò che è stato (al suo tempo) e per ciò che è (ancora). Un poeta d’amore, in prima battuta, anche quando sembra parlare d’altro (Tonelli). Un testimone dell’uso strumentalmente crudele della giustizia umana (Bruscagli). Un creatore di futuro (Sabatini) e di universi (Bologna). Capace di riemergere dall’oblio dei secoli passati (Tellini) per parlare a noi da contemporaneo (Masi), e con voce tanto personale da confondersi con la nostra stessa voce (Brilli e Milani).
C’è però anche un Dante per me inatteso che occhieggia dalle pagine del Dossier. Del Dante “da esportazione”, diciamo così, “made in Italy” culturale di assoluto prestigio, avevo già cognizione più o meno vaga (da Eliot a Pound, a Mandel’štam, a Borges…). Ciò che non conoscevo, invece, è il Dante “interprete” della Guerra civile americana (Matthews); testimone di libertà nella Cina imperialista prima, comunista poi (Brezzi); nume tutelare di una ribellione letteraria e antirazzista in epoca beat (Looney).
Un Dante universale, insomma, sorprendente e stimolante. E avvilito, per contrasto, da una pratica scolastica che spesso sopraffà il testo con l’erudizione, soffocando la narrazione con la critica. Ma è ancora così che può essere proposto oggi, ai nostri studenti, nelle nostre scuole? E solo agli studenti? Solo nelle scuole? Perché non portarlo negli ospedali? o nelle carceri? o sui social? (Noto)
E con quale approccio? Come studio sequenziale o per scelte tematiche? Per canti irrinunciabili o per percorsi lessicali? (Rocchi). Come prodotto tipicamente medioevale o come ponte tra passato e presente, classicista prima che tale etichetta si appiccicasse alle epoche successive? (Reali).
E ancora. Una volta appurato che Dante si può proporre ovunque, qual è il modo migliore di porgerlo? L’esegesi o il confronto diretto (“ingenuo”, direbbe Borges) col testo? Le note o la lettura ad alta voce? Il verso o la sua parafrasi?
Ogni approccio deve essere possibile, a patto però di non tradire l’intenzione dell’autore. «Mettersi a disposizione dell’opera» (Giusti), cercando di non banalizzare con indebite forzature esegetiche il patto narrativo offerto da Dante al suo lettore (Cristofori).
Di certo c’è che il testo dantesco sembra avere ancora moltissimo da dire anche oggi, oltre i confini ristretti della nostra scuola e del nostro Paese. Ed è singolare che sia così, di un’opera e di un poeta così profondamente radicati nel proprio tempo e nella propria cultura. Ma forse no. Forse non è poi così strano. Forse è proprio questo che affascina ancora oggi, e ci parla con voce potente: forse al lettore di oggi, europeo, americano o asiatico che sia, importa meno chi sia a girare intorno a chi (la Terra o il Sole) e molto più che la poesia – l’autentica poesia – si sostanzi di parole di libertà e umanità.