In viaggio con Shakespeare nella Logoteatroterapia

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La Logoteatroterapia nasce dall’incontro e il confronto tra diverse discipline che hanno un comune denominatore: la persona e la sua insopprimibile, dirompente, travolgente necessità di comunicare. Il racconto della messinscena di due spettacoli ne illustra le potenzialità.

Il due e il quattro luglio del 2019 sessanta giovani attori affetti da disabilità legate all’area del linguaggio hanno magistralmente interpretato L’isola di Shakespeare, testo composto da adattamenti di alcune opere del celebre autore inglese, consoni alla loro età e al grado di difficoltà, e la pièce C’era una volta… a teatro, entrambi realizzati dalla sottoscritta. L’età degli attori variava dai cinque ai trentasei anni, e le loro disabilità spaziavano dall’ipoacusia al DSA, passando per il DSL, DGS, la sindrome di Down, ADHD, iperattività e la disabilità intellettiva.

Il lavoro preparatorio si è svolto all’interno del laboratorio di Logoteatroterapia, che, oltre a fornire loro competenze teatrali atte a renderli autonomi sul palco, ha introdotto ventinove dei più grandi all’opera del Bardo facendoli appassionare alle commedie e all’unica tragedia, l’Amleto, da me scelte per l’Isola di Shakespeare, mentre trentuno dei più piccini sono stati accompagnati verso l’incantato mondo delle fiabe classiche nello spettacolo C’era una volta… a teatro.

La Logoteatroterapia

La Logoteatroterapia nasce dall’incontro e il confronto tra diverse discipline che hanno un comune denominatore: la persona e la sua insopprimibile, dirompente, travolgente necessità di comunicare. Se il vocabolo greco logoscontiene in sé molteplici significati – tra cui scegliere, raccontare, enumerare, pensare, parlare, ascoltare –, anche il concetto di teatro è amplissimo e difficilmente ascrivibile a un’unica definizione. Semplificando al massimo, potremmo comunque concentrare la nostra attenzione sul dramma e quindi l’azione, l’agire davanti a un pubblico, utilizzando qualsiasi tipologia di espressione corporale. In ultimo, la stessa parola terapia racchiude in sé infinite possibilità, confluenti sempre al raggiungimento di un unico scopo: migliorare la qualità della vita di ciascuno, alleviando o, laddove si possa, superando uno stato di disagio o sofferenza iniziale.

Il laboratorio di Logoteatroterapia racchiude e congiunge tali percorsi, ed è stato il motore per la creazione e realizzazione di queste due performance.

Il teatro come strumento di abilitazione e riabilitazione

È innegabile e ampiamente documentata la potenza del teatro nei più vari contesti di cura, si tratti di case-famiglia, centri d’accoglienza, ospedali, comunità di recupero, comunità psichiatriche, consultori e centri di riabilitazione.

L’esperienza più che ventennale da me condotta in Centro riabilitativo di Roma, che opera per la abilitazione e riabilitazione delle disabilità dell’area del linguaggio, muove i suoi primi passi partendo dal Metodo Verbo Tonale, il cui ideatore, il prof. Petar Guberina1, credeva fermamente nell’efficacia della drammatizzazione per la spontanea acquisizione e produzione del linguaggio nel bambino ipoacusico.

In questi due decenni, la disciplina della Drammatizzazione di Guberina, si è arricchita dell’esperienza di comicoterapia, clownerie, teatro ragazzi, metodo Spazio-Temporale, competenze acquisite dalla sottoscritta grazie al Master “Artiterapie. Metodi e tecniche d’intervento” ed esperienze di teatro terapia, teatro educativo e sociale svolte nei più vari contesti. Pertanto, la metodologia utilizzata ha preso il nome di Logoteatroterapia ed è divenuta un vero laboratorio teatrale ed espressivo, all’interno del quale ciascun partecipante, indipendentemente dall’età, tipologia e grado di difficoltà, ricrea elemento dopo elemento tutti i prerequisiti necessari alla realizzazione di uno spettacolo teatrale.

