Micro (non) fiction

Tempo di lettura stimato: 20 minuti
Un viaggio tra le forme brevi della narrativa (racconti, racconti brevi, flash story, few words, six words…) attraverso 26 (+1) microsaggi letterari.

collage libri racconti

 

1.
Il racconto più breve? Sei parole.

(Esempio di micro-non-fiction in 6 parole)

 

2.
Qui si parla di due libri di narrativa breve, o molto breve, usciti negli scorsi mesi: Microfictions di Régis Jauffret (Clichy, traduzione di Tommaso Gurrieri) e Tutti i nostri corpi di Georgi Gospodinov (Voland, traduzione di Giuseppe Dell’Agata). E grazie a loro, attraverso di loro, di molti altri libri, altri autori, altre forme che hanno a che fare in qualche modo con la narrativa breve, molto breve, brevissima.

 

3.
Qui si parla di narrativa breve brevissima, e per quella particolare forma di pigrizia che si chiama mimesi, se ne parla in maniera frammentata, con dei paragrafi che potrebbero essere racconti brevi, se non fosse che difettano del carattere narrativo, e quindi sono… saggi brevi, micro-non-fiction, flash theory? D’altra parte se il romanzo può contrarsi, restringersi all’essenziale e diventare racconto, perché non può fare altrettanto il saggio? (e nel caso, cosa diventa, aforisma? Mi sovviene che uno dei vertici più alti del pensiero occidentale, il Tractatus Logico-Philosophicus di Ludwig Wittgenstein, consta di brevi proposizioni, flash theory, e ora ho paura).

 

4.
Cos’è un racconto? Sarebbe logico partire da qui, ma con la promessa di non farla troppo lunga o difficile – d’altra parte non siamo tra critici letterari o teorici di narratologia. Dunque un racconto è, dovrebbe essere, uno scritto di contenuto narrativo e di dimensioni ridotte. Lasciamo da parte le tentazioni qualitative e atteniamoci per il momento al lato quantitativo: il racconto è una cosa piccola. Okay, ma quanto piccola? Raymond Carver – che non è il mio raccontista preferito ma insomma, un po’ ne sapeva – spiegò che lui si era specializzato nella forma breve perché era l’unica che gli consentiva di sedersi con un’idea, scriverla e avere la ragionevole certezza di portarla a termine. Quindi, il racconto è quel pezzo di narrativa che si può produrre nell’ambito di un’unica sessione di scrittura. Lato lettore, perché lettori siamo, estenderei il metodo e direi che il racconto è quel pezzo di cui si può fruire nel corso di una sola sessione di lettura. Questo dovrebbe portare a escludere degli scritti che sono nella communis opinio racconti, ma che a mio parere ci azzeccano poco: le (bellissime) spataffiate di Alice Munro, 50-70 pagine, hanno poco a che fare con la short story, sono più dei romanzi brevi, per comodità editoriale radunati quattro o cinque alla volta in un volume. E così, non sono racconti (secondo me, ripeto, è opinione minoritaria) Giro di vite di Henry James, che per molti è addirittura “il più bel racconto mai scritto”, e Casa d’altri di Silvio D’Arzo, che parallelamente è spesso definito “il più bel racconto del 900 italiano”, o “il racconto perfetto” (Montale, addirittura). (Oh, poi è chiaro che uno in una sola sessione di lettura può sciropparsi ben più di 45 pagine, ma insomma, ci siamo capiti.)

 

5.
Il guaio delle classificazioni è che quando ci si appassiona, non se ne esce più fuori. E allora, se uno è amante dei racconti brevi, e ne legge tanti, si accorgerà che la differenza, l’abisso che sta tra un racconto breve (short story) e un racconto lungo (o romanzo breve, o novella), non è di tanto superiore allo spazio concettuale che separa un racconto breve da un racconto molto breve: tra, poniamo le 22mila battute de Il giardino dei sentieri che si biforcano di Jorge Luis Borges e le 6mila de Le mura di Anagoor di Dino Buzzati. La quantità ricade sul contenuto, la forma è sostanza, le dimensioni contano: influiscono sul tono, sullo sviluppo narrativo, sulla possibilità stessa di narrare “fatti” – qualsiasi cosa si intenda con questa parola. C’è quindi una short story (10-20 pagine, elastiche) e un formato più ristretto, 2 o 3 pagine, che potremmo chiamare microfiction.

