La mafia da queste parti gode di molta popolarità. In questa parte occidentale della Sicilia la mafia è mito e leggenda. Leggenda nel senso sublime del termine. In questa parte della Sicilia (e non solo, ma io abito in questa) la mafia, comunque, è affascinante, anzi… seducente.
30 aprile 2013. Nell’aeroporto di Trapani attendo l’imbarco con un gruppo di ragazzi dell’area penale, con i quali saremmo andati per cinque giorni a Tezze sul Brenta, in provincia di Vicenza. Per ingannare l’attesa mi aggiro tra gli scaffali della libreria, guardando libri e riviste. Riccardo mi tallona e a un tratto lo sento esclamare: «Belloooo! Fiuuuuu!».
Con impeto afferra un grosso volume, mirandolo e rimirandolo, avvicinando e allontanando la copertina dal suo viso. Il suo entusiasmo mi sorprende. Mi avvicino, curioso di conoscere i gusti letterari del mio giovane amico.
«Questo sì che è un bel libro. Lo possiamo comprare?».
In copertina campeggia la foto di Matteo Messina Denaro, l’ultimo padrino, la primula rossa, il nuovo capo dei capi di Cosa nostra.
«Riccardo, conosci questo libro?».
«No!».
«E allora come fai a sapere se ti piace?».
«A mia mi piace iddu!».
«A te piace lui! Comunque questo libro non parla bene di lui. Questo libro è contro di lui».
«Allura lu posu subbitu».
Riccardo sta partecipando, insieme ad altri cinque giovani, a un progetto che abbiamo chiamato Forum della legalità. Siamo in viaggio verso Tezze, dove ci congiungeremo con un altro gruppo di ragazzi e ragazze provenienti da Napoli, quartiere Scampia. Condivideremo un’esperienza di viaggio (sia i ragazzi del trapanese che quelli di Napoli non sono mai usciti dalla loro provincia di residenza) e ci racconteremo le nostre storie personali. Ma non solo. Racconteremo ai cittadini di Tezze e agli studenti di un istituto professionale, e ad altri giovani del posto, le bellezze delle nostre terre e anche gli scempi provocati delle organizzazioni criminali mafiose. I ragazzi siciliani e quelli napoletani hanno lavorato, infatti, per circa tre mesi alla lettura del loro territorio e hanno prodotto una documentazione fotografica.
Quelli di Marsala (con i quali ho lavorato io) si sono concentrati sulle bellezze archeologiche che affiorano dal sottosuolo, abbiamo passeggiato lungo la costa della laguna dello Stagnone, scoprendone le bellezze paesaggistiche e gli aironi e i fenicotteri, ma abbiamo anche trovato case costruite sulla spiaggia, comprendendo come queste costruzioni abbiano rubato alla collettività la possibilità di fruire di tanta bellezza a beneficio di pochi. E ancora, abbiamo scarpinato per le vallate del trapanese scoprendo le belle e dolci colline dell’entroterra, violentate da centinaia di mostruose installazioni di pale eoliche, molte delle quali non funzionanti o, addirittura, non collegate a nessuna centrale di trasformazione energetica. E i ragazzi hanno guardato, fotografato, commentato, incontrato esperti, ragionato.
Alla fine hanno compreso il senso del bene comune, collettivo, e del disvalore della mafia, di Cosa nostra, che si muove in dispregio della bellezza, pur di accumulare ricchezze economiche e di potere. Conclusioni, queste, cui sono arrivati i ragazzi stessi, non perché qualcuno le abbia inculcato loro, ma perché ne hanno fatto esperienza.
Lo stesso si può dire per i ragazzi di Napoli, anzi, come puntualizzano loro, di Scampia. Come se fosse una città a sé stante. E loro, i giovani di Scampia, hanno documentato la vita nel quartiere “delle vele”, chiamato così per via delle case costruite in tale bizzarra forma. Il loro quartiere rivisto, però, con gli occhi di chi deve raccontare, e quindi colto in un’ottica differente, nei suoi particolari di bellezza e di orrore. Orrore per la difficoltà a vivere in questa zona senza entrare in contatto con i piccoli boss di quartiere, ultimo gradino della gerarchia camorristica, ma non per questo meno pericolosa, che obbliga i ragazzini ad allenarsi dinanzi allo specchio per farsi venire la faccia truce e iniziare a scimmiottare i guappi dell’immaginario condiviso.
Testimoni e protagonisti
Questi ragazzi lasciano dunque i loro territori e scoprono di essere testimoni e, al tempo stesso, protagonisti: sono loro a illustrare, con le loro foto e le loro relazioni, le proprie condizioni di vita e i propri rapporti con le rispettive mafie.
