Competenze e valutazione

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Le competenze vanno valutate, certo. Ma ci sono due modi per farlo: quello matematico dei test INVALSI, che si limita a misurare il presente, e quello qualitativo, attento ai tempi lunghi di ogni processo di maturazione.

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Nel corso di questi ultimi anni i docenti delle scuole di ogni ordine e grado sono stati posti di fronte a termini non ben definiti, non chiari. È il caso delle seguenti espressioni: abilità, competenze, conoscenze. Sulle definizioni di queste parole vi è una convergenza di idee; così, le abilità indicano le capacità di applicare conoscenze e di usare know-how per portare a termine compiti e risolvere problemi; le conoscenze indicano il risultato dell’assimilazione di informazioni attraverso l’apprendimento; le competenze indicano la comprovata capacità di usare conoscenze, abilità, capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro, di studio e nello sviluppo professionale e/o personale.
Con il decreto ministeriale 9 del 2010 viene stabilito l’obbligo della certificazione delle competenze acquisite dagli studenti che completano il proprio ciclo decennale di studi. Questa richiesta ha rappresentato una novità per la scuola italiana, che è stata chiamata a valutare non solo le conoscenze e le abilità degli studenti, ma anche le loro competenze in contesti reali o verosimili.

Il nuovo bambino? Competente!
Come superamento della concezione del bambino “tutto intuizione, fantasia e sentimento” si è proposto quella del “bambino competente”. Secondo tale prospettiva, il mondo della scuola si attendeva chiari e precisi orientamenti sin dal momento in cui si è avviato il discorso sui contenuti essenziali della scuola dell’autonomia. Si aspettava che anziché il sapere e le conoscenze essenziali, venissero privilegiate le capacità, le competenze essenziali.
In effetti sul sito dell’INDIRE vi sono indicazioni specifiche al riguardo, utili soprattutto per dettagliare che cosa si intenda per competenza e come essa debba essere valutata e certificata, ma come scrive Goleman: «La nuova misura di eccellenza dà per scontato il possesso di capacità intellettuali e di conoscenze tecniche sufficienti a svolgere il nostro lavoro. Invece, punta principalmente su qualità personali come l’iniziativa e l’empatia, la capacità di adattarsi e d’essere persuasivi».
Per perseguire questo importante e fondamentale obiettivo, occorre che l’insegnante sia competente in campo pedagogico e metodologico-didattico. Anche per lui occorre prevedere parametri in base ai quali misurare, valutare queste competenze (un annoso problema che, nonostante le iniziative di alcuni ministri della pubblica istruzione, non sarà mai risolto).
Oltre alle indicazioni, l’INDIRE ha fornito un modello in base al quale certificare le competenze. Occorre, però, superare questa fase, questa proposta ragionieristico-burocratica e avere l’ardire di volare alto, d’impostare un insegnamento di alto profilo se si vuole che la scuola italiana (tutta) competa alla pari con quella delle altre nazioni.