 

6.
Microfiction
si chiama un sottile e meraviglioso libro di Margaret Atwood (Ponte alle Grazie, traduzione di Raffaella Belletti), in cui molti temi tra il fantastico e il politico cari alla scrittrice del Racconto dell’ancella trovano espressione condensata, esplosiva. Le dimensioni sono varie – ma non vanno oltre le tre pagine da un lato, la mezza pagina dall’altro – però più vari sono i contenuti: la schietta narrazione prevale, ma fanno capolino riflessioni teoriche, o meta-narrative, o quasi-diaristiche.

 

7.
Microfictions
, al plurale, si chiama la raccolta di Jauffret. Tutt’altro che esile, consta di 500 racconti, e in Francia ne escono altri 500. Molto più compatto però, sia dal punto di vista formale che da quello tematico; si può dire che la compattezza sia la caratteristica principale del progetto dello scrittore, e il fatto stesso che si parli di progetto, di struttura, è indicativo. Innanzitutto, i racconti sono tutti della stessa lunghezza: iniziano a metà della pagina di destra (fronte) e finiscono più o meno a tre quarti della pagina successiva (retro).

Questa cadenza è quasi ipnotica, e più che alle microfiction di Atwood mi fa pensare ai “romanzi-fiume” di Giorgio Manganelli: Centuria (Adelphi), 100 racconti tutti di una pagina e mezza.

 

8.
«Ho l’impressione che i raccontini di Centuria siano un po’ come romanzi cui sia stata tolta tutta l’aria. Ecco: vuole una mia definizione del romanzo? Quaranta righe più due metri cubi di aria. Io ho lasciato solo le quaranta righe: oltretutto occupano meno spazio, e lei sa bene che con i libri lo spazio è sempre un problema enorme».

(Da un’intervista a Manganelli di Stefano Giovanardi, apparsa sull’«Avanti!» dell’8 aprile 1979)

 

9.
Però un attimo: «raccontini» come li chiama l’autore, o «piccoli romanzi fiume» secondo il sottotitolo del libro?

Un altro libro molto bello, uscito qualche anno fa, è Fisica quantistica della vita quotidiana (Einaudi) di Piergiorgio Paterlini, giornalista e scrittore più noto per Cuore e Ragazzi che amano ragazzi. Qui il metro si allunga e si accorcia: dal massimo di una pagina e mezza al racconto che consta di una sola emoji – in dialogo col titolo. La dicitura del sottotitolo è: 101 microromanzi. Ma ripeto: non mi fisserei sulla terminologia. (Anche perché sospetto che molte di queste scelte siano dettate da puro ostracismo nei confronti della “parola con la R”: la paura che i r***onti non vendono, che il lettore si spaventi al solo sentirli nominare, evidentemente non è una esclusiva degli ultimi anni, come dimostra il caso Centuria.)

 

10.
Procediamo con lo zoom. Perché è innegabile che esista una ulteriore sottocategoria, nell’ambito della microfiction, anzi una forma talmente diversa che può accampare pretese di autonomia: sto parlando della mezza pagina, che è costitutivamente differente dalle 2 pagine scarse. In mezza pagina è difficile anche solo iniziare una vicenda, una trama: si può tutt’al più sottintenderla, suggerirla. Se il romanzo è un film e il racconto è un cortometraggio, la microfiction è un video di Tik Tok (60 secondi), e la mezza pagina neanche un filmato, ma una immagine unica, una fotografia, un flash. E va, può andare, sotto il nome di flash fiction.

 

11.
«Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame freddo ed era lontano 50mila anni‐luce da casa. Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità doppia di quella cui era abituato, faceva d’ogni movimento un’agonia di fatica. Ma dopo decine di migliaia d’anni, quest’angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell’aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arriva al dunque, tocca ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo. Come questo fottuto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano mandato. E adesso era suolo sacro perché c’era arrivato anche il nemico. Il nemico, l’unica altra razza intelligente della galassia… crudeli schifosi, ripugnanti mostri. Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata subito guerra; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica. E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie.

Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame, freddo e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni avamposto era vitale. Stava all’erta, il fucile pronto. Lontano 50mila anni‐luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.

E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più. Il verso, la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s’erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco nauseante, e senza squame.»

