Come una spada. La via dello smartphone: riflessioni sul cellulare a scuola

Tempo di lettura stimato: 6 minuti
Lo smartphone può essere un’arma che fa danni. In una società in cui i dispositivi digitali sono onnipresenti, è dunque necessario attivare pratiche per educare a un uso responsabile ed eticamente consapevole. Il divieto del cellulare nella didattica alle superiori comporta la rinuncia a un gradualismo pedagogico che andrebbe invece favorito, valorizzato e sostenuto, promuovendo buone pratiche.

studenti che usano il cellulare in classe per un progetto didattico, guidati dall'insegnante

Immaginiamo una società guerriera medioevale. Ci sono spade ovunque e tutti le sanno usare. Come si educheranno i giovani all’uso della spada in quella società? Di sicuro non la si metterà in mano a un bambino, perché le probabilità che si faccia male e che lo faccia ad altri sono altissime. In questo senso, un divieto è una buona misura: unisce prudenza e buon senso. Se si vuole educare alla spada, non se ne vieterà però l’uso per sempre.

Nel mondo anglosassone si è affermato, in ambito pedagogico-educativo, il concetto di scaffolding (impalcatura). L’idea è che per portare qualcuno a maturare un’abilità lo si accompagna gradualmente, passo per passo, portandolo progressivamente ad acquisire tecnica e consapevolezza. Perciò si comincerà, per tornare all’esempio, col mettere in mano all’adolescente un bokken (una spada di legno). Gli si insegnerà a impugnarlo (dove posizionare le mani, come usare il palmo della mano), gli si spiegherà l’importanza del mignolo per l’impugnatura. Gli si insegnerà poi a riporre nel fodero e a sfoderare il bokken etc. Scoprirà che estrarre una spada è qualcosa di molto più complesso che il semplice gesto del braccio: tutto il proprio corpo e anche il proprio spirito vi è coinvolto. Le esercitazioni teoriche si affiancheranno a tanto esercizio pratico. Solo quando sarà pronto, potrà maneggiare una spada di metallo, ma la prima su cui continuerà ad allenarsi non avrà la lama affilata.

A tanta pratica si accompagnerà anche una formazione etica: acquisire l’arte della spada passa per una formazione complessiva dell’essere umano alla nobiltà di spirito, alla gentilezza, alla presa di coscienza del fascino bello e terribile dell’arma: uno strumento che va trattato con cura e rispetto, cura e rispetto da avere verso ogni altra cosa, verso ogni altra persona. Riflettere sull’educazione giapponese all’uso della spada, che applica da secoli le “invenzioni” della recente pedagogia costruttivista, ci aiuta a capire come dovrebbe avvenire nella nostra società l’educazione all’uso del cellulare.

Divieti, responsabilità e vera educazione digitale

In questo senso, vietare l’uso del cellulare agli adolescenti per metà giornata, lasciandoli poi fare ciò che credono appena finisce il divieto, non sembra essere, propriamente, un atto educativo. Esso serve, al massimo, a mettere al riparo la scuola da una serie di problemi che effettivamente si sono verificati e che potrebbero ripresentarsi. Vengono in mente, per fare due esempi anche di cronaca, gli studenti che registrano le loro bravate a scuola, o che usano i cellulari per riprendere situazioni imbarazzanti per umiliare compagni e docenti. I cellulari, per il potenziale negativo che portano con sé, se usati senza una adeguata coscienza etica, sono effettivamente un’arma tagliente.

Nella nostra società dell’informazione la rapida diffusione dei dati, il loro impatto su un vasto pubblico e il diritto all’oblio non più garantito sono elementi che potenzialmente producono ferite profonde, gravi e drammaticamente permanenti, se non addirittura tragiche. Di fronte a un problema come quello dell’uso del cellulare, indubbiamente molto serio, la soluzione più facile è il divieto, ma non credo che sia quella più opportuna. In educazione i divieti, quando rivolti a persone che dovrebbero cominciare a usare con consapevolezza certi strumenti, consistono nella dismissione di una responsabilità formativa che la scuola invece dovrebbe assumersi.