Si parte con piccoli esercizi propriocettivi realizzati in posizione statica che amplino la conoscenza e la consapevolezza del proprio schema corporeo. Si procede con l’appropriarsi dello spazio, necessario al camminare sulla scena, grazie a un certosino lavoro di organizzazione spazio-temporale; contestualmente si esplora lo spazio e le sue infinite possibilità passando attraverso esercitazioni esterocettive di Nella Logoteatroterapia si stimola la comprensione del contesto, dello spazio, dei personaggi, delle azioni e della comunicazione che intercorre fra loro, fatta di parole ma anche di emozioni, gesti, dinamiche e sentimenti.immaginazione, movimento, esplorazione; in esse è introdotta la variante della velocità e il concetto della pausa.
Si prosegue con il rivolgersi all’altro sostenendo per tutto il tempo necessario il contatto oculare; si entra in contatto con i compagni, prendendosene cura, entrando in relazione grazie a modalità attente e pregne di delicatezza e sensibilità. Si amplia il mantenimento dell’attenzione al compito dato persino in presenza di più o meno forti distrattori.
Si lavora sull’espressione delle emozioni, grazie al riconoscimento e all’avvenuta consapevolezza interiore delle stesse.
Si esercita la memorizzazione delle battute da pronunciare, grazie all’ampliamento della memoria verbale e di lavoro, nonché dell’attenzione uditiva.
Si incrementa la gestione contemporanea e contestuale delle azioni più disparate, la quale richiede un continuo allenamento sulle più varie prassie.
Si pianifica la corretta messa in sequenza di tutto ciò che accade sulla scena, alimentando la costante elaborazione degli avvenimenti e di chi li compie in una ineluttabile serie di causa-effetto, azione-reazione.
Si interviene inevitabilmente sulla tolleranza alle frustrazioni, dato che nell’ambito di un gruppo di individui è impossibile essere perennemente al centro dell’attenzione.
In una parola, si stimola la comprensione del contesto, dello spazio, dei personaggi, delle azioni e della comunicazione che intercorre fra loro, fatta di parole ma anche di emozioni, gesti, dinamiche e sentimenti.

Una volta compreso quel che accade in scena (e quindi nella propria vita, dato che il teatro non è altro che un’elaborazione artistica dell’esistenza), ciascuno può intervenire portando il proprio contributo, senza tema di risultare inadeguato, non accettato, fuori contesto.

Dopo qualche mese di laboratorio, in cui oltre a conoscere meglio se stessi, si instaurano nuove e più vere relazioni con gli altri e si acquisiscono i primi rudimenti dell’arte scenica, sono passata alla scelta dell’argomento sul quale realizzare le due performances finali. Parlo di argomento e non di testo in quanto in questi anni ho sviluppato una metodologia che mi permette di scrivere insieme ai miei giovani attori ciascun copione teatrale adatto alle persone speciali che mi trovo davanti, arricchito dalle loro idee e dagli spunti scenici che mi hanno fornito durante l’anno.

Se questo è vero con le classi o i gruppi di bambini e ragazzi con i quali opero da più di vent’anni attraverso il teatro ragazzi, lo è ancor di più nei laboratori di Logoteatroterapia, all’interno dei quali mi trovo spontaneamente a inserire nel testo da portare in scena alcuni degli elementi su cui ciascun attore deve migliorare. Oltre a valorizzare e far mostrare i vari punti di forza, le abilità già acquisite e consolidate, gli attori sono stimolati a perfezionare proprio i punti più critici. Il tutto avviene con un’atmosfera in cui la leggerezza, il gioco, il sorriso sono sempre presenti, dove è pressoché totale l’assenza di giudizio, dove non c’è alcuna fretta o pressione di raggiungere ad ogni costo il risultato in breve tempo.Il tutto avviene con un’atmosfera in cui la leggerezza, il gioco, il sorriso sono sempre presenti, dove è pressoché totale l’assenza di giudizio, dove non c’è alcuna fretta o pressione di raggiungere ad ogni costo il risultato in breve tempo.
La motivazione a provare e riprovare una scena finché non ci soddisfa pienamente è altissima, dato che poi realizzeremo quella stessa scena o gag in teatro davanti al pubblico; questo fa sì che ciascuno non mostri alcuna opposizione o remora a provare più volte, cercando sempre di migliorarsi e raggiungere l’obiettivo richiesto.