(La sentinella di Fredrick Brown, capolavoro di flash fiction – o di microfiction? – nella traduzione di Carlo Fruttero, contenuta nell’antologia della fantascienza Le meraviglie del possibile, a cura di Sergio Solmi e Carlo Fruttero, Einaudi, Torino 1992).

 

12.
Diceva Cortázar, la frase è famosa, che il romanzo può permettersi di vincere ai punti, il racconto deve vincere per ko. La cosa è stata interpretata da molti raccontisti* come un invito al plot twist, al colpo di scena finale, al rovesciamento del punto di vista o disvelamento del mistero, contenuto nelle ultime righe. Certo la brevità della flash fiction è un assist: meno spazio si usa, meno cose si dicono, più se ne danno per scontate. La sentinella è un esempio perfetto; mentre non impossibile ma più difficile è nascondere al lettore informazioni essenziali lungo più pagine: il succitato Giardino dei sentieri che si biforcano lo fa, grazie a una storia nella storia, e poi è Borges, già.

* Compreso lo stesso Cortázar, ma non sempre: si veda il suo capo d’opera Casa occupata, dove l’elemento decisivo fa la sua comparsa ben prima delle ultime righe, né queste regalano alcuno scioglimento.

 

13.
100, 101, 103. Centotre sono i racconti che compongono Tutti i nostri corpi di Gospodinov. Una pagina qui è la misura massima, mezza pagina quella più frequente. Molto vari toni e temi: intuizioni fulminanti, aneddoti diaristici, considerazioni linguistico-esistenziali; consistente ma non prevalente è la parte narrativa, raro ma presente il ricorso al fantastico, così come anche l’uso del plot twist.

 

14.
«Ovvio che ogni nascita è un omicidio con la data differita nel tempo. Il grilletto è premuto, una pallottola silenziosa vola verso di te e un giorno ti raggiungerà. I sospettati dell’omicidio ti prendono in braccio e sono felici e tu ti dimeni e piangi.

Mamma, papà, siete stati voi…»

(Preterintezionale, Georgi Gospodinov)

 

15.
Secondo Andrea Bajani (sul «Manifesto») Tutti i nostri corpi sarebbe un «taccuino in cui Gospodinov ha preso appunti per opere a venire (…) il libro in cui mostra in maniera più esplicita – e programmatica – i materiali di cui si serve per il suo lavoro letterario». Una specie di invito a entrare in bottega, un laboratorio a porte aperte, insomma. Ma lo stesso scrittore bulgaro, in un’intervista a Demetrio Paolin («Corriere della sera») fa un discorso interessante su plot twist e incompiutezza: «Lei parla di una rivelazione contenuta alla fine delle mie storie; io spero che questo accada nella mente del lettore. La brevità del testo dà la scintilla e lascia spazio alle fiamme dell’interpretazione. Il non detto è altrettanto importante che il detto. Anche se, per me, il taciuto è più importante, perché il compito delle parole è preparare il terreno e infine ritrarsi. Con questo libro non volevo scrivere aforismi o proverbi, penso ai miei racconti come l’inizio di una conversazione sulla deperibilità dei nostri corpi e sulla deperibilità del testo».

 

16.
Un’altra che, come Carver, raccontava di essere stata spinta a una determinata forma non da considerazioni di estetica ma da esigenze pratiche, è Lydia Davis. Poco tempo, diceva la scrittrice americana: il lavoro, le cose da fare in casa, i bambini. L’ansia, anzi la certezza di essere continuamente interrotta, di avere un tempo limitato non a qualche ora come il padre del minimalismo ma – in quanto donna – a qualche minuto. Risultato: pezzi lunghi poche righe, anche una sola, ma di una bellezza bruciante, che lascia storditi. Leggere Creature nel giardino (Rizzoli, traduzione di Adelaide Cioni) è una fonte di piacere inesauribile – almeno per quelli come noi che hanno la perversione della brevità.