Valutare è ben più che misurare
Quindi, sì alle competenze, no a un computo matematico per valutarle; si è assistito, infatti, a una levata di scudi contro le prove INVALSI che, per molti docenti, non rendono giustizia al loro impegno nel far acquisire agli alunni le famigerate competenze, né al loro sforzo per conseguirle.
Occorre perciò ribadire che la scuola dell’autonomia ha un preminente carattere formativo; che essa mira non tanto all’acquisizione delle conoscenze, quanto a promuovere la capacità di utilizzarle. Occorre mettere al primo posto le motivazioni, gli interessi, gli atteggiamenti.
Come recitano i programmi didattici del 1955: «Scopo essenziale della scuola non è tanto quello di impartire un complesso determinato di nozioni, quanto di comunicare al fanciullo la gioia e il gusto di imparare e di fare da sé, perché ne conservi l’abito oltre i confini della scuola, per tutta la vita». Anche nel cosiddetto “documento dei saggi” sui saperi essenziali si ritrovano alcune affermazioni orientate in tal senso, ad esempio che: «La lettura va intesa e sollecitata anche come emozione immediata e bisogno-piacere inesauribile».
Per compiere il tanto sospirato salto di qualità occorrerebbe che la scuola abbandonasse la prospettiva nozionistica che ancora la pervade e concedesse spazio agli atteggiamenti, alla motivazione. Ogni docente, entrando in aula, dovrebbe domandarsi non solo che cosa deve insegnare, ma quali sono le capacità che gli alunni debbono apprendere e soprattutto quali sono gli atteggiamenti che egli deve suscitare nei singoli alunni.
Maragliano, in Sintesi dei lavori della commissione dei quarantaquattro saggi sui saperi essenziali, 1997, scrive: «Compito prioritario della nuova scuola è la creazione di ambienti idonei all’apprendimento che abbandonino la sequenza tradizionale fra lezione, studio individuale e interrogazione, per dar vita a comunità di discenti e docenti impegnati collettivamente nell’analisi e nell’approfondimento degli oggetti di studio e nella costruzione di saperi condivisi». Si tratta, quindi, di un’impostazione seminariale e laboratoriale; non dice, infatti, che «integrino», ma che «abbandonino» la sequenza tradizionale.

A questa proposta si aggiungono le dichiarazioni della commissione ristretta sui saperi essenziali, che afferma la «pari dignità» della parola scritta, dell’immagine, del suono e di tutti i saperi disciplinari, in quanto «tutti prodotti dalla mente umana».
Il percorso che conduce al possesso della competenza è quindi lungo, e le indicazioni fornite dall’INDIRE per il riconoscimento d’una competenza sono sì corrette ma non complete, in quanto occorre vedere l’alunno in modo “olistico” e tali indicazioni non lo consentono. Sono finalizzate al qui e all’ora, mentre se si vuole che l’alunno mantenga e coltivi l’interesse per il sapere, per la sua crescita umana, non ci si deve fermare a un arido elenco di punti sulla cui base certificarlo come soggetto competente.
Infatti, dall’attenzione ai processi di apprendimento dei singoli allievi si è passati a una maggiore considerazione dei risultati di tali processi (certificazione delle competenze, in termini di risultati, al termine della scuola primaria e secondaria). Una valutazione che, invece, non tenga conto di tutto il processo e si fermi a celebrare solo l’atto finale non ha senso, in quanto la valutazione è un’azione di processo che ha bisogno di costruirsi con una forte attenzione ai livelli di partenza degli apprendimenti e delle abilità sociali.
In sintonia con tali considerazioni è il contenuto della circolare 84 del 2005, in cui si sottolinea la necessità di «disporre di tempi lunghi per poter procedere a una affidabile certificazione» e di conseguenza rende obbligatoria la compilazione del documento alla fine della scuola primaria e di quella secondaria di primo grado. La circolare aggiunge poi che: «A tal fine è opportuno che i docenti rilevino e registrino in itinere, e in forma documentale, la maturazione delle competenze personali degli alunni».
Da questi due diversi approcci alla competenza, derivano modi diversi di progettare lo studio e l’impegno. Un cambiamento relativo e di facciata, se si ritiene competente l’alunno che è in grado di rispondere positivamente alle domande, ai quesiti dell’INVALSI. Un cambiamento profondo, se l’alunno trasforma conoscenze e abilità in un habitus che rimarrà per tutta la vita, arricchendosi con il trascorrere del tempo.
Il problema della valutazione non è tanto assegnare un voto, quanto analizzare tale votazione, capire cosa contiene o sottende, come l’alunno vi sia arrivato, che cosa ha fatto la scuola per condurvelo, quali possibilità egli ha di progredire e quali pericoli esistano che torni indietro.

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Ugo Avalle

Pedagogista-formatore e docente a contratto presso l’Università degli studi di Torino.

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