Qualche esempio: laddove ci sia un eloquio troppo affrettato e non pienamente comprensibile, dopo aver lavorato sulla corretta respirazione, l’acquisizione di ritmi più lenti, l’unificazione della parola al passo, la consapevolezza della pausa, per ottenere il rallentamento dell’eloquio, verranno fornite all’attore battute di una certa lunghezza, all’interno delle quali egli possa fare delle pause in cui respirare correttamente, muoversi sul palco, rivolgersi a un altro attore, calibrando il passo in modo che fornisca il ritmo alla battuta o monologo. Qualora si presentino difficoltà di cognizione dello spazio, si inseriscono in scena numerosi movimenti atti a esperire i vettori spaziali. Nel caso si presentino difficoltà attentive, si insisterà sulla recitazione di battute associate a specifici movimenti, azioni e camminate, in cui rivolgersi sia a destra che a sinistra guardando negli occhi l’interlocutore, oltre a chiedere all’attore stesso di restare sul palco e realizzare una piccola silenziosa controscena nel momento in cui recitano i compagni. E così via.

Uno degli attori più giovani è affetto da disprassia. In scena deve interpretare due personaggi, dovendo per forza cambiarsi d’abito nella pausa che intercorre tra l’uno e l’altro. Oltre a ciò, ho fornito al suo secondo personaggio alcune minime azioni in cui potesse esperire piccoli movimenti di motricità fine con le dita. Il bambino ha accettato pienamente tutti i miei suggerimenti scenici, in quanto facevano parte della caratterizzazione del personaggio e lo aiutavano a recitare sempre meglio. Si è allenato moltissimo per riuscire a realizzare ciò che gli era stato chiesto, a volte coadiuvato dalla sua logopedista, a volte in completa autonomia all’interno della propria cameretta. La gratificazione per il suo impegno e la riuscita dei suoi sforzi, già ampiamente accordata da me e dalle logopediste in sede di laboratorio, è stata poi massima e scrosciante al momento dello spettacolo in teatro.

La performance in cui ha recitato quest’ultimo era basata sulla messa in scena di sei fiabe classiche: Il brutto Anatroccolo, I tre porcellini, Giacomino e il fagiolo, Il gatto con gli stivali, La bella addormentata, Cenerentola. Il titolo dato allo spettacolo è stato C’era una volta… a teatro.

Ho deciso di lavorare sulla fiaba e l’arte del racconto quando mi sono accorta che molti dei miei giovanissimi allievi non conoscevano molte delle più belle favole della nostra tradizione orale. Il laboratorio di Logoteatroterapia ha pertanto fornito anche preziosi momenti in cui prima raccontare, poi leggere, quindi improvvisare alcune fiabe ai bambini, chiedendo poi loro quale fosse la preferita e scegliere insieme la storia ideale da rappresentare.

Alcuni dei miei giovani attori hanno sviluppato nel tempo anche forti inibizioni legate probabilmente al vissuto di sentirsi spesso meno adeguati di amici o compagni di scuola; li ho pertanto lasciati liberi di propormi quale personaggio avrebbero preferito interpretare, e li ho stimolati a proporre costumi e trucco, inventare piccole battute, ideare brevi sequenze sceniche. Il tutto sempre mantenendo fede alla storia, al contesto, allo spazio da lasciare agli altri.

I bambini hanno quindi preso coscienza delle proprie attitudini e talenti, acquisito sempre maggior sicurezza, hanno iniziato a pensare, elaborare, proporre, aiutandosi gli uni gli altri con idee, oggetti di scena, gag.

