Fra gli audiovisivi che più agiscono sul nostro immaginario storico ci sono quelli televisivi. Ma la Tv tende a fare confusione: ci sono immagini nate per il piccolo schermo e altre prodotte per cinegiornali cinematografici, o per creare degli archivi. A questa genealogia chi fa Tv non dà quasi mai peso, ma chi insegna dovrebbe, perché la storia produttiva di un audiovisivo pesa tanto quanto il suo contenuto. Con questo, che è il primo di una serie di interventi, intendo offrire agli insegnanti un vademecum per usare in classe un documentario storico. Prendiamone uno e smontiamolo, facciamolo a pezzetti, dividiamolo in sequenze, arriviamo fino ad isolarne i fotogrammi, cerchiamo di capire di cosa parliamo quando parliamo di repertorio, in TV come altrove. Ho scelto per iniziare documentari scritti da me e facilmente reperibili in rete.
Arriva il divorzio è andato in onda per la prima volta nella primavera del 2008. Ha poi avuto numerose repliche, e in diverse occasioni è stato presentato in incontri pubblici (scuole, università), perché offre utili elementi di dibattito per affrontare la storia dell’emancipazione femminile e della lotta per i diritti civili nel nostro paese.
Molto spesso alla visione del documentario è seguita una discussione, animata soprattutto dalle ragazze, sui ritardi italiani rispetto a questioni quali il voto alle donne, la possibilità di accedere al pubblico impiego, le consuetudini sociali, ma anche le norme giuridiche che hanno regolato i rapporti di coppia.
Quello su cui qui voglio ragionare, però, non sono gli argomenti trattati nel documentario, ma la sua grammatica, gli elementi che lo compongono, le fonti usate, il contesto sociale in cui sono state prodotte, e i temi, infine, che possono essere sollevati in una lezione a partire dalla puntata – non tanto per quanto concerne, appunto, la storia dei diritti, quanto più in generale per la questione della possibilità di rappresentare il quotidiano e la storia delle donne in TV, il rapporto fra lunga durata e singolo evento, che nella storia delle donne trova forse il suo esempio più emblematico.
Generi
La storia in Tv è normalmente divisa in tre grandi filoni. Il primo tende a raccontare la grande storia, quella dei personaggi più noti, degli eventi periodizzanti. Poi c’è il documentario che unisce storia e mistero, il più vicino all’intrattenimento, di solito accompagnato da un conduttore in studio e da molti effetti speciali. E infine, il grande filone che racconta la storia sociale, sempre più ricco a partire dagli anni Novanta grazie alla sistemazione degli Archivi Rai e alla nascita delle Teche, che hanno restituito alla banca dati della nostra memoria pubblica anni di programmazione televisiva fino a quel momento, di fatto, nascosta.
Muoversi in questa miniera di immagini non è stato e non è facile: ci vogliono ore di visione di programmi per isolare una sequenza, che a volte corrisponde a pochi secondi. Isolarla per cogliere il senso di quello che si vuole raccontare: in questo caso, appunto, la storia sociale delle donne italiane, una storia che, salvo alcuni casi eccezionali, si muove su tempi lunghi, trasformazioni impercettibili, che convivono con retaggi del passato difficilmente scalfibili.
Quando ho iniziato a lavorare su Arriva il divorzio dunque ho avuto innanzitutto questo problema: come dare conto di questa convivenza di vecchio e nuovo, fatto di accelerazioni improvvise e brusche frenate? Come raccontare la lunga durata in TV?
Per fortuna un programma televisivo non si fa mai da soli, e nel caso di un programma di storia esistono due figure fondamentali che giocano un ruolo altrettanto importante rispetto a quello di chi scrive: sto parlando del ricercatore e del montatore, o meglio, in questo caso, della ricercatrice, Fania Petrelli, e della montatrice, Maria Grazia Pandolfo. Con loro ho lavorato al fine di piegare i nodi della storia sociale al linguaggio televisivo, che obbliga la narrazione in tempi contingentati. Abbiamo cercato dunque volti, voci, episodi emblematici di trasformazioni. E in questo senso il fatto che l’oggetto della puntata fossero le donne ci è stato di aiuto, anche se a prima vista potrebbe sembrare il contrario. Potremmo pensare infatti che sono i grandi eventi ad essere maggiormente documentati dalla Tv e attraverso di essa ad agire sull’immaginario sociale. Dall’omicidio di Kennedy alle torri gemelle, passando per il Sessantotto, o il rapimento di Aldo Moro.
È vero, la TV crea icone per il nostro immaginario che si imprimono nelle coscienze degli spettatori. Ma prima delle icone la TV genera un discorso quotidiano fatto di programmi che non sono “edizioni speciali”.
Fonti
E allora, se prendiamo in considerazione le fonti che nel ‘900 ci consentono di studiare la storia delle donne, ci rendiamo conto che uno degli archivi più interessanti e meno studiati è proprio quello della televisione, perché la televisione – in modo incerto, con alti e bassi, con censure, passi indietro ma anche grandissimi passi avanti – ha fin dall’inizio “studiato” le donne italiane dando loro, per la prima volta, voce in modo diretto.
Le interviste che la RAI ha prodotto a partire dagli anni Cinquanta sono una miniera unica per studiare soggetti ai margini: la contadina friulana, l’analfabeta, la studentessa calabrese non sono state ascoltate, in principio, da nessun altro se non dalla TV. L’interesse verso la storia orale è assai tardivo in Italia e inizialmente privo di una connotazione di genere.