«Riccardo, scusa, ti ricordo che le pale eoliche che hai visto e che stiamo andando a raccontare agli amici del Nord, e che tu hai detto che fanno schifo già solo a guardarle, sono quelle che hanno permesso di accumulare miliardi di euro proprio a Matteo Messina Denaro».
«Ci criristi. Ti pigghiava pù culu. Vulìa viriri soccu mi dicivi… U sacciu, u sacciu, oramai, iddu si fici i miliardi e ai puvireddi un ci retti mancu un centesimo… ».
Lo guardo con lo sguardo un po’ torvo. Riccardo mi sorride, prende il libro e lo rigira sul lato opposto della copertina sullo scaffale. «Oramai mi fa schifu».
Matteo Messina Denaro oramai gli fa schifo, a lui come a tante altre decine di ragazzi che abbiamo voluto accompagnare in un percorso che consentisse loro di conoscere realmente la mafia. Di mostrare il suo vero volto.
Lavoro per il Dipartimento di Giustizia Minorile da circa ventitré anni, e nella quasi totalità dei ragazzi che ho incontrato è stato evidente il loro grado di apprezzamento verso gli uomini d’onore, grazie a una capacità di marketing e di rappresentazione di sé che gli uomini della mafia hanno saputo veicolare. Per i ragazzi questi uomini sono di rispetto, d’onore, leali, giusti, forti, coerenti, di parola. E a queste affermazioni sono arrivati prima ancora delle proiezioni di sceneggiati e film di discutibile capacità educativa.
Attraverso momenti di incontro, di gioco, di progettazione, non è stato difficile coinvolgere, di volta in volta, gruppi di ragazzi, in dibattiti e discussioni sul tema della mafia. Anzi, orgogliosamente, alcuni rivendicavano vicinanze abitative con soggetti riconosciuti come boss o killer. Orgogliosamente vicini di casa o, semplicemente, concittadini. Quando questi ragazzi affermano: «La mafia è lo Stato, la mafia porta lavoro, lo Stato porta povertà, la mafia porta rispetto…», un educatore come pensa di controbattere? Come pensa di poter essere credibile? Alle mie parole di non condivisione, le loro risposte erano di scherno, di chi la sapeva più lunga di me.
Percorsi di legalità
Così nasce l’idea di far incontrare questi giovani con chi, con la mafia, ci ha avuto a che fare sul serio, e non leggendola sui libri ma conoscendola sulla propria pelle.
Il percorso che abbiamo proposto ai ragazzi è stato un cammino a tappe. A ogni tappa un luogo, una storia, una persona, un racconto, una testimonianza.
«Qui siamo a Valderice e hanno ucciso il giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto. Vi presento sua figlia Marene, che aveva 8 anni quando le hanno ucciso il papà».
«Qui invece hanno ucciso Mauro Rostagno, era un giornalista che parlava con la gente. Questi erano i ragazzi, allora tossicodipendenti, che erano in comunità e che lui aiutava a uscire dalla droga».
«Questo posto si chiama Pizzolungo, lungomare di Trapani. Un’autobomba per uccidere il giudice Carlo Palermo ha invece disintegrato un’auto con dentro una mamma, Barbara Rizzo, e i suoi gemellini di 6 anni, Giuseppe e Salvatore Asta. Margherita Asta ha così perduto la mamma e i fratellini a 10 anni, e adesso vi racconta la sua storia e di come è cresciuta da sola».
«Qui, invece, siamo a San Giuseppe Jato. In questa stalla hanno tenuto per gli ultimi mesi, dopo due anni di prigionia, il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino. Hanno sequestrato Giuseppe quando aveva 12 anni, lo hanno strangolato e sciolto nell’acido a 14 anni. Quattro uomini, uomini d’onore… d’onore. Qui non abbiamo nessun parente che vi può raccontare alcunché. Qui invece potete conoscere gli ultimi momenti di vita di Giuseppe stando in questa stanzetta di 2 metri per uno, guardando questa rete arrugginita, chiudendo gli occhi e immaginando il buio che lo avvolgeva. Qui vi parla il terreno circostante, dove Giuseppe è stato “sversato” dal bidone che conteneva il suo corpo disciolto e l’acido che lo aveva corroso».
Io non devo dire nulla. Devono ragionare loro. Devono pensare con la loro testa. Devono confrontarsi con le loro certezze.
«Ma io sapevo che la mafia non uccide i bambini…» e questa è la prima certezza che inizia a sgretolarsi.
«Quattro uomini, quattro persone adulte, contro un bambino. E questi sono gli uomini d’onore? A me manco uomini mi pareno».