In altri casi, allorché sia presente la tendenza a porsi sempre al centro dell’attenzione, a parlare per primi senza aspettare il proprio turno, a sovrastare gli altri, ho invece fatto il percorso contrario, insistendo sul contenimento e il rispetto delle regole e della parte assegnata, anche se magari qualcuno avrebbe desiderato esattamente quella del compagno. Colgo l’occasione per affermare che è assolutamente necessario, A teatro non c’è un solo protagonista. Sul palcoscenico tutti sono protagonisti, tutti sono importanti, ciascuno con i propri talenti e la propria bellezza.quando ci si trova a lavorare con bambini e ragazzi, fornire il giusto spazio scenico a ciascuno. Anche la parte della guardia del re può avere battute divertenti, realizzare gag in cui far ridere tutti, avere in breve un ruolo importante all’interno della vicenda. I bambini devono essere certi che ogni personaggio sia necessario alla riuscita della performance, che ciascuno arricchisce e rende più bello il lavoro di tutti. Come dico spesso alle classi o gruppi con cui mi ritrovo a realizzare questa magnifica esperienza: «A teatro non c’è un solo protagonista. Sul palcoscenico tutti sono protagonisti, tutti sono importanti, ciascuno con i propri talenti e la propria bellezza».

Lo spettacolo C’era una volta… a teatro è andato in scena il quattro luglio del 2019 ed è stato interpretato da trentuno bambini di età compresa tra i cinque e gli undici anni, che hanno incantato il pubblico per la spontaneità, la bravura, l’impegno, l’entusiasmo. Era commovente vedere il momento in cui i tre lupi della fiaba I tre porcellini entravano camminando con lo schema crociato, ovvero il camminare muovendo una gamba e il braccio opposto, associato al verso del lupo, competenza da loro appresa dopo un certo numero di prove nel laboratorio; competenza che ormai il loro corpo ha perfettamente acquisito e non dimenticherà più, come nessuno dimentica l’andare in bicicletta una volta che lo ha imparato.

Entusiasmanti sono stati i momenti in cui le fatine della Bella Addormentata trasformano una maledizione in un’occasione nella quale incontrare qualcuno di speciale; quando il Gatto con gli Stivali solo grazie alla fiducia accordatagli dal suo padrone riesce addirittura a fargli sposare la figlia del re; quando Giacomino afferra il coraggio a due mani e si arrampica sulla pianta di fagioli per aiutare la sua mamma. Tuttavia, forse il momento più suggestivo e denso di significato è proprio quando il Brutto Anatroccolo diviene un bellissimo cigno, mostrando a tutti oltre che a se stesso la bellezza che aveva già dentro di sé. Se solo chi gli viveva accanto fosse riuscito a vederla, non gli avrebbe sempre rimandato un’immagine distorta del suo io, nella quale era strano, diverso dagli altri, goffo, buffo, poco adeguato al contesto.

La fiaba del Brutto Anatroccolo ha assolto ancora una volta al suo compito: trasmettere a bambini del duemila quanto le apparenze non contino e quanto ciascuno di loro sia portatore di unicità e vera bellezza.

Ciascun bambino ha effettuato grandi passi nel cammino della propria vita in questi mesi. Ma forse l’esperienza più degna di nota è quella di Andrea (nome di fantasia) di età prescolare.

Il bambino è affetto da otodisplasia sinistra e disturbo misto del linguaggio e della comprensione. Nelle prime settimane di settembre 2018 inizia a partecipare con la sua logopedista al laboratorio di Logoteatroterapia. Durante le prime sedute Andrea tiene gli occhi bassi, non parla né si relaziona con nessuno. Poi pian piano alza lo sguardo, mantiene il contatto oculare, impara i nomi dei compagni. Riesce a pronunciare il suo con un filo di voce, partecipa con sempre maggior sicurezza ai giochi e alle esercitazioni. È molto interessato al racconto della storia, accetta di interpretare uno dei personaggi. Gli altri bambini lo prendono “sotto l’ala”, portandolo per mano in scena, sistemando la sua posizione laddove non sembri corretta, fornendogli sempre il giusto spazio. Andrea poco alla volta impara le battute da recitare, associate alla gestualità consona al personaggio. Si muove in scena con sempre maggior sicurezza, inizia a ridere, a divertirsi. Ricorda sempre più elementi della performance, tanto da essere sempre più autonomo nella realizzazione.
Al momento del saggio in teatro, sale sul palco senza alcun timore e la sua scena diverte e commuove tutto il pubblico.