La TV ha portato nelle case degli italiani la voce e il volto di quell’anello forte, per usare un’espressione di Nuto Revelli, quell’anello forte della società italiana che sono le donne appartenenti agli strati sociali più marginali. Il periodo preso in considerazione ha una data ad quem: il 1958, anno in cui viene approvata la legge Merlin. Un evento solo in apparenza marginale di fronte ai grandi stravolgimenti del dopoguerra: da un punto di vista della storia culturale, infatti, il 1958 offre la possibilità di vedere come, per la prima volta, i media italiani siano letteralmente obbligati a parlare di sessualità.
I media italiani: fondamentalmente due, per quanto ci riguarda. La RAI, che in regime di monopolio dal 1954 occupa lo spazio dell’etere destinato alla TV, e la Incom, che ha ripreso l’eredità dei cinegiornali Luce e che, con un tocco di americanismo glamour e sguardo divertito sulle notizie, si occupa dell’informazione al cinema, ancora per un decennio.
Per quanto riguarda la RAI, è il primo commentatore politico del telegiornale nazionale, Ugo Zatterin, a dare la notizia: riesce a farlo senza nominare mai neanche una volta le parole sesso, prostituzione, casa di tolleranza, e così via (il video è disponibile qui).
Cosa racconta questo breve repertorio: il conformismo della società italiana, è vero, ma soprattutto un pezzo di storia della tv, quello dominato dal codice di autoregolamentazione che, riprendendo il codice Hayes, pensato per Hollywood, introduce nella neonata TV elementi di autocensura fortissimi.
Diverso il tono usato dalla Incom: il cinegiornale, complice una senatrice Merlin che evidentemente sta al gioco, si diverte mostrando la Politica in atto di chiudere tutto quello che ha in casa: il rubinetto, l’armadio e così via.
Due modi di fare informazione, spesso confusi nel grande calderone delle immagini montate in Tv. Due sguardi dettati da diverse politiche dirigenziali. La Incom, per esempio, darà largo sostegno al deputato socialista Loris Fortuna nella battaglia per l’introduzione in Italia di una legge sul divorzio, mentre la Rai si terrà largamente ai margini della discussione, e gli unici repertori interessanti sull’argomento (cinegiornali come inchieste) si possono trovare oggi nell’archivio della Incom, e non in quello della Rai.
In compenso la Rai apre all’inchiesta, e grazie a programmi come Il lavoro della donna, Chi legge, Viaggio in Italia, Noi come siamo è possibile ricostruire uno spaccato di paese nel quale le donne iniziano a prendere la parola, in politica, nella scuola, nell’università, nelle grandi battaglie per i diritti civili.
Una soggettività, una centralità che ci è restituita anche dallo sguardo degli operatori televisivi. Il cambiamento del ruolo della donna è documentato anche dall’inquadratura: mano a mano che passano gli anni le donne sono sempre meno soggetti ai margini, e riempiono la scena, come le studentesse, le giovani che non hanno più pudore a mostrarsi alla macchina da presa. Anche così si può raccontare la lunga durata in TV. Ovviamente ci sono eventi che accelerano il corso della storia: come il caso di Franca Viola, o la prima legge sul divorzio datata 1969. I due episodi si inseriscono all’interno di un percorso senza però diventare predominanti nella narrazione- questo perché, appunto, le trasformazioni del quotidiano pesano tanto quanto quelle del diritto all’interno della storia delle donne. Il personale è davvero politico.
Sulle icone il discorso è più semplice: abbiamo scelto alcuni casi come quello di Franca Viola, la prima donna italiana a rifiutare il matrimonio riparatore; alcune voci famose come quella di Camilla Cederna o di Oriana Fallaci; Monica Vitti, che incarna nei film di Antonioni il prototipo della donna tormentata; volti di cantanti come Mina o Caterina Caselli, che nei loro comportamenti hanno sfidato norme obsolete di comportamento, e che servono alla puntata per ricordare che vi sono state donne di tutti gli strati sociali che hanno attraversato la modernizzazione del paese agendo in essa in modo più o meno cosciente, ma sempre subendone le conseguenze, se non da un punto di vista pubblico, sicuramento nella sfera privata della famiglia, o della coscienza.
Come le operaie licenziate che non lamentano la perdita di uno stipendio, ma di un ruolo sociale: “quando lavoravamo ci sentivamo qualcosa, ora a casa cosa siamo? niente”.
O la ragazza calabrese che sta a Roma per studiare e scopre un’indipendenza a lei sconosciuta, meravigliosamente simboleggiata dal fratello che sta alle sue spalle e vorrebbe rispondere al suo posto.
O le bambine che andrebbero sulla luna, mentre i loro compagni maschi no.
O la ragazzina di un paese del sud che, intervistata sul movimento Beat, dice: “a me il bittismo non piace. Credono di cambiare le cose con la moda, ma con la moda non si cambiano le cose, bisogna lavorare”.
Infine non abbiamo potuto fare a meno di citare, anche se solo brevemente, Comizi d’amore, il film di Pier Paolo Pasolini girato fra il 1963 e il 1964. Un film di montaggio, un’inchiesta sul sesso e la sessualità degli italiani, sulla loro omofobia, sul loro maschilismo. Anche nel film di Pasolini sono le donne a fare la parte del leone.
“Ragazzina,” dirà Pasolini a un certo punto, “la scoperta più bella di questa mia inchiesta sei tu”.
Credits
Arriva il divorzio, di Vanessa Roghi, 44’
Ricerche Fania Petrelli
Montaggio Maria Grazia Pandolfo
Correva l’anno è un programma di Marina Basile e Tiziana Pellegrini per la Struttura Storia di Rai Tre diretta da Luigi Bizzarri