 

17.
Stiamo scavando: andiamo sempre più a fondo, abbiamo sempre meno spazio. Dacché, lo avrete intuito, le cose non possono mica esaurirsi con la mezza pagina della flash fiction. C’è un altro sottogenere, un altro mondo fatto di particelle subatomiche, governato da leggi tutte sue: i racconti di poche righe, di poche parole. Ce n’è uno famosissimo, forse più del nome del suo autore, che è Augusto Monterroso, vi dice niente? Beh questo scommetto di sì: «Quando si risvegliò, il dinosauro era ancora lì». Come possiamo chiamarli? Superflash fiction, few words story? Quella che ha un nome codificato è un passo ancora oltre, visto che ormai è una gara a chi ce l’ha più corto: la six word story. Il racconto più breve di sempre ha la forma di un annuncio: «For sale: baby shoes, never worn» (che per una volta si può tradurre senza allungare: («Vendesi scarpe da neonato, mai usate»). È attribuito a Ernest Hemingway, anche se la vicenda è misteriosa e affascinante: la storia della story più breve della Storia è probabilmente un falso storico, ma questa è un’altra storia.

 

18.

FINORA

 

Ci sono toccate varie vite. E non ne abbiamo portata a termine nemmeno una.
(Georgi Gospodinov, Tutti i nostri corpi)

 

ERRATA CORRIGE
Dove c’è scritto:
La uccisi perché era mia
si deve leggere:
La uccisi perché non era mia
(Max Aub, Delitti esemplari, traduzione di Lucrezia Panunzio Cipriani, Sellerio, Palermo 1981)

 

 

MOSAICO

 

Dal prato periferico un fiato sollevò due foglie secche. Turbinarono toccandosi, scansandosi. Scherzavano! Malinconico flirt. Giacquero.

Dal nord scendevano lunghe nubi grigie cariche d’inverno.

 

(Dino Buzzati, Le notti difficili)

 

 

AL FRONTE

 

La pancia del soldato J era impigliata nel filo spinato.

Staccarlo avrebbe significato emorragia.

Il capitano gli ordinò di sanguinare meno.

 

(Gabriele Romagnoli, Navi in bottiglia, su «La Repubblica» online)

 

 

DARIO

 

Uehi ciao Dario come va? Ah, questa è la mia ragazza!

Horribòls.

 

(Vanni Santoni, Personaggi precari, Voland)

19.
Cose a cui rischia di assomigliare – e non dovrebbe – la microfiction e/o la flash fiction: aforisma; breve di cronaca nera; poesia in verso libero; pagina di diario; riflessione filosofica; parabola; motto di spirito. Oh, poi chiaramente i racconti sono per natura complementari a molte di queste cose: il plot twist, la frase fulminante alla fine di un pezzo di 10 righe, se messa al termine di un pezzo di 2, finisce per occuparlo tutto, e quindi confina con la battuta. Però persiste un limite sottile, ed è quello che ad esempio rende i Delitti esemplari di Max Aub (sì, quel genio che s’è inventato la biografia e le opere di un artista mai esistito, illudendo il mondo intero) dei racconti veri e propri, che affondano le radici nella cronaca nera, ma i cui rami svettano nell’aria pura della fiction (che ribrezzo le similitudini, almeno quando le faccio io).

 

20.
Jauffret deve molto alla cronaca nera, si può dire che tutti o quasi i suoi pezzi abbiano, se non un delitto, un elemento di violenza, di sopraffazione. Anzi, a dirla tutta, sembra che l’intero corpus dei racconti di Jauffret si fondi su quelle che nel giornalismo vecchia scuola venivano definite le 3 esse, gli argomenti di sicuro successo (oggi si direbbe la pancia): Sangue, Sesso, Soldi. I delitti efferati, le storie pruriginose, l’economia spicciola: sono la ricetta segreta del giornalismo popolare di una volta – ora soppiantata da fake news, meme e clicbait – ma sono anche la sostanza di cui è fatto Microfictions. Fatti di sangue, sesso senza amore e al limite dell’ossessione, problemi di lavoro e di sopravvivenza: sono i temi che si alternano, quando non si sovrappongono, nei racconti di Jauffret.