Incontro la sua mamma pochi giorni dopo; felice dell’esperienza fatta dal figlio, mi confida che a suo parere Andrea ha iniziato a parlare proprio grazie al teatro: infatti a casa pronunciava le battute e i gesti da recitare, e solo vedendo lo spettacolo la mamma ha finalmente compreso che stava ripetendo la sua parte.

I ventinove adolescenti e preadolescenti che hanno partecipato al laboratorio di Logoteatroterapia sono stati invece introdotti all’opera e al teatro di William Shakespeare. Grazie anche alla visione del film Shakespeare in Love (regia di John Madden, 1998) che ha mostrato loro il periodo storico e le modalità recitative dell’epoca, i ragazzi hanno sinceramente apprezzato le opere del Bardo e si sono dimostrati desiderosi di portarle in scena. La scelta è caduta su Il mercante di Venezia, La tempesta, La bisbetica domata, Le allegre comari di Windsor e in ultimo l’Amleto. Il tutto è stato inserito in un contesto più ampio, che ha poi dato il titolo allo spettacolo: L’isola di Shakespeare.

Ho immaginato che esistesse una piccola isola dove due personificazioni del drammaturgo, chiamati Willy Scrittore e Willy Poeta, in riferimento alla sua attività di scrittura e ai suoi sonetti, vivessero insieme a Puck e Ariel, i due spiriti fantastici rispettivamente di Sogno di una notte di mezza estate e La tempesta.

Questi quattro personaggi accolgono le persone che arrivano sull’isola, sia che si tratti di turisti, che di scolaresche o compagnie venute a fare delle prove. La regola dell’isola è una e una soltanto: all’isola si arriva per recitare. Pertanto, una classe delle scuole medie con all’interno una compagna spocchiosa e antipatica, interpreterà La bisbetica domata; dei marinai che naufragano avranno a che fare loro malgrado con La tempesta; un gruppo di amici in cui c’è uno scroccone si ritrova alle prese con Le allegre comari di Windsor, e così via. Solo per gli ultimi arrivati, coloro che reciteranno Amleto, non vi è una diretta correlazione relativa al loro vissuto: si trovano a provare la vicenda del principe di Danimarca per il solo piacere di cimentarsi con l’opera forse più importante dell’intera produzione shakespeariana. Willy Scrittore, data la complessità del testo, chiede aiuto anche agli altri personaggi giunti in precedenza, e ciascuno dichiara di esser felice di contribuire alla messinscena dell’Amleto.

Il percorso che ha portato i ventinove attori in scena il due luglio del 2019 non si è basato soltanto sull’opera del grande drammaturgo.

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Un giovane Amleto, tratto dal sito 134 West

Lo studio dell’opera di Shakespeare ha naturalmente aumentato il bagaglio di conoscenze di ciascun attore: solo alcuni di loro avevano già acquisito in ambito scolastico piccoli elementi sul Bardo, e lo associavano soltanto a Romeo e Giulietta; la maggior parte non conosceva né l’autore né tanto meno l’opera. Funzione del teatro è pertanto anche l’ampliamento di cultura e conoscenza, di fruizione della bellezza e dell’arte.

La messinscena è stata caratterizzata da numerosi elementi in cui ragazzi potessero esperire le proprie competenze relative a ritmo, pausa, musica, rime. In alcune scene sono state inserite brevi sequenze di body percussion, in altre dialoghi recitati come fossero un rap. All’interno di Amleto vi erano due coreografie: una funzionale alla creazione dell’atmosfera cupa e inquietante dell’incontro tra il principe e il fantasma di suo padre, l’altra all’alienazione che precede la pazzia di Ofelia. Entrambe le coreografie erano realizzate da attori ipoacusici, che sono stati pertanto estremamente stimolati all’attenzione uditiva musicale, a seguirne il tempo e il ritmo così da riuscire a coordinare i movimenti della danza, alla memorizzazione corporale e cinestesica singola e di gruppo.