«Dopo tutte queste storie che ho sentito. Dopo tutte queste persone che ho incontrato, di nascosto ho pianto. Io la mafia così non l’avevo vista mai. Mi sembrava un’altra cosa».
L’antimafia non è ciò che diciamo ai nostri ragazzi, ma è ciò che permettiamo loro di sperimentare. L’antimafia non è una gara di slogan, ma fornire occasione di visioni, di far vedere la mafia come qualcuno non l’ha vista mai.
Dopo questo cammino, i ragazzi diventano “educatori dei pari” a loro volta, e quando arrivano quelli “nuovi”, che parlano bene della mafia, sono loro a dire: «Ma voi che ne sapete? Davvero pensate di conoscerla? Di conoscerla veramente?».
Siamo nel 2008 quando propongo a uno dei gruppi che sto seguendo di andare a Napoli, perché nella città partenopea Libera ha organizzato per il 21 marzo la Giornata della Memoria e dell’Impegno per tutte le vittime innocenti delle mafie.
«Viaggiare? Partire con la nave? E chi l’ha fatto mai? Già solo per questo diciamo sì! Ma che andiamo a fare?».
Spiego che incontreremo tante persone, tanti giovani che hanno deciso di dedicarsi alla lotta contro la mafia e che il 21 marzo vengono ricordate, una ad una, tutte le persone uccise. A Napoli non abbiamo portato striscioni o bandiere. Siamo sbarcati, però, assieme a tanti giovani siciliani, colorati e con diverse bandiere al vento. I ragazzi si confondono dentro al corteo che muove verso il luogo da cui partirà la manifestazione. Sono sorridenti, si guardano attorno, si sentono quasi fieri di far parte di un gruppo e si sentono quasi a disagio per non avere alcuna bandiera. Mi chiedono dove possono trovarne. Qualcuno li ha sentiti e offre loro la possibilità di portare uno striscione. Loro prima lo guardano, lo leggono. «La mafia è una montagna di merda».
Si ricordano che abbiamo già parlato di quel giovane, come si chiamava?!, Peppino, sì, Peppino. Si illuminano. Anche loro sanno. Afferrano lo striscione e sembrano partire all’attacco. Sul lungomare incontriamo altre migliaia di persone. Ma quanti saremo? Si sparge la voce che siamo circa 150000. E loro ne fanno parte. Riecheggiano i nomi delle vittime. All’inizio sembrano non farci caso, mai poi si fanno più attenti. Alcuni nomi li riconoscono, degli altri chiedono chi fossero. Arriviamo in piazza del Plebiscito e ancora riecheggiano i nomi. «Minchia quanti sono».
Da questa esperienza ha preso avvio il progetto che abbiamo chiamato Amunì, che in siciliano è un esortativo ad andare, a darsi una mossa. E così, ogni anno ragazzi nuovi, diversi, ma accomunati dal loro iniziale tifo e sostegno alle mafie, partecipano attivamente, in piccoli gruppi, a questo percorso per guardare la mafia da un altro punto di vista, incontrando chi l’ha incontrata. E così siamo andati a Genova nel 2012 e a Firenze nel 2013. E sono diventati loro testimoni, e sono diventati loro protagonisti, quando hanno tenuto un incontro alla facoltà di Psicologia all’Università di Firenze, dove hanno raccontato le loro storie di devianza e i loro passi nell’avvicinarsi a una diversa percezione del mito dell’uomo d’onore. Dieci delinquentelli che adesso spiegano a un’aula affollata che la mafia, per loro, è una cosa schifosa e spiegano, soprattutto, come siano arrivati a questa conclusione.
È bello vederli così orgogliosi del loro cammino, delle loro conquiste. E lo dicono: «Non ce l’ha insegnato nessuno, ci siamo arrivati noi da soli. Gli amici di Libera e l’assistente sociale che ci ha dato il giudice ci hanno solo aiutato a incontrare altre persone, a farci parlare con loro e a farci parlare tra di noi». E mentre il progetto Amunì procede, inizia anche il “processo di contaminazione”: i colleghi del servizio sociale per i minorenni di Genova hanno dato vita al progetto Annemu e, con un percorso simile a quello siciliano, hanno portato a Palermo e a Marsala un gruppo di giovani liguri per far conoscere loro storie di mafia e di antimafia. E soprattutto storie di loro coetanei, con percorsi giudiziari simili, i quali si interrogano e ci interrogano su come sconfiggere la mafia, partendo, come scriveva nel suo diario Rita Atria, dal riconoscere quel po’ di mafia che alberga in ciascuno di noi.