 

21.
Short story, microfiction, flash story, few words, six words
. Più che sottoinsiemi, più che matrioske, mondi paralleli. Eppure, è difficile che una scrittrice o uno scrittore tengono lo stesso passo, la stessa misura, anche all’interno del medesimo libro. Franz Kafka, che è il più grande di tutti, passa dal romanzo (Il processo) al racconto standard (La metamorfosi), dalle 10 pagine di Nella colonia penale fino alle 2 di Davanti alla legge e alla mezza di Un messaggio dell’imperatore. Riuscendo a toccare vette massime in ogni formato, anzi di più, ad aprire mondi, spalancare universi. Quasi nessuno tiene lo stesso passo, ma ogni autore ha un passo ottimale, adatto al ritmo del suo respiro, anche se non sempre ne è cosciente: Borges per esempio lo sapeva, e infatti si è quasi sempre tenuto tra le 7 e le 15 pagine, con risultati inarrivabili in una percentuale altissima di casi. Anche Gospodinov da il meglio di sé nella short story più classica, come nella precedente raccolta E tutto divenne luna e soprattutto nella prima … e altre storie: Borges e Cechov sono i suoi numi tutelari – ma i suoi libri sono comunque da leggere tutti, dal romanzo che l’ha reso un po’ famoso, Fisica della malinconia, a questo ultimo.

 

 

22.
«In difesa della brevità va ricordato per altro che non è nata ieri. In modo caotico, come nell’enciclopedia di Borges, possiamo enumerare le iscrizioni lapidee dell’antichità, i koani buddisti, i Caratteri di Teofrasto, le parabole bibliche, alcuni apocrifi, le annotazioni dei copisti sui margini di libri sacri, come quel folgorante “mi ha fatto male un dente, che non ne potevo più”, le storie brevi dello stesso Borges, di Monterroso, Charms, Örkény. (…)  Tralascio molte altre cose. L’importante è che esiste una lunga serie e una tradizione, talora poco chiara, sottaciuta, caduta fuori dalla rete a larghe maglie del canone, ma che comunque esiste.»

(Sulla brevitas e su questo libro – in breve, postfazione di Gospodinov)

 

23.
Ecco, a proposito di tralasciare, tralasciavo un altro grandissimo, enigmatico e folgorante, dello scritto breve: Daniil Charms. Ma questo ci porta a un punto essenziale: i pezzi (Casi, Adelphi) dello scrittore russo – caustici, spiazzanti – sono l’emblema dell’incostanza. Charms muta forme, temi, lunghezze, stili, contenuti: è comico e metafisico, ma soprattutto è artista, avanguardista, fluido; oscilla, sfugge, scivola da tutte le parti. Jauffret no. Jauffret è scientifico: non solo, come Manganelli, tiene ferma la lunghezza in modo feroce. Ma poi, innanzitutto ha la costanza di fare non cento bensì CINQUECENTO esemplari (anzi anzi, MILLE). E non finisce qui: perché Manganelli spazia – dal reale al fantastico, dall’onirico allo speculativo, dal plot all’astrazione – e scrive un capolavoro. Jauffret procede imperturbabile, è monolitico non solo nel format: usa sempre lo stesso timbro, sembra raccontare sempre la stessa storia. O meglio: le storie sono tutte diverse, i personaggi si accumulano come una processione infinita di gente, una vera commedia umana del XXI secolo. Ma è come se fossero variazioni sul tema: in questo senso, Microfictions è l’opposto speculare di Esercizi di stile di Queneau: quello raccontava sempre la stessa storia con variazioni formali, questo racconta storie tutte diverse, con uniformità di tono e stile e sfondo e interpreti.

 

24.
Microfictions
contiene paradossi. I racconti sono tutti interessanti, certo alcuni più riusciti altri meno, ma comunque è impressionante il livello medio che Jauffret riesce a mantenere. Però, nessun racconto è bellissimo, memorabile: nessuno, avulso dal contesto, rientrerebbe in una ipotetica classifica dei migliori cento racconti di tutti i tempi, o della contemporaneità, e forse neanche dei migliori cinquecento. Ciononostante, il libro è notevole, sicuramente ben riuscito. Com’è possibile? Perché trova la sua forza proprio nella natura di costruzione, di architettura. Altro paradosso: il libro trova il suo senso proprio nell’essere composto di 500 racconti (il progetto non funzionerebbe altrettanto bene se fossero “solo” 100, e forse neanche 365) ma per apprezzarlo non c’è bisogno di leggerli tutti e 500, e forse neanche 365, o 100. Lo stesso Jauffret implicitamente non invita a farlo, disponendo i racconti in ordine alfabetico, e decidendo che altrettanto venga fatto nelle traduzioni: per cui la sequenza del libro francese è diversa da quella italiana. Il che ci porta a concludere che il libro non vuole essere letto, ma consultato: come un dizionario, come un’enciclopedia – che difatti, solo i maniaci leggono dalla A alla Z.