Inoltre, ciascuna commedia era sempre introdotta da Willy Poeta che declamava brevi quartine in rima baciata o alternata, utilizzando una terminologia a bassa frequenza d’uso, consona ai tempi antichi e perfettamente funzionale nel delineare la vicenda con poche frasi. Ruolo del teatro è pertanto anche quello di contribuire alla capacità linguistica e affabulatoria, e all’arricchimento del vocabolario, strumento prezioso che amplia e approfondisce il pensiero di ciascuno.

Con la morte del principe Amleto, e la splendida battuta del suo caro amico Orazio, unico sopravvissuto alla strage della corte di Danimarca, «…buonanotte dolce principe, e che voli di angeli ti accompagnino al tuo eterno riposo», termina L’isola di Shakespeare, non prima che i quattro ospiti invitino tutto il pubblico a raggiungerli la prossima estate, per recitare insieme a loro un frammento dei testi teatrali più belli al mondo e far parte di questa splendida esperienza che è il teatro.

Concludendo, posso affermare che nella Logoteatroterapia il lavoro sperimentato nel laboratorio, la scelta dell’argomento della rappresentazione e le prove di quest’ultima confluiscono naturalmente e inevitabilmente nello spettacolo al cospetto del pubblico. L’emozione provata nel salire sul palco, e i successivi e meritati applausi, giocano un ruolo fondamentale nel memorizzare a lungo termine tutti gli apprendimenti testé citati. Come afferma Edgar Dale2, pedagogista statunitense, la nostra memoria è profondamente influenzata dalle esperienze: più sono nuove, particolari e cariche di emozioni, altrettanto le ricorderemo con facilità. Le emozioni lasciano una traccia a lungo termine. Questa è la motivazione principale alla base dell’esperienza.


Riferimenti bibliografici

S. Fioravanti., L. Spina, Anime con il naso rosso, Armando Editore, Roma 2006
S. Pitruzzella, Manuale di teatro creativo, Franco Angeli, Milano 2004
L. Sabbadini, La disprassia in età evolutiva. Criteri di valutazione ed intervento,Milano, Springer 2005
G. Salemi, Oralismo e Metodo Verbo Tonale, Dispense per il corso di laurea in Logopedia, Università “La Sapienza”, 2014


Note

1. Petar Guberina è nato nel 1913 a Sibinek, in Dalmazia. È stato professore all’Università di Zagabria, dove ha condotto numerose ricerche sulla linguistica, sviluppando il metodo Verbo-Tonale, conosciuto in tutto il mondo. Il metodo si basa sull’intuizione che tutto il corpo è in grado di ricevere e comunicare stimoli sonori e che, con l’ausilio di musica e teatro, sia protagonista nell’evoluzione del linguaggio. Il professor Guberina è morto nel 2005 a Zagabria.

2. Edgar Dale è nato nel 1900 nel Minnesota ed è morto nel 1985 in Ohio. Pedagogista, ha ideato uno schema chiamato “cono dell’apprendimento”, il quale misura la percentuale di ciò che resta nella memoria a seconda del grado di coinvolgimento dell’attività svolta. Simulare l’esperienza reale, ovvero recitare, rientra nel quadro delle attività con il miglior risultato in termini di memorizzazione.

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Cecilia Moreschi

È regista, attrice, drammaturga e docente teatrale.
Specializzata nel teatro ragazzi, dal 1999 è anche responsabile dei laboratori di drammatizzazione presso il Centro di Audiofonologopedia. È responsabile della rassegna di teatro narrazione “Il dono della diversità”. Fa parte del network internazionale di narratori “Storytellers for Peace”. Conduce laboratori di “Logoteatroterapia e drammatizzazione” per gli studenti del Corso di Laurea in Logopedia e del Master “Le Artiterapie. Metodi e tecniche d’intervento”.

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