Perché vietare in una classe del triennio delle superiori l’uso del cellulare, se avviene per motivi didattici e con la guida e la supervisione del docente? Dispiace che proprio nell’ambito in cui il docente dovrebbe avere piena sovranità, perché professionalmente è di sua competenza, gli venga, anche se solo di misura, sottratta la facoltà di decidere.

Sostenere che a scuola non c’è bisogno dei cellulari, perché tanto ci sono già computer e tablet, non mi pare convincente. Ormai, come sappiamo, specie se sono strumenti proprietari, parte di uno stesso ecosistema tecnologico, vige l’intercambiabilità funzionale: smartphone, tablet e computer sono interfacce differenti per compiere, in sostanza, le stesse operazioni. Si accede ai social tanto da smartphone quanto da tablet, si accede agli stessi programmi di messaggistica su ciascun dispositivo elettronico. Vero è che coi computer o coi tablet non si telefona, ma stiamo davvero impedendo agli studenti di telefonare mentre fanno lezione? Questa è la ragione per cui si vieta il cellulare a scuola? È difficile crederlo. Si possono fare foto malandrine e registrazioni audio pirata con ciascuno dei device elettronici suggeriti in sostituzione del cellulare. Dunque qual è il vantaggio del divieto?

Il digital divide e l’equità tra studenti

Sostenere poi che ormai tutte le scuole dispongono di tablet e computer è irrealistico: è vero che ce ne sono, ma di solito non bastano per tutti gli studenti, né è detto che ci sia il personale per configurarli e controllarne l’utilizzo (per esempio attraverso l’attivazione del parental control e di filtri per quanto riguarda l’accesso alla rete). Succede allora che chi si può permettere tablet e computer di famiglia potrà continuare a fare ciò che faceva prima, per l’interoperabilità dei device e la cross-device continuity. Gli altri studenti avranno l’attrezzatura della scuola, meno performante (la spesa scolastica sui device, per quanto alta, è in fisiologico affannoso ritardo sull’evoluzione tecnologica), e subiranno un digital divide se non addirittura uno stigma sociale. In ogni caso, il docente, non potendo contare su una dotazione omogenea da parte della classe, dovrà rinunciare a certe attività didattiche di qualità; inoltre, le scuole si troveranno obbligate ad avviare misure repressive non condivise.

Regolare l’uso, non semplicemente vietare

Merita leggere l’interessante documento: A focus on adolescent social media use and gaming in Europe, central Asia and Canada (2024). Esso effettivamente denuncia un problema: «L’uso diffuso – e fino a poco tempo fa in gran parte non regolamentato – dei dispositivi digitali nelle aule (e al di fuori di esse)»(p. 35). Si noti che il documento, in fase conclusiva, cioè quella da cui il passo è tratto, si esprime su tutti i dispositivi digitali, non solo gli smartphone. Il documento auspica poi la regolamentazione dell’uso dei dispositivi digitali, ma non il loro divieto, tanto meno il loro divieto in un’attività didattica guidata e rivolta ad adolescenti («Education policy reforms – including expanding early childhood education, measures to improve teacher quality, providing homework support, and regulating unstructured internet and digital device use in schools – could boost PISA scores», ibidem – grassetto mio).

Una proposta costruttiva per il futuro

Concludendo, mi piace fantasticare. Quanto sarebbe bello se si puntasse a una politica sociale che individui forme e momenti di formazione all’etica dell’informazione e del digitale; che sensibilizzi le famiglie a guidare i giovani all’uso consapevole e responsabile del digitale; che favorisca un’alleanza educativa tra famiglia e scuola; che supporti i docenti, fornendo linee guida per educare al digitale che siano chiare ed efficaci; che diffonda e promuova le buone pratiche; che stabilisca una gradualità nell’accesso alla tecnologia, evitando cesure nette e rigidi divieti. Non basta dire “no” per formare un giovane: bisogna saper mostrare anche “come sì”, “quando no” e, soprattutto, saper dare le ragioni del “perché no”.

Condividi:
Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

Contatti

Loescher Editore
Via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino

laricerca@loescher.it
info.laricerca@loescher.it