 

25.
Resta da capire, infine, la questione della fruizione. Resta tutto il discorso lato lettore, perché lettori siamo, prima di ogni altra cosa. Allora, da un certo punto di vista, si potrebbe dire che i racconti brevi, e ancora di più quelli brevissimi, e ancora di più quelli di un rigo, sono il formato perfetto per questi nostri tempi frammentati e distratti. Tra una notifica su Instagram e una scrollata alla mail, 30 secondi per una flash story si trovano sempre. O no? Il punto è che questa è un’osservazione superficiale, che non tiene conto dei nostri desideri, oltre che ovviamente della realtà (e la realtà è che i lettori di micro-racconti sono una nicchia minuscola all’interno della nicchia dei lettori di racconti, che sono una minoranza esigua rispetto ai lettori tout court, che sono pochissimi rispetto alla popolazione, e sempre meno). Perché i racconti non si vendono, e ancora peggio non si vedono? Forse, per lo stesso motivo per cui non riescono mai a decollare le storie a bivi, la narrazione interattiva (sia su carta che a video, cfr. l’episodio speciale di Black Mirror, Bandersnatch): calati nella complessità del reale, sopraffatti da un mondo che capiamo solo in parte, l’ultima cosa che desideriamo è il libero arbitrio anche quando siamo davanti a un libro, a un televisore. E la stessa cosa si dica per la frammentazione, il multitasking, il saltare da una tab all’altra dovendo ogni volta compiere un piccolo reset mentale. Vogliamo essere agguantati, risucchiati, inchiodati: dimentichi di tutto, compresi noi stessi.

 

26.
Che fare? Lato scrittore, di nuovo, ci vuole impegno, fantasia, rigore. Una strada la indica Jauffret: che non vuol dire per forza innalzare grattacieli di 500 piani. L’importante è avere un disegno, pensare all’oggetto-libro non come un contenitore dove gettare pezzi alla rinfusa, ma come una struttura. Di qualsiasi tipo, anche fuori dall’oggetto libro. Lo ha fatto Manganelli e lo ha fatto Parise (Sillabari); lo ha fatto Max Aub come Felix Fénéon (Romanzi in tre righe); lo ha fatto per anni Romagnoli con Navi in bottiglia, una rubrica su Repubblica.it  che è diventata due libri (l’omonimo del ’95 e Solo i treni hanno la strada segnata del 2008); lo ha fatto Santoni con un format, quello dei personaggi descritti in una o due righe, che ha avuto varie incarnazioni editoriali; lo ha fatto Thomas Bernhard, una tantum ma con risultati sbalorditivi (Eventi, SE, a cura di Luigi Reitani).

Lato lettore, di nuovo, ci vuole altrettanto impegno. Si richiede una partecipazione un po’ più attiva, non proprio come quella di compiere delle scelte all’interno di una storia, ma di compiere una continua scelta, dentro e fuori dalla storia. Perché si sa, un altro difetto dei racconti è che finiscono subito, e una volta finito uno bisogna compiere il gesto materiale di girare pagina, il gesto mentale di immergersi in un nuovo mondo. C’è la necessità di diventare lettori trasversali, autonomi, creativi. Passare da un libro all’altro, leggere più cose contemporaneamente, abbandonare e riprendere, affollare comodini, cercare stralci sui blog. È difficile, è faticoso, è bellissimo.

 

 

⏦.

Su ciò di cui non si può parlare, si deve

 

 

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Dario De Marco

È nato a Napoli e vive Torino. Giornalista, è stato in redazione a Giudizio Universale e Esquire Italia; si occupa di cultura e gastronomia su Artslife, CheFare, Dissapore, Esquire, L’Indiscreto, L’Integrale, Singola. Scrittore, ha pubblicato un’autobiografia in forma di romanzo (“Non siamo mai abbastanza”, 66thand2nd) e una in forma di saggio (“Mia figlia spiegata a mia figlia”, LiberAria); nel 2021 è uscita quella in forma di racconti, “Storie che si biforcano” (Wojtek). Sempre nel 2021 è uscito “Alla ricerca della pizza perfetta. Un viaggio sentimentale” (66thand2